(articolo apparso su Prima Pagina del 9 marzo 2014)
Si sente spesso ripetere, in
televisione o sui giornali, che gli italiani sono un popolo allergico alle
tasse. Alte o basse che siano, quando si pronuncia la parola «imposta»
l'abitante del Bel Paese storce inevitabilmente il naso, avvertendo come un
senso di frustrazione per quello che non riesce a considerare altro che un
furto legalizzato. La pressione fiscale – quante volte l'abbiamo sentito! – è
così elevata che sembra quasi di lavorare gratis: avanti di questo passo, e in
tasca alla gente (a quella che si dà da fare, s'intende) non resteranno nemmeno
gli spiccioli.
Eppure, tra rate IMU, bolli, accise e
chi più ne ha più ne metta, c'è – e non sono pochi – chi trova la voglia di
pagare una gabella che lo Stato non impone, una sorta di contributo volontario
a beneficio di un erario che, evidentemente, fa pena quanto un mendicante sul
sagrato di una chiesa: si tratta della tassa del gioco. Cos'altro è, infatti,
il gioco d'azzardo se non una tassa che il cittadino decide volontariamente di
pagare, sedotto dalla prospettiva di riuscire a guadagnare ingenti somme di
denaro senza il minimo sforzo? Al di là della legittima facoltà che ciascuno ha
di spendere i propri soldi come meglio crede, il punto è che questo libero
contributo in favore delle casse dello Stato sta assumendo rapidamente
proporzioni preoccupanti: di fatto, nel momento in cui raggiunge il livello
della dipendenza, il gioco – si passi il bisticcio di parole – cessa di essere
un gioco, trasformandosi in grave patologia. La ludopatia, infatti, non è per
nulla uno scherzo. Come ha messo in evidenza il dottor Claudio Ferretti
(responsabile del Servizio Dipendenze Patologiche dell'AUSL di Modena) in
occasione di un incontro del LIONS Estense tenutosi lo scorso 6 febbraio,
quando il gioco diventa ossessione significa che dal vizio si è passati alla
malattia, con conseguenti sintomi psichici, fisici e sociali. Giusto per fornire
qualche dato, nel comune di Modena i giocatori sarebbero circa 70.000, dei
quali oltre 2.000 patologici. E il trend, a causa soprattutto di slot-machine e
videopoker – che, oltre ad essere presenti pressoché in tutti i bar, hanno il
"vantaggio" di dare risposte immediate al giocatore sull'esito della
puntata –, è in costante aumento.
Se si è deciso, con un pizzico di
ironia, di giustapporre la ludopatia e l'insofferenza nei confronti
dell'elevata pressione fiscale, non è stato – va da sé – per mancanza di
rispetto nei confronti di un problema tutt'altro che trascurabile. Anzi, l'idea
sarebbe proprio quella – suggerita anche nel corso dell'incontro summenzionato
– di predisporre adeguate linee difensive sotto forma di prevenzione primaria,
invitando i potenziali giocatori a riflettere su un dato di fatto: chi ci
guadagna è, in primis, lo Stato.
Altro che condanna morale del gioco e prese per i fondelli – ahimè così diffuse
nelle pubblicità televisive – del tipo «gioca con cautela»!
Per lo Stato, infatti, il gioco
d'azzardo è una gallina dalle uova d'oro. Cosa c'è di meglio, in effetti, che
farsi regalare dei soldi dai cittadini? È questo, del resto, il ragionamento
che sta alla base di quella che è senz'altro la svolta epocale nella storia del
gioco d'azzardo, ovvero l'intuizione, da parte dell'autorità, che è molto più
conveniente e redditizio sfruttare il gioco d'azzardo piuttosto che punirlo e
condannarlo. Non si tratta, si badi, di una cosa scontata. Il gioco d'azzardo
esiste più o meno da sempre, ma solo nel corso del XIII secolo (quindi in piena
età comunale) si cominciò a pensare che una legittimazione controllata delle
pratiche ludiche con scommesse di denaro avrebbe procurato enormi benefici di
natura fiscale. È la comparsa, in altre parole, del cosiddetto datium ludi la prova che alla condanna
morale del gioco – mai venuta meno, nemmeno ai giorni nostri – si era accostata
una certa tolleranza, secondo una logica che, a ben vedere, è molto simile a
quella che in molti paesi è oggi all'origine della tassazione delle prostitute.
Trarre profitto dal gioco, in sostanza, equivale a degradare (o ad elevare, a
seconda dei punti di vista) alcune forme di immoralità da reato a diritto,
seppur censurabile, del singolo.
