(articolo apparso su Prima Pagina del 16 marzo 2014)
Nel clima turbolento dei mesi immediatamente seguenti
alla Marcia su Roma si tenne a Torino, nell’aprile del 1923, il congresso del
Partito popolare. Il principale argomento di discussione fu la convivenza con
il fascismo, tema scottante anche in considerazione del fatto che nel governo
Mussolini, nonostante don Sturzo avesse manifestato il suo disaccordo, erano
presenti due ministri del PPI. Il sacerdote di Caltagirone pronunciò un
discorso dal quale – rileva Francesco Malgeri – «usciva chiaro il disegno di un
partito che nella concezione dello Stato, nella visione internazionale, nelle
rivendicazioni sociali, nel rispetto della democrazia, delle libertà
costituzionali e del parlamento, si poneva in antitesi con l’ideologia e i
metodi del fascismo». La replica di Mussolini fu quanto mai scaltra. Siccome
aveva in mente di far approvare una nuova legge elettorale maggioritaria (legge
Acerbo) – ed era al corrente che su questo terreno si sarebbe inevitabilmente
scontrato con i popolari –, da un lato minacciò di intraprendere una dura
campagna antireligiosa se il PPI avesse votato contro, dall’altro fece varare
la riforma della scuola elaborata da Giovanni Gentile, che sapeva gradita ai
vertici della Chiesa. Era la cosiddetta tattica «del bastone e della carota»,
che mirava a fare concessioni al Vaticano in cambio, sostanzialmente, della
testa di don Sturzo e del suo partito. Come ha notato sempre Malgeri, oltre
alle blandizie Mussolini «non mancò di usare veri e propri ricatti nei
confronti delle gerarchie ecclesiastiche, al fine di liquidare Sturzo,
approfittando del fatto che il segretario politico del Partito Popolare era un
sacerdote, soggetto alla disciplina e al dovere dell’obbedienza». E la Santa
Sede – temendo che le violenze contro i cattolici si intensificassero –
accontentò il capo del governo, invitando il segretario del PPI a dimettersi.
La legge Acerbo fu così approvata, e il fascismo si consolidò ulteriormente.
«Il Partito fascista avrebbe realmente tradotto in effetti la sua minaccia?»,
si è chiesto Gabriele De Rosa. Una risposta netta non è possibile. Certo è che
– argomenta lo storico – don Sturzo, al di là delle pressioni, non se la sentì
di rischiare e preferì cedere al ricatto fascista onde evitare ripercussioni
sul partito.
Privato del carisma del suo storico leader, abbandonato
al suo destino dalla politica di Pio XI e fatto oggetto di continui attacchi e
devastazioni da parte dei fascisti, il PPI non seppe più risollevarsi. Alle
successive elezioni del 1924 ottenne solo 40 seggi alla Camera e, in seguito
all’assassinio di Giacomo Matteotti, aderì alla «secessione dell’Aventino».
Quando, il 16 gennaio del 1926 – ovvero pochi giorni dopo l'instaurazione della
dittatura –, i deputati popolari decisero di rientrare a Montecitorio, i
fascisti li allontanarono con la forza. Nel novembre di quello stesso anno,
infine, in applicazione delle misure repressive emanate in seguito
all’attentato di Anteo Zamboni al duce, il prefetto di Roma sciolse
definitivamente il PPI. Parallelamente al partito furono soppresse anche le
organizzazioni economiche e sociali del movimento cattolico: in particolare
alla CIL fu negata la possibilità stessa di esistere, dal momento che i datori
di lavoro sottoscrissero il Patto di Palazzo Vidoni, secondo il quale veniva
riconosciuta ai soli sindacati fascisti la rappresentanza dei lavoratori.
