giovedì 13 marzo 2014

La tassa volontaria: l’origine dello sfruttamento statale del gioco d'azzardo

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 marzo 2014)

Si sente spesso ripetere, in televisione o sui giornali, che gli italiani sono un popolo allergico alle tasse. Alte o basse che siano, quando si pronuncia la parola «imposta» l'abitante del Bel Paese storce inevitabilmente il naso, avvertendo come un senso di frustrazione per quello che non riesce a considerare altro che un furto legalizzato. La pressione fiscale – quante volte l'abbiamo sentito! – è così elevata che sembra quasi di lavorare gratis: avanti di questo passo, e in tasca alla gente (a quella che si dà da fare, s'intende) non resteranno nemmeno gli spiccioli.
Eppure, tra rate IMU, bolli, accise e chi più ne ha più ne metta, c'è – e non sono pochi – chi trova la voglia di pagare una gabella che lo Stato non impone, una sorta di contributo volontario a beneficio di un erario che, evidentemente, fa pena quanto un mendicante sul sagrato di una chiesa: si tratta della tassa del gioco. Cos'altro è, infatti, il gioco d'azzardo se non una tassa che il cittadino decide volontariamente di pagare, sedotto dalla prospettiva di riuscire a guadagnare ingenti somme di denaro senza il minimo sforzo? Al di là della legittima facoltà che ciascuno ha di spendere i propri soldi come meglio crede, il punto è che questo libero contributo in favore delle casse dello Stato sta assumendo rapidamente proporzioni preoccupanti: di fatto, nel momento in cui raggiunge il livello della dipendenza, il gioco – si passi il bisticcio di parole – cessa di essere un gioco, trasformandosi in grave patologia. La ludopatia, infatti, non è per nulla uno scherzo. Come ha messo in evidenza il dottor Claudio Ferretti (responsabile del Servizio Dipendenze Patologiche dell'AUSL di Modena) in occasione di un incontro del LIONS Estense tenutosi lo scorso 6 febbraio, quando il gioco diventa ossessione significa che dal vizio si è passati alla malattia, con conseguenti sintomi psichici, fisici e sociali. Giusto per fornire qualche dato, nel comune di Modena i giocatori sarebbero circa 70.000, dei quali oltre 2.000 patologici. E il trend, a causa soprattutto di slot-machine e videopoker – che, oltre ad essere presenti pressoché in tutti i bar, hanno il "vantaggio" di dare risposte immediate al giocatore sull'esito della puntata –, è in costante aumento.
Se si è deciso, con un pizzico di ironia, di giustapporre la ludopatia e l'insofferenza nei confronti dell'elevata pressione fiscale, non è stato – va da sé – per mancanza di rispetto nei confronti di un problema tutt'altro che trascurabile. Anzi, l'idea sarebbe proprio quella – suggerita anche nel corso dell'incontro summenzionato – di predisporre adeguate linee difensive sotto forma di prevenzione primaria, invitando i potenziali giocatori a riflettere su un dato di fatto: chi ci guadagna è, in primis, lo Stato. Altro che condanna morale del gioco e prese per i fondelli – ahimè così diffuse nelle pubblicità televisive – del tipo «gioca con cautela»!
Per lo Stato, infatti, il gioco d'azzardo è una gallina dalle uova d'oro. Cosa c'è di meglio, in effetti, che farsi regalare dei soldi dai cittadini? È questo, del resto, il ragionamento che sta alla base di quella che è senz'altro la svolta epocale nella storia del gioco d'azzardo, ovvero l'intuizione, da parte dell'autorità, che è molto più conveniente e redditizio sfruttare il gioco d'azzardo piuttosto che punirlo e condannarlo. Non si tratta, si badi, di una cosa scontata. Il gioco d'azzardo esiste più o meno da sempre, ma solo nel corso del XIII secolo (quindi in piena età comunale) si cominciò a pensare che una legittimazione controllata delle pratiche ludiche con scommesse di denaro avrebbe procurato enormi benefici di natura fiscale. È la comparsa, in altre parole, del cosiddetto datium ludi la prova che alla condanna morale del gioco – mai venuta meno, nemmeno ai giorni nostri – si era accostata una certa tolleranza, secondo una logica che, a ben vedere, è molto simile a quella che in molti paesi è oggi all'origine della tassazione delle prostitute. Trarre profitto dal gioco, in sostanza, equivale a degradare (o ad elevare, a seconda dei punti di vista) alcune forme di immoralità da reato a diritto, seppur censurabile, del singolo.
