domenica 2 febbraio 2014

Il pontificato di Pio IX e la nascita del Regno d’Italia (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 febbraio 2014)
 
Il 6 giugno 1846 fu eletto dal conclave Giovanni Maria Mastai, che assunse il nome di Pio IX. Animato da una profonda fede religiosa, il papa inizialmente subì l'influenza dell'opinione pubblica italiana, che andava sempre più reclamando un'evoluzione in senso liberale. In breve tempo concesse un'amnistia per i reati politici, approvò la realizzazione di un tratto ferroviario e introdusse l'illuminazione a gas nella città di Roma. Successivamente, confortato dal consenso e dall'entusiasmo che accompagnavano la sua politica, autorizzò una controllata libertà di stampa, la costituzione di una Guardia Civica e di una Consulta di Stato.
Le riforme di Pio IX (in particolare l'amnistia) alimentarono un clima di forte eccitazione collettiva: in tutta la penisola si tennero manifestazioni in onore del «papa liberale» che assunsero frequentemente chiare connotazioni politiche. Seguirono altri provvedimenti clamorosi, come la pubblicazione di un proclama – che terminava con la frase «Benedite gran Dio l'Italia» – che fu interpretato in senso patriottico, la concessione della costituzione a Roma e il permesso accordato all'esercito pontificio di partecipare alla guerra di Carlo Alberto contro l'Austria. Il sentimento religioso parve finalmente trovare un punto d'incontro con le aspettative di riscatto nazionale.
Grande successo ebbero in questa fase le idee di Vincenzo Gioberti, sacerdote piemontese che nel 1843 aveva pubblicato un'opera dal titolo Del primato morale e civile degli italiani. La tesi di fondo era che il risorgimento italiano avrebbe dovuto avere come base la religione cattolica e come guida, come punto di riferimento, il pontefice. La formula politica ideale per il futuro Stato italiano veniva indicata in una confederazione, la cui presidenza sarebbe spettata al papa. Come bene spiega Alfredo Canavero, la proposta di Gioberti faceva fronte al primo grande problema della questione italiana: quello di salvaguardare il potere temporale del pontefice. Il secondo aspetto – indurre l'Austria a rivolgere le proprie mire a oriente, rinunciando al ruolo di potenza egemone nella penisola – fu affrontato da Cesare Balbo nelle Speranze d'Italia (1844). Con l'elezione di Pio IX, l'euforia per il «papa liberale» si conciliò politicamente con l'affermazione del neoguelfismo. Molti cattolici, i quali avevano mostrato di non gradire le soluzioni di sapore laicista avanzate fino a quel momento, trovarono quindi nel Primato le motivazioni per aderire alla causa italiana.
Con queste premesse esaltanti, a buona parte dell'opinione pubblica italiana parve assurda l'allocuzione Non semel del 29 aprile 1848, con la quale Pio IX affermava di non poter dichiarare guerra all'Austria, una nazione dalle radicate tradizioni cattoliche. All'origine di questo dietrofront ci furono probabilmente le notizie allarmanti che giungevano da Vienna, dove si minacciava addirittura uno scisma per protestare contro l'appoggio che il pontefice sembrava voler prestare ai ribelli nel nord Italia. L'equivoco del «papa liberale» venne finalmente alla luce. All'entusiasmo dei mesi precedenti seguì l'indignazione nei confronti di quello che veniva valutato come un vero e proprio tradimento. Nel novembre dello stesso anno una Roma in rivolta costrinse il papa ad abbandonare il Quirinale per stabilirsi a Gaeta, che sarebbe stata la sua residenza sino al crollo della Repubblica romana, caduta in seguito all'invasione delle truppe francesi. L'idillio che pareva avere unito patriottismo e religione fu drasticamente interrotto. Il pontefice, attraverso la fuga, mostrò di non voler legare le sorti del papato a quelle del risorgimento, ribadendo che la sua missione religiosa era al di sopra degli interessi particolari. Falliva così la proposta neoguelfa, e con essa morivano le speranze di quanti avevano confidato di ottenere il riscatto nazionale in accordo con la Chiesa.
Falliti i moti del 1848, Pio IX fece ritorno a Roma profondamente scottato dall'esperienza dell'esilio e ormai convinto che le aspirazioni moderne verso la libertà costituissero una minaccia per il benessere sociale. Per i successivi trent'anni, fino alla morte avvenuta nel 1878, si mostrò allineato su posizioni intransigenti, preoccupato di difendere la più rigida ortodossia dottrinaria e inamovibile nel rifiuto di qualunque limitazione del suo potere temporale.