Mussolini, nonostante il suo schietto anticlericalismo,
si rendeva perfettamente conto che la risoluzione della «questione romana»
avrebbe procurato alla sua persona un enorme consenso. In quest’ottica,
nel 1923 chiese ed ottenne un incontro con il cardinal Pietro Gasparri, il
quale – in sintonia con il capo del governo – convenne sull’opportunità di
migliorare i rapporti tra Stato e Chiesa. I contatti si mantennero frequenti
fino al 1926, quando cominciarono le trattative vere e proprie. Il 5 agosto
Domenico Barone, consigliere di Stato, e Francesco Pacelli, fratello del futuro
papa Pio XII, si incontrarono per la prima volta, e nell’ottobre dello stesso
anno furono ufficialmente incaricati da governo e Santa Sede di condurre le
trattative. Le difficoltà incontrate furono diverse. In particolare, in seguito
all’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla, fu approvata una norma che
vietava ogni altra organizzazione per l’educazione dei giovani e stabiliva lo
scioglimento di quelle esistenti nei centri che contavano meno di 20.000
abitanti. Il papa volle evitare disordini e non protestò più di tanto; ma al
contempo si irrigidì in materia di Concordato, ossia rispetto ai principi
secondo cui regolare i rapporti tra Stato e Chiesa. Gli ostacoli furono
comunque superati, anche perché un accordo era nell’interesse di tutti. L’11
febbraio 1929 vennero firmati i Patti lateranensi, che constavano di tre parti:
un Trattato, secondo il quale veniva risolta la «questione romana» e la Santa
Sede riconosceva «il Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale
dello Stato italiano», in cambio dell’elevazione del cattolicesimo a religione
di Stato e del riconoscimento di alcuni privilegi (su tutti la sovranità sul
territorio del Vaticano); una Convenzione finanziaria, che prevedeva che lo
Stato pagasse un risarcimento alla Santa Sede per la perdita del Patrimonio di
S. Pietro; un Concordato, in base al quale venivano regolati i rapporti tra
Stato e Chiesa. Quest’ultimo, tra le altre cose, aboliva gli strumenti della
passata politica giurisdizionalista (placet
ed exequatur), riconosceva effetti
civili al matrimonio religioso e rendeva obbligatoria l’istruzione religiosa
sia nella scuola elementare che nella media.
La firma dei Patti lateranensi segnò uno dei punti più
alti della parabola di Mussolini. Lo stesso Pio XI definì il duce «l’uomo che
la Provvidenza ci ha fatto incontrare», e in questo modo – come ha rilevato Giorgio
Candeloro – implicitamente diede «al regime fascista un riconoscimento morale
[…] che i suoi predecessori avevano sempre negato ai governi liberali». Di
fatto, la fiducia del pontefice in Mussolini si dimostrò così salda da reggere
ad urti potenzialmente destabilizzanti, come gli assassinii di don Minzoni (23
agosto 1923) e di Matteotti. A nulla valsero gli appelli dei popolari
antifascisti affinché il Vaticano prendesse le distanze da quello che Emilio
Gentile ha definito «“cesaropapismo” in camicia nera», ovvero un novello
paganesimo che «idolatrava la nazione e lo Stato come le divinità di una nuova
religione». Pio XI aveva ormai scelto di puntare su Mussolini sia per la
tradizionale ostilità della Chiesa nei confronti di quello Stato liberale che
l'aveva privata del potere temporale, sia per il timore che la democrazia
costituisse l'anticamera del bolscevismo.
È sufficiente, del resto, rileggere due giudizi del
pontefice a proposito di Mussolini – espressi nei primi anni Venti – per
comprendere che difficilmente la Santa Sede avrebbe fatto
marcia indietro.
Nel 1921, durante un colloquio privato cui assistette un
giornalista francese, il futuro Pio XI si era sbilanciato a proposito del duce:
«Mussolini, un uomo formidabile: avete compreso bene? Formidabile [...] che
avanza a grandi passi e invade tutto come una forza di natura. È un neoconvertito,
perché viene dai ranghi dell’estrema sinistra, e dei novizi ha lo zelo che lo
spinge ad andare avanti. E poi, afferra dai banchi di scuola i suoi seguaci e,
in un colpo, li innalza alla dignità di uomini, e di uomini armati. E li
seduce, li fanatizza, regna sulla loro immaginazione. Vi rendete conto di quel
che ciò significa, e quale forza è nelle sue mani? [...]. Lui è l’avvenire».
E ancora, due anni dopo, durante un colloquio con
l'ambasciatore belga, il papa non aveva lesinato entusiastici elogi al capo del
governo: «Mussolini non è un Napoleone, e forse neppure un Cavour, ma egli solo
ha avuto una comprensione precisa di ciò che era necessario al suo paese per
liberarlo dall’anarchia alla quale l’avevano ridotto un parlamentarismo
impotente e tre anni di guerra. Vedete come abbia la nazione dietro di sé.
Possa egli rigenerare l’Italia».
Nelle aspettative di Pio XI, Mussolini era quindi l'uomo
inviato dalla Provvidenza per mezzo del quale Stato e Chiesa si sarebbero finalmente
riconciliati dopo oltre mezzo secolo di «questione romana». Come ha scritto
Gentile, si trattava di «restituire la Chiesa all’Italia e l’Italia alla
Chiesa»: un progetto ambizioso, che riuscì solo in parte.Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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