lunedì 28 aprile 2014

Il «Canto degli Italiani»: il paradosso di un popolo che non conosce il proprio inno

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 aprile 2014)

Fratelli d'Italia / L'Italia s'è desta
Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria? / Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma / Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo, / Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica / Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme / Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci, / L'unione e l'amore
Rivelano ai popoli / Le vie del Signore.
Giuriamo far libero / Il suolo natio:
Uniti per Dio / Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia, / Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio / Ha il core, ha la mano;
I bimbi d'Italia / Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla / I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano / Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria / Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia, / E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco, / Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Prima di iniziare la lettura dell'articolo, immaginate di essere in un'aula di scuola. Chi scrive reciterà il ruolo dell'insegnante, chi legge quello dell'alunno. Argomento della lezione odierna: l'inno nazionale italiano.
Per prima cosa, alzi la mano chi lo conosce per intero. Sapevate, almeno, che consta di cinque strofe, e che la più conosciuta (quella, per intenderci, che cantano i calciatori in televisione) è solo la prima? Già qui vi vedo perplessi: alcuni annuiscono con il braccio alzato, i più guardano per aria smarriti. Pazienza, andiamo oltre.
Ora alzi la mano chi conosce il titolo dell'inno. Ne vedo una, laggiù. Come dici? Fratelli d'Italia? In realtà quello è il primo verso: tutti – è vero – lo chiamano così, ma il titolo nella prima edizione era – non lo sapevate, giusto? – Canto degli Italiani. Proseguiamo.
Ora ditemi, se lo sapete, il nome dell'autore. Oh, finalmente una selva di braccia alzate. Troppo facile, mi rendo conto: stiamo parlando dell'inno di Mameli, mica di una canzonetta del Festivalbar! Uno di voi mi dica soltanto chi era Mameli e quando scrisse l'inno, così passiamo subito a parlare del testo. Coraggio, chi vuole prendere la parola? Nessuno? Caspita, quindi devo dedurre che non sappiate nulla nemmeno di Mameli?
D'accordo, non mi dilungherò. Ma almeno due parole sull'autore del nostro inno nazionale è doveroso spenderle. Goffredo Mameli era un genovese nato nel 1827. A vent'anni, sotto l'influsso degli ideali mazziniani, compose l'inno e, attratto dalla politica a scapito degli studi universitari (che abbandonò prima di conseguire la laurea), prese parte ai moti del 1848 in Lombardia; l'anno seguente combatté al fianco di Garibaldi in difesa della Repubblica romana. Ferito sul Gianicolo, morì, malamente curato, il 6 luglio 1849.
Passiamo ora, finalmente, alla lettura del testo, soffermandoci sui passi che necessitano di un breve chiarimento.
Prima strofa: «Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa». Significa che l'Italia ha indossato l'elmo (ossia è pronta alla guerra) di Scipione Africano, il generale romano che nel 202 a. C. sconfisse Annibale a Zama. Annibale fu il nemico più agguerrito della Roma repubblicana, l'avversario per antonomasia; Scipione è quindi simbolo di vittoria e di riscatto, poiché vinse la Seconda guerra punica dopo la pesante sconfitta di Canne del 216 a. C.
Proseguiamo: «Dov'è la Vittoria? / Le porga la chioma / Ché schiava di Roma / Iddio la creò». La dea Vittoria, in altre parole, si offre all'Italia come sua schiava, così come, in origine, fu creata schiava di Roma (alle schiave, infatti, erano tagliate le chiome per distinguerle dalle donne libere).
Infine, nel ritornello, «Stringiamci a coorte» significa «impugniamo le armi», essendo la coorte un'unità della legione romana.
Procediamo con la seconda strofa. Qui la lettura è più agevole. Basti dire che l'Italia del 1847 era divisa in vari Stati, e Mameli auspicava che quella che egli sentiva, precocemente, come patria si unificasse sotto un'unica bandiera, secondo una speranza («speme») comune e condivisa.
La terza strofa richiede invece maggiore sforzo interpretativo. Essa è una sorta di sintesi del pensiero mazziniano, riassumibile nella celebre formula «Dio e popolo»: i popoli, cioè, erano investiti di una missione subordinata ad un disegno divino, il quale – a parere del fondatore della Giovine Italia – era espressione dello spirito insito nella storia dell'intera umanità. Quindi «L'unione e l'amore / Rivelano ai popoli / Le vie del Signore» significa che l'unificazione dell'Italia doveva necessariamente avvenire in ottemperanza ad un disegno divino, partendo però dal presupposto che l'unione non potesse prescindere dall'amore (ossia da un atto di fede nel riscatto della nazione). Mazzini riassumeva questo concetto con un'altra celebre formula, «Pensiero e azione».
Anche la quarta strofa richiede alcune spiegazioni. «Ovunque è Legnano» è un riferimento alla battaglia di Legnano del 1176, che oppose l'imperatore Federico Barbarossa alla Lega Lombarda, con la vittoria di quest'ultima e il conseguente riconoscimento di alcune importanti concessioni ai Comuni dell'Italia settentrionale.