La questione, con tutta evidenza, è
niente affatto secondaria. A partire dal Duecento, un po' in tutta Europa
inizia a delinearsi una società dalla quale, pian piano, emerge un costume che
oggi viene dato per scontato, ma che invece ha incontrato molte difficoltà
prima di affermarsi. La condanna tradizionale del gioco – che in epoca romana e
ancora nell'Alto Medioevo nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in
discussione – si fondava sul disprezzo per le forme di guadagno ottenuto non in
conseguenza di attività meritorie, bensì con l'esclusivo aiuto della buona
sorte. Ad essa poi, in età comunale, si aggiunse lo sdegno per lo spreco, dal
momento che dopo la lunga depressione della tarda antichità il denaro aveva
acquistato un valore come distintivo di qualità.
Non fu dunque un percorso facile
quello che portò alla legalizzazione del gioco d'azzardo. Basti pensare che il
re di Francia Luigi IX (il Santo), per contrastare quella che reputava
un'abitudine degenerata, non solo proibì ai suoi funzionari di frequentare
bische e taverne, ma giunse persino a vietare, nel 1254, la fabbricazione di
dadi in tutto il regno. E ancora nel 1336, a Bologna, dove già da tempo si
lucrava sul gioco d'azzardo, la gabella sulla baratteria (era questo il termine
diffuso nel Medioevo, che va distinto dalla moderna accezione di reato di
corruzione commesso da un pubblico ufficiale) destava immensum scandalum e non
modica infamia, al punto che si decise di ripristinare, anche se solo per
qualche mese – constatata l'impossibilità di arginare una pratica enormemente
diffusa –, i vecchi divieti.
L'aspetto più importante che va
evidenziato è però il generale fallimento di simili provvedimenti. Quando si
comprese che il vizio del gioco era così ben radicato da risultare
inestirpabile, cominciò a farsi largo l'idea che, scandalo per scandalo, tanto
valeva guadagnarci su. Del resto quelli erano anni di grandi innovazioni nel
campo della pratica finanziaria (si pensi alle banche, alle assicurazioni, alla
legittimazione del prestito a interesse, alle società in nome collettivo: tutti
concetti e strumenti che vennero perfezionati nel corso del Medioevo, in
particolar modo in Italia), e certo non deve stupire più di tanto che fossero
approntate politiche fiscali sempre più raffinate. Si assistette così a un
ripensamento generale, caratterizzato da una maggiore tolleranza per il modicum ludere e, in particolare, per
quei giochi che non si basavano esclusivamente sulla fortuna, ma prevedevano
una non trascurabile componente di abilità.
Il percorso che portò
all'accettazione del gioco d'azzardo "pubblico", certo, non fu
lineare. In un primo momento si procedette con la concessione di deroghe in
occasione delle principali feste religiose (secondo la stessa logica che è alla
base del carnevale); e in breve si giunse ad un'espansione della permissività
che coinvolse anche il calendario laico, fino all'abolizione della temporaneità
dei permessi in favore dell'individuazione di luoghi ben definiti deputati,
stabilmente, ad ospitare il gioco. In questo modo, confinando le pratiche
ludiche in apposite aree controllate, veniva trovato un soddisfacente
compromesso tra la tradizionale condanna morale del gioco d'azzardo e la pressione
esercitata dalla capillare diffusione di comportamenti sociali giudicati,
oramai, incontrastabili.
Il fenomeno cui assistiamo oggi è
dunque solo la fase terminale di un processo avviato secoli fa. Sono cambiati
gli strumenti, ma la febbre del gioco non è certo un'invenzione dei nostri
tempi. Se anche Leonardo Fibonacci (il grande matematico fiorentino vissuto tra
XII e XIII secolo) nel suo Liber abaci
(l'opera, per intendersi, che introdusse in Europa le cifre arabe e il sistema
numerico decimale) si prese la briga di inserire alcune annotazioni su come
calcolare i punti usciti lanciando tre dadi, significa che anche i nostri
antenati erano, in fondo, un po' ossessionati dalle scommesse. Oggi come ieri è
quindi il caso di farsi la stessa domanda: ne vale la pena?
Focus:
Lo scorso 6 febbraio, in occasione di un incontro
organizzato dal LIONS Estense, sul tema delle ludopatie sono intervenuti il
dottor Claudio Ferretti (responsabile del Servizio Dipendenze Patologiche
dell'AUSL di Modena), che ha illustrato dati, ricerche e rimedi inerenti al
gioco patologico; il dottor Luciano Casolari (psichiatra e psicoterapeuta); e
Nives Cattelani (psicologa), che ha presentato il servizio «Scommetti su di
te», promosso dal CEIS (Centro Italiano di Solidarietà) di Modena. Scopo
dell'iniziativa è stata, da un lato, la sensibilizzazione dell'opinione
pubblica su un tema di scottante attualità; dall'altro, quello di suggerire
possibili percorsi di recupero destinati alle persone affette da ludopatia.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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