mercoledì 5 marzo 2014

Il Partito popolare italiano tra biennio rosso e biennio nero

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 marzo 2014)
 
In virtù dell'inaspettato successo conseguito alle elezioni del novembre del 1919, il PPI assunse responsabilità di governo. Tuttavia il rapporto con il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, si rivelò alquanto complicato, soprattutto poiché quest’ultimo mostrò in più occasioni maggiore condiscendenza verso il PSI che nei confronti di don Sturzo. Un esempio concreto fu l’atteggiamento di superficialità con cui il governo tollerò le ripetute violenze dei socialisti a danno dei popolari, forse per timore che la situazione degenerasse e gli scontri assumessero carattere rivoluzionario. La situazione parve migliorare con il ritorno al potere di Giolitti. Il programma politico dello statista di Dronero piacque ai popolari, in particolare per l’impegno in favore dell’attuazione di importanti riforme sociali ed economiche. Filippo Meda e Giuseppe Micheli entrarono nel governo, a riprova di una sintonia che fece ben sperare buona parte dell’opinione pubblica rispetto alla possibilità di uscire dalla turbolenta crisi del dopoguerra. Presto però ci si accorse che si era ben lontani dal raggiungimento di un clima di pace. Nel settembre del 1920, dopo che agitazioni e violenze avevano creato scompiglio in tutto il paese, lo sciopero degli operai metallurgici a Torino e Milano culminò con l’occupazione delle fabbriche. Don Sturzo, allarmato da queste vicende, convocò a Roma alcuni rappresentanti politici e sindacali e fece votare un ordine del giorno in cui si approvava il progetto della CIL mirante a favorire la compartecipazione degli operai alla gestione e agli utili delle aziende. Giolitti, sul cui appoggio i cattolici avevano confidato, emanò un decreto per l’istituzione di una «Commissione paritetica per la soluzione del conflitto metallurgico», ma a far parte di essa chiamò solo i rappresentanti dei sindacati socialisti. Fu l’inizio delle incomprensioni tra l’anziano politico piemontese e i popolari, le quali avrebbero inesorabilmente favorito l’avanzata fascista.
La conclusione pacifica dello sciopero (furono concessi alcuni benefici salariali agli operai, ma al contempo svanì il sogno delle forze di sinistra di far assumere alla protesta una valenza rivoluzionaria) diede forza al movimento mussoliniano, che da questo momento divenne il principale punto di riferimento della lotta antisocialista. Le violenze perpetrate nel corso del cosiddetto «biennio rosso» furono utilizzate dai fascisti come pretesto per legittimare le proprie spedizioni punitive, che godettero di una certa tolleranza da parte di istituzioni sempre più incapaci di far rispettare l’autorità dello Stato. Giolitti si illuse di poter sfruttare Mussolini per rafforzare i liberali: indisse così nuove elezioni per il maggio del 1921, favorendo l’ingresso dei fascisti nei blocchi nazionali. Questi ultimi ottennero 35 seggi; il PPI si mantenne stabile (20,4%), mentre il PSI (24,7%) arretrò di circa 200.000 voti.
Subito dopo le elezioni Giolitti fu costretto alle dimissioni in seguito ad un dissidio sorto sull’indirizzo della politica estera e l’incarico di formare un nuovo governo fu assunto da Ivanoe Bonomi, che ebbe tre ministri popolari. Il maggior peso politico del partito sturziano spinse le squadre fasciste a colpire con atti di violenza numerose organizzazioni cattoliche. L’obiettivo di Mussolini, che nel frattempo strinse rapporti sempre più amichevoli con la Santa Sede, era quello di emarginare il PPI dalla vita politica italiana: se le devastazioni servivano per colpire alla base l’organizzazione del movimento cattolico, i contatti con il Vaticano miravano a creare un rapporto di collaborazione tra fascismo e Chiesa, allo scopo di indurre il pontefice a fare a meno del PPI come strumento di tutela indiretta degli interessi dei cattolici.
La difficile situazione fu affrontata dai popolari nel corso del congresso di Venezia, tenutosi nell’ottobre del 1921. L’ordine del giorno che venne approvato giudicò la collaborazione di governo coi liberali «una necessità imposta dal dovere di far funzionare l’istituto parlamentare», ma non prese una posizione netta in merito al comportamento che il partito avrebbe dovuto tenere per fronteggiare la crisi. Sottolinea al riguardo Giorgio Candeloro: «La possibilità di una collaborazione coi socialisti, o con una parte di essi, era indicata in questo ordine del giorno in modo indiretto, vago e cauteloso, mentre d’altra parte mancava una presa di posizione nei riguardi del fascismo. In sostanza, il partito popolare assumeva a Venezia una posizione attesista».
