lunedì 16 dicembre 2013

«Il più efficace degli antidoti»: Togliatti e il dramma dei prigionieri di guerra italiani in URSS

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 dicembre 2013)
 
La sorte dell'ARMIR, l'Armata italiana in Russia inviata sul fronte orientale da un Mussolini desideroso di dare un sostanzioso contributo alla lotta antibolscevica, fu tragica: ben 95.000 dei 229.000 uomini che la componevano non fecero ritorno. Le perdite più consistenti non furono però quelle dei caduti in battaglia. Secondo alcuni calcoli di parte sovietica, infatti, l'Armata Rossa catturò tra gli 80 e i 115 mila militari italiani, ridotti – ma la cifra rimane ad ogni modo significativa – a «più di 40.000» dalla propaganda di Radio Mosca, curata da Palmiro Togliatti.
Nell'estate del 1944 il governo Bonomi cominciò a fare pressioni su Mosca affinché questa inviasse gli elenchi dei prigionieri, ma dovette attendere l'agosto dell'anno seguente prima di ricevere una risposta. L'Unione Sovietica, fece infine sapere il viceministro degli Esteri Solomon Lozovsky, non si opponeva alla restituzione dei militari italiani, fatta eccezione per un esiguo numero di criminali di guerra. Ma i conti non tornavano: secondo le stime di parte russa, i soldati da rimpatriare erano appena 19.000, cifra drasticamente inferiore alle aspettative. E non era tutto. Quando, alla fine del luglio 1946, l'ambasciata sovietica a Roma comunicò di avere terminato le procedure di rimpatrio dopo aver restituito 21.193 prigionieri, le autorità italiane scoprirono che nel conto erano stati annoverati ben 11.000 militari appartenenti a divisioni di stanza nei Balcani, i quali, catturati dai nazisti dopo l'8 settembre, erano stati in seguito "liberati" dall'Armata Rossa ed internati in URSS.
La decisione sovietica di restituire i prigionieri, al di là della discrepanza sulle cifre con il governo di Roma, fu ad ogni modo inaspettata. Stalin, infatti, fece per l'Italia un'eccezione rispetto alla prassi consolidata di considerare i prigionieri di guerra come forza-lavoro. Le motivazioni del dittatore sovietico non sono ancora del tutto chiare, ma è ipotizzabile che, dati l'esiguo numero dei superstiti e l'elevata mortalità, gli italiani costituissero un gruppo poco produttivo. Così almeno si spiegherebbe la decisione di rimpatriare per primi i malati gravi, gli invalidi e gli inabili al lavoro.
A parere di Mosca, pertanto, l'Italia doveva considerarsi soltanto grata per la restituzione dei militari caduti nelle mani dell'Armata Rossa: ogni ulteriore richiesta, tenendo conto che per Stalin era molto labile la differenza tra prigioniero e collaborazionista, era da ritenersi fuori luogo. Se infatti si considera che gli stessi militari sovietici sopravvissuti ai lager nazisti furono in larga parte internati nei campi "correttivi" siberiani, risulta evidente che, dal punto di vista dei russi, un paese aggressore come l'Italia non si trovava certo nella condizione di avanzare pretese. Mosca non si sentiva quindi per nulla obbligata a fornire informazioni sui soldati italiani caduti o dispersi in URSS. Solo la recente apertura degli archivi sovietici ha consentito agli storici di far luce sulla tragica sorte di migliaia di prigionieri italiani.
La maggior parte di essi cadde in mano sovietica in seguito alla grande offensiva dell'Armata Rossa dell'inverno 1942-43. Un numero elevato di uomini da mantenere avrebbe tuttavia ostacolato le manovre al fronte: l'unica soluzione praticabile parve allora quella di trasportare i prigionieri nelle retrovie, anche per evitare che il nemico li liberasse. La conseguenza, per le decine di migliaia di soldati italiani, furono le cosiddette marce del davai («avanti» in russo: era l'ordine impartito dalle guardie) verso le stazioni ferroviarie, cui seguivano interminabili viaggi verso l'interno in condizioni di estremo disagio. Freddo, malnutrizione e malattie decimarono i convogli, con livelli di mortalità vicini al 90%. In questo dato la documentazione oggi disponibile non consente di individuare alcun intento punitivo da parte dei sovietici. Semplicemente, rilevano Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel volume Togliatti e Stalin (Il Mulino, 2007), «il trattamento clemente dei detenuti non è mai stato una caratteristica del governo staliniano». Su circa 85.000 prigionieri di guerra italiani in URSS (secondo le stime più recenti), si devono calcolare grosso modo 40.000 morti nei lager e 22.000 persone non identificate, decedute durante le marce: tra i restanti uomini, circa 22.000 fecero ritorno in patria, ma il conto deve necessariamente tenere in considerazione imprecisioni ed errori.