Proseguiamo: «Ogn'uom di Ferruccio / Ha il core, ha la mano». Qui Mameli allude a Francesco Ferrucci, comandante delle truppe fiorentine che, nel quadro dell'estrema lotta in difesa della Repubblica, nel 1530 assalirono Gavinana, controllata dagli imperiali di Carlo V. In quell'occasione Ferrucci fu fatto prigioniero, per poi cadere trafitto dal pugnale di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura calabrese al servizio dell'imperatore. Da allora, nella lingua italiana «maramaldo» è divenuto sinonimo di persona spregevole, che infierisce sui vinti e sui deboli. Il passo dell'inno vuole quindi evocare un esempio di eroismo, proponendo l'immagine degli italiani come novelli soldati sotto il comando di Ferrucci.
Andiamo oltre: «I bimbi d'Italia / si chiaman Balilla». Il riferimento, in questo caso, è al ragazzo che nel 1746, in segno di ribellione, scagliò un sasso contro un drappello di soldati austriaci che presidiavano Genova. Fu l'atto simbolico con cui ebbe inizio l'insurrezione che cacciò gli asburgici dalla città, nel quadro della guerra di successione austriaca.
Terminiamo, infine, la strofa: «Il suon d'ogni squilla / I Vespri suonò». Mameli allude ai Vespri siciliani, l'insurrezione scoppiata a Palermo nel 1282 (all'ora del vespro del lunedì di Pasqua) contro il malgoverno angioino, a partire dalla quale ebbe inizio la guerra che scacciò i francesi dall'isola, con la successiva attribuzione della corona a Pietro III d'Aragona. Con «ogni squilla» si intendono le campane che chiamarono a raccolta il popolo palermitano per la rivolta. Tutta la quarta strofa evoca quindi episodi di ribellione contro l'occupazione straniera del suolo nazionale italiano.
Per concludere, l'ultima strofa è un duro attacco all'Austria, il nemico che ostacola il Risorgimento della patria. «Son giunchi che piegano / Le spade vendute» significa che i mercenari («spade vendute» allo straniero) sono destinati ad essere piegati dal riscatto della nazione. L'Austria è infatti una potenza in crisi («Già l'Aquila d'Austria / Le penne ha perdute»), tanto che il «Il sangue d'Italia / E il sangue Polacco» (metaforicamente bevuti «col Cosacco», ossia con la Russia, in accordo con la quale nel 1846 era stata repressa l'insurrezione polacca contro l'occupazione straniera) le hanno dilaniato, come un veleno, il cuore. Mameli in sostanza sta pronosticando la vittoria della causa nazionale italiana, che – al pari di quella polacca – sta progressivamente indebolendo l'Austria minacciandola dall'interno come un tumore che, a poco a poco, si ingrossa.
Bene, la lezione volge al termine. Restano solo alcune brevi considerazioni da fare, tralasciando peraltro il paradosso che l'inno di Mameli, formalmente, è ancora provvisorio, dal momento che non è mai stato ufficialmente istituzionalizzato né dalla Costituzione (che non lo nomina), né da un apposito decreto. Ma, ripeto, tralasciamo queste incongruenze, anche perché, se dal 1946 tutti cantano Fratelli d'Italia, significa che, concretamente, possiamo considerare definitiva la scelta del nostro inno nazionale. La prima osservazione è racchiusa in una domanda che è bene porsi, ovvero: nel 2014 gli italiani si sentono davvero rappresentati dalle parole di Mameli? Non credete – siate sinceri – che faccia un po' ridere vedere un ministro dell'attuale governo che si dichiara pronto alla morte? O Buffon e compagni che, mano sul cuore, prima di una partita dei Mondiali urlano a squarciagola che l'Italia s'è desta?
Sì, lo so. Avete ragione: la retorica è presente in tutti gli inni. Ma non pensate che la scelta del nostro inno avrebbe potuto essere diversa? Mameli evoca valori che, oggi, non sono mica poi tanto condivisi. Parla di guerra contro l'invasore, incita all'odio contro il secolare nemico. Nei suoi versi l'eroismo è esclusivamente militare, il che lascia un po' perplessi, visto che gli italiani, storicamente, non sono certo – salvo eccezioni, s'intende – dei soldati modello.
La verità, come sempre scomoda, è che nel 1946 di valori condivisi gli italiani, non ancora del tutto usciti da una terribile guerra civile, ne avevano ben pochi. La Costituzione fu un compromesso tra due partiti estranei alla tradizione risorgimentale (DC e PCI), che si incontrarono, provvisoriamente, sul terreno comune dell'antifascismo. Ma, con tutta evidenza, scegliere all'epoca un inno antifascista sarebbe stata una decisione coerente sì, ma troppo rischiosa. Si optò quindi per un inno di comodo, che lasciava indifferenti e non turbava nessuno. Siccome parlava di una storia vecchia e sepolta, era perfetto per la debole neonata democrazia repubblicana.
Vedo che siete delusi, e mi dispiace. Ma ignorare i problemi non è certo un buon modo per risolverli. Per il bene di Mameli e del suo Canto – che senza dubbio non ha senso, ormai, pensare di sostituire –, è giunta l'ora di aprire gli occhi e iniziare a studiare con lucidità il passato controverso del nostro paese. A meno che non si voglia continuare ad intonare, più che un inno d'Italia, un inno all'italiana.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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