L’incalzare degli avvenimenti non favorì del resto lo sviluppo di un programma comune con i socialisti. Nel febbraio del 1922 una crisi extraparlamentare fece cadere il governo Bonomi. Don Sturzo, che con gli anni aveva maturato un deciso antigiolittismo, si oppose al ritorno al potere dello statista piemontese con un «veto», che Luigi Salvatorelli ha giudicato – in quanto escludeva dal governo il politico più esperto ed abile – «il principale antefatto della Marcia su Roma». Presidente del Consiglio fu eletto allora il debole Luigi Facta, nel cui gabinetto entrarono tre ministri popolari. Ma ormai la situazione era compromessa. Incapace di replicare alle continue prove di forza dei fascisti, che agivano sempre più indisturbati nell’illegalità, il governo fu di fatto esautorato dal re, che consegnò il potere a Mussolini prendendo atto della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Nel frattempo, il 22 gennaio di quello stesso anno era morto Benedetto XV, cui era succeduto, assumendo il nome di Pio XI, Achille Ratti. Sin dai primi mesi del pontificato il nuovo papa si preoccupò di riorganizzare la struttura dell’Azione cattolica, allo scopo di legarla più strettamente all’autorità ecclesiastica. L’associazione fu divisa in quattro rami: Federazione italiana uomini cattolici, Società della gioventù cattolica italiana, Federazione universitaria e Unione femminile cattolica italiana. La Giunta centrale rimaneva l’organo supremo di direzione e di coordinamento, cui vennero successivamente affiancati alcuni Segretariati (per scuola, per la cultura, per la moralità). In questo modo, spiega Alfredo Canavero, «il campo di attività dell’Azione cattolica veniva a coincidere con quello della Chiesa, eminentemente spirituale e non terreno, religioso e non politico»; e il Vaticano ebbe così a disposizione uno strumento potenziato e più controllabile per interagire con la società italiana.
Al riguardo, vista l'importanza del tema, giova leggere l'acuta analisi di Guido Formigoni: «All’interno di questo disegno va letta la strategia impressa dal papa a tutta la Chiesa, nella fase storica resa difficile soprattutto dal fenomeno dei totalitarismi a sfondo ideologico. La condanna delle ideologie totalitarie non era in discussione […]. Ma dal punto di vista pratico, nella situazione italiana, papa Ratti non giudicava negativamente l’avvento di un regime conservatore e autoritario, che ponesse fine ai disordini permessi dall’irresistibile decadenza della liberaldemocrazia italiana, che non potevano non preoccupare fortemente per la stessa continuazione della vita pastorale. Fin dal 1922, e poi con sempre maggiore convinzione, egli riteneva perciò che la Chiesa dovesse trovare un modus vivendi con il nuovo governo, confermando successivamente questa convinzione anche di fronte alla costituzione di un regime dittatoriale. La via praticabile per questo obiettivo pareva identificabile nella ricerca di buone relazioni di vertice con lo Stato, anche in vista della possibile soluzione della questione romana, ma soprattutto per poter ottenere una serie di garanzie per la missione ecclesiale di ricristianizzazione integrale della società. In questo quadro un importante ruolo era rivestito dall’AC, come strumento laicale per salvaguardare uno spazio storico per la missione della Chiesa nella società, capace di rispondere alla preoccupante “apostasia delle masse”. Ciò implicava una revisione del passato, in primo luogo attuata con una decisa “spoliticizzazione” dell’AC, che da questo momento inaugurò la nota formula per cui riteneva se stessa “al di fuori e al di sopra della politica”. L’organizzazione fu indotta a prender le distanze dalla vita politica, soprattutto nel senso di rompere i legami con il PPI e le altre organizzazioni cattoliche sociali. Ciò sia per non essere coinvolti dalla repressione fascista, sia per evitare che le contrapposizioni di vedute politiche, ormai molto nette tra i cattolici, intaccassero l’unità ecclesiale. Al fondo riemergeva la tesi dell’indifferenza verso la politica, di lunga tradizione nel cattolicesimo intransigente».
Per il PPI la riforma di Pio XI fu quindi un altro duro colpo. Sottolineare l’apoliticità dell’Azione cattolica significava imporre ai cattolici l’accettazione del potere costituito, ossia il fascismo. La Santa Sede, del resto, divenne sempre più scettica di fronte alla reale utilità del partito di don Sturzo. Ora che lo Stato liberale era crollato – ha rilevato Francesco Malgeri –, «la funzione del popolarismo, di difesa degli interessi della Chiesa e dei cattolici in un ambiente politico anticlericale e laico diveniva superflua di fronte ad un governo che proclamava il suo ossequio alla Chiesa e assumeva gli interessi cattolici». Tanto valeva trattare direttamente con Mussolini, il quale peraltro stava aumentando i consensi tra quella piccola e media borghesia oggetto delle attenzioni del PPI. Al programma socialmente orientato a sinistra di quest’ultimo (che fu peraltro accusato di rivoluzionarismo e di «bolscevismo bianco»), si preferirono i metodi fascisti, cui si doveva, nonostante tutto, il ritorno all’ordine. 

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