Ovviamente, il problema delle migliaia di militari italiani detenuti in territorio russo interessò da vicino i vertici del PCI, i cui dirigenti più influenti erano in stretto contatto con Mosca. Ad essi, infatti, il governo sovietico affidò un ruolo di prim'ordine nell'organizzazione della resistenza e della propaganda, rivolta, oltre che ai soldati al fronte, anche ai prigionieri di guerra. Nei campi di internamento, infatti, i comunisti italiani residenti in URSS erano chiamati a gestire scuole di indottrinamento antifascista, a curare la redazione di periodici, a presenziare agli interrogatori e a condurre trasmissioni radiofoniche per l'Italia. Gli istruttori politici del PCI erano subordinati al rappresentante italiano presso il Comitato esecutivo del Comintern, Vincenzo Bianco, il quale, a sua volta, aveva come superiori Togliatti e il segretario generale del Comintern Georgij Dimitrov. Proprio a Bianco si deve una testimonianza fondamentale sulle condizioni dei prigionieri di guerra dell'ARMIR. Si tratta di una lettera a Togliatti datata 31 gennaio 1943, nella quale veniva esplicitamente posto il problema dell'alto tasso di mortalità tra i detenuti italiani, che nei lager russi perivano «in massa». La risposta del Migliore, che vale la pena citare ampiamente, lasciò tuttavia intendere che il PCI non avrebbe mosso un dito per arrestare quello che stava assumendo le proporzioni di un autentico massacro di connazionali: «La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l'Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché. Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. [...] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il più efficace degli antidoti».
L'atteggiamento "morbido" nei confronti dei prigionieri con buone probabilità fu la causa del mancato avanzamento di carriera di Bianco ai vertici del partito. Ma non è questo il punto su cui vale pena soffermarsi in questa sede. L'aspetto principale da sottolineare è che il PCI, dovendo effettuare una scelta di campo tra gli interessi nazionali e la fedeltà al governo dell'URSS, preferì optare per una più comoda via di mezzo, di fatto assecondando la politica repressiva di Mosca senza tuttavia assumersi apertamente la responsabilità della propria condotta antipatriottica. In pratica, Togliatti avallò la decisione di non far pervenire a Stalin alcuna rimostranza in merito al trattamento disumano riservato ai prigionieri di guerra dell'ARMIR, ma, al contempo, si preoccupò che la notizia non trapelasse (o quantomeno trapelasse il meno possibile) in Italia. Fatto sta che il rimpatrio dei prigionieri tra 1945 e 1946 creò più di un grattacapo al PCI, convinto che la decisione sovietica di affrettare la loro restituzione – ancora oggi difficile da motivare – avrebbe procurato un grave danno di immagine all'universo comunista. Sarebbe stato infatti fin troppo facile per gli avversari politici rilevare significative discrepanze tra il ritratto del paradiso dell'URSS tratteggiato dalla propaganda togliattiana e i racconti dei reduci, che avrebbero inevitabilmente posto l'accento sul paradosso dei «contadini russi senza scarpe». Il mito sovietico, in altre parole, sarebbe stato abbattuto dai colpi di piccone delle testimonianze di migliaia di sopravvissuti ai lager staliniani. E, in effetti, così in parte accadde.
Del resto, gli stessi dirigenti comunisti italiani erano perfettamente al corrente che Mosca mentiva quando affermava di aver restituito tutti i prigionieri entro il 1946. Ma sbilanciarsi poteva essere pericoloso, anche perché Togliatti non si trovava certo nelle condizioni di fare pressioni su Stalin. Tanto valeva, quindi, tentare di limitare i danni, screditando i militari rimpatriati che gettavano fango sull'URSS. Così, quando nell'aprile del 1948 l'Unione nazionale reduci dalla Russia pubblicò un opuscolo in cui alcuni ex prigionieri accusavano i comunisti che avevano curato la propaganda antifascista nei campi sovietici di aver condotto violenti ed «estenuanti interrogatori», il senatore Edoardo D'Onofrio, chiamato in causa, decise di querelare per diffamazione gli autori dello scritto. Il processo gli diede torto, ma ciò non servì (anzi!) a sanare la frattura tra un PCI succube di Mosca e un paese, l'Italia, che negli anni avrebbe rafforzato il suo legame col blocco occidentale. Oggi, anche ripensando a vicende come quella dei prigionieri dell'ARMIR, risulta evidente come dietro il collegamento cronologico tra il crollo dell'URSS e lo scioglimento del Partito comunista italiano si nasconda il dramma politico di intere generazioni.

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