La questione, con tutta evidenza, è niente affatto secondaria. A partire dal Duecento, un po' in tutta Europa inizia a delinearsi una società dalla quale, pian piano, emerge un costume che oggi viene dato per scontato, ma che invece ha incontrato molte difficoltà prima di affermarsi. La condanna tradizionale del gioco – che in epoca romana e ancora nell'Alto Medioevo nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione – si fondava sul disprezzo per le forme di guadagno ottenuto non in conseguenza di attività meritorie, bensì con l'esclusivo aiuto della buona sorte. Ad essa poi, in età comunale, si aggiunse lo sdegno per lo spreco, dal momento che dopo la lunga depressione della tarda antichità il denaro aveva acquistato un valore come distintivo di qualità.
Non fu dunque un percorso facile quello che portò alla legalizzazione del gioco d'azzardo. Basti pensare che il re di Francia Luigi IX (il Santo), per contrastare quella che reputava un'abitudine degenerata, non solo proibì ai suoi funzionari di frequentare bische e taverne, ma giunse persino a vietare, nel 1254, la fabbricazione di dadi in tutto il regno. E ancora nel 1336, a Bologna, dove già da tempo si lucrava sul gioco d'azzardo, la gabella sulla baratteria (era questo il termine diffuso nel Medioevo, che va distinto dalla moderna accezione di reato di corruzione commesso da un pubblico ufficiale) destava immensum scandalum e non modica infamia, al punto che si decise di ripristinare, anche se solo per qualche mese – constatata l'impossibilità di arginare una pratica enormemente diffusa –, i vecchi divieti.
L'aspetto più importante che va evidenziato è però il generale fallimento di simili provvedimenti. Quando si comprese che il vizio del gioco era così ben radicato da risultare inestirpabile, cominciò a farsi largo l'idea che, scandalo per scandalo, tanto valeva guadagnarci su. Del resto quelli erano anni di grandi innovazioni nel campo della pratica finanziaria (si pensi alle banche, alle assicurazioni, alla legittimazione del prestito a interesse, alle società in nome collettivo: tutti concetti e strumenti che vennero perfezionati nel corso del Medioevo, in particolar modo in Italia), e certo non deve stupire più di tanto che fossero approntate politiche fiscali sempre più raffinate. Si assistette così a un ripensamento generale, caratterizzato da una maggiore tolleranza per il modicum ludere e, in particolare, per quei giochi che non si basavano esclusivamente sulla fortuna, ma prevedevano una non trascurabile componente di abilità.
Il percorso che portò all'accettazione del gioco d'azzardo "pubblico", certo, non fu lineare. In un primo momento si procedette con la concessione di deroghe in occasione delle principali feste religiose (secondo la stessa logica che è alla base del carnevale); e in breve si giunse ad un'espansione della permissività che coinvolse anche il calendario laico, fino all'abolizione della temporaneità dei permessi in favore dell'individuazione di luoghi ben definiti deputati, stabilmente, ad ospitare il gioco. In questo modo, confinando le pratiche ludiche in apposite aree controllate, veniva trovato un soddisfacente compromesso tra la tradizionale condanna morale del gioco d'azzardo e la pressione esercitata dalla capillare diffusione di comportamenti sociali giudicati, oramai, incontrastabili.
Il fenomeno cui assistiamo oggi è dunque solo la fase terminale di un processo avviato secoli fa. Sono cambiati gli strumenti, ma la febbre del gioco non è certo un'invenzione dei nostri tempi. Se anche Leonardo Fibonacci (il grande matematico fiorentino vissuto tra XII e XIII secolo) nel suo Liber abaci (l'opera, per intendersi, che introdusse in Europa le cifre arabe e il sistema numerico decimale) si prese la briga di inserire alcune annotazioni su come calcolare i punti usciti lanciando tre dadi, significa che anche i nostri antenati erano, in fondo, un po' ossessionati dalle scommesse. Oggi come ieri è quindi il caso di farsi la stessa domanda: ne vale la pena?

Focus:


Lo scorso 6 febbraio, in occasione di un incontro organizzato dal LIONS Estense, sul tema delle ludopatie sono intervenuti il dottor Claudio Ferretti (responsabile del Servizio Dipendenze Patologiche dell'AUSL di Modena), che ha illustrato dati, ricerche e rimedi inerenti al gioco patologico; il dottor Luciano Casolari (psichiatra e psicoterapeuta); e Nives Cattelani (psicologa), che ha presentato il servizio «Scommetti su di te», promosso dal CEIS (Centro Italiano di Solidarietà) di Modena. Scopo dell'iniziativa è stata, da un lato, la sensibilizzazione dell'opinione pubblica su un tema di scottante attualità; dall'altro, quello di suggerire possibili percorsi di recupero destinati alle persone affette da ludopatia. 

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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