Una questione delicata fu quella dei rapporti con lo Stato sabaudo, l'unico della penisola che avesse confermato la costituzione concessa nel 1848. In Piemonte non erano mai stati negati gli antichi privilegi della Chiesa, contrariamente a quanto si era verificato in altri paesi ad opera di alcuni sovrani illuminati. L'incompatibilità con lo Statuto Albertino era palese. Nel 1850 furono così approvate le leggi Siccardi, che prevedevano l'abolizione del foro ecclesiastico, del diritto di asilo e delle pene civili per l'inosservanza delle festività religiose; divenne inoltre necessaria l'approvazione del governo per l'acquisto di beni immobili da parte della Chiesa. Seguì un periodo di forte tensione, che raggiunse l'acme con la proposta di legge per l'introduzione del matrimonio civile e soprattutto con l'approvazione, nel 1855, di un provvedimento di confisca dei beni di diversi ordini religiosi mendicanti, allo scopo di creare una cassa per finanziare i parroci più poveri.  Pio IX reagì con fermezza, e nell'allocuzione Cum saepe inflisse la scomunica a quanti avevano collaborato per l'approvazione della legge.
Nel biennio 1859-1860 la situazione precipitò. Cavour, che con l'invio nel 1855 di circa 18.000 soldati in Crimea si era assicurato l'appoggio di Inghilterra e Francia in funzione anti-austriaca, aveva ormai pianificato le tappe per giungere all'unificazione nazionale. Scoppiata la guerra con l'Austria (aprile 1859), Pio IX cadde in preda allo sconforto: «I Potenti della terra – scrisse in una lettera al fratello Gabriele – sono diventati adulatori della rivoluzione, diventata ormai la potenza più grande del mondo». Nel frattempo l'esercito piemontese ottenne le prime vittorie, cui seguirono le insurrezioni nel nord della penisola e la spedizione dei Mille: il 17 marzo 1861 l'Italia unita, con l'eccezione di una parte di quello che costituiva lo Stato pontificio, del Veneto e del Trentino, era un dato di fatto. Quel giorno il primo Parlamento nazionale proclamava Vittorio Emanuele II re d'Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione».
La Chiesa cattolica, che già aveva dovuto subire l'affronto dell'espropriazione di molti suoi beni in Piemonte, non poteva accettare che il re sabaudo si fosse impadronito anche di alcuni territori nel nord dello Stato pontificio (furono inglobate nel nuovo Regno d'Italia Bologna e parte dell'Emilia, la Romagna, le Marche e l'Umbria, mentre sotto il diretto governo del papa rimase una regione corrispondente all'incirca all'attuale Lazio). Essa reagì pertanto con la scomunica di tutti coloro che avevano di fatto sancito la fine del potere temporale, rifiutandosi categoricamente di riconoscere il nuovo Stato sorto con la rivoluzione. Dal canto suo Cavour, che peraltro intuiva la necessità di una separazione tra Stato e Chiesa, pose all'ordine del giorno la questione della capitale del Regno, che – riteneva – non poteva che essere Roma. In una discussione parlamentare del 27 marzo 1861 – poi divenuta celebre per l'introduzione della formula «libera Chiesa in libero Stato» – egli sostenne che «la riunione di Roma all'Italia non reca pregiudizio di sorta all'indipendenza della Chiesa» e, rivolgendosi direttamente al pontefice, dichiarò che, in cambio di una spontanea rinuncia al potere temporale, lo Stato gli avrebbe garantito quella libertà che in passato gli Stati assoluti avevano concesso al solo scopo di ottenere privilegi e giustificare ingerenze nella vita stessa della Chiesa.
Pio IX respinse senza esitazioni le proposte del governo italiano. I motivi del suo rifiuto erano da individuare nelle ingiustizie commesse da uno Stato che – come riportato nell'allocuzione Jamdudum cernimus del 18 marzo 1861 – «spoglia la Chiesa delle giustissime sue possessioni, ed usa ogni consiglio ed ogni arte per diminuire l'efficacia salutare della stessa Chiesa». La lungimiranza di Cavour, che aveva inteso prima di molti altri che la rinuncia al potere temporale avrebbe consentito alla Chiesa di conquistare una concreta libertà d'azione – dal momento che una Chiesa privata del suo potere temporale avrebbe cessato di fare concorrenza allo Stato, ottenendo in cambio la cessazione delle continue ingerenze dell'autorità civile nelle questioni più importanti della vita religiosa della comunità –, non era condivisa dal pontefice. Questi era convinto che il liberalismo e il laicismo su cui si fondava lo Stato italiano avrebbero provocato un distacco della Chiesa dalla società, privando milioni di uomini dell'unica autentica guida spirituale. A suo parere, il potere temporale non poteva in alcun modo essere messo in discussione. (Continua)

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