martedì 15 aprile 2014

Lodovico Antonio Muratori: la vita del grande letterato vignolese (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 aprile 2014)

Tra Muratori e Leibniz si creò un'autentica «sinergia operativa» in particolare a partire dal 1708, allorché – scrive Fabio Marri – «la rioccupazione militare, ordinata dall'imperatore Giuseppe I, di Comacchio (già feudo estense fino al 1598, e del quale l'impero non aveva mai cessato di rivendicare il possesso, investendone gli Este anche nel Seicento) sollecitò un approfondito vaglio delle carte antiche modenesi da parte dei due storici, che orchestrarono insieme una campagna internazionale di pubblicazioni per mostrare con la forza dei documenti non solo l'appartenenza di Comacchio all'impero, ma più in generale l'infondatezza di tante pretese territoriali pontificie». Risultato delle ricerche fu, da parte del Muratori, la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio (1712), giunta al termine di una prolungata disputa con il suo antagonista di parte papale, l'erudito Giusto Fontanini. L'opera – a prescindere dal fatto che nel 1725 Comacchio sarebbe stata comunque riconsegnata allo Stato pontificio – assume notevole importanza se si considera che lo scrittore modenese, anche se sacerdote, non si faceva scrupolo di osteggiare la Santa Sede sul terreno giurisdizionale: in questo ambito i diritti della Chiesa erano per lui equivalenti a quelli di ogni altro organismo statale.
La vicenda di Comacchio portò il Muratori a riprendere contatto con le carte d'archivio dopo un periodo in cui, forzatamente, aveva dovuto occuparsi d'altro. Durante i primi anni del XVIII secolo, infatti, la guerra di successione spagnola aveva spinto le truppe francesi ad occupare Modena (1702-1707), con il conseguente esilio del duca e la necessità di mettere in salvo numerosi documenti lontano dalla capitale estense. Dalle parole dello stesso letterato modenese apprendiamo come egli impiegasse il suo tempo in quelle condizioni: «Non sapendo io stare colle mani alla cintola presi a trattare della Perfetta poesia italiana, opera in cui spesi non poco studio e molte meditazioni [...]. Credo io che l'erudito abbia da aver sempre in capo varie vedute e varie fila per le mani. Se non può per qualche ostacolo far questa tela, ne lavori un'altra; se non può fabbricar gran palagi, si metta a qualche ameno giardino, adattandosi al luogo, al tempo e alle congiunture e mirando che non gli fugga di mano il tempo che è cosa preziosa».
In sostanza, il Muratori si interrogava su come riportare il buon gusto in una poesia corrotta dalle ampollosità del barocco, «sintomo e effetto della decadenza», come sottolineato da Girolamo Imbruglia. E parve trovare una risposta nel recupero del modello petrarchesco (nel 1711 uscirono infatti a Modena Le rime di Petrarca riscontrate coi testi a penna della libreria Estense e coi frammenti dell'originale di esso poeta).
Per quanto invece riguardava il ruolo delle accademie, i Primi disegni della Repubblica letteraria d'Italia (1703) e le Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708-1715) sollecitarono un più moderno impegno culturale, che andasse al di là delle sterili declamazioni ereditate dalla tradizione seicentesca. Alla base dell'impegno dell'intellettuale stava infatti per il Muratori la revisione critica: il vero studioso non poteva cioè fidarsi delle generalizzazioni senza avere prima sottoposto le stesse ad una sistematica analisi guidata dalla ragione.
Ottenuta nel 1716 la prevostura di Santa Maria della Pomposa, una delle parrocchie più povere della città, il letterato modenese prese ad occuparsi con insistenza anche di alcune questioni di carattere religioso, del resto oggetto dei suoi interessi già negli anni degli studi giovanili. In opere quali De ingeniorum moderatione in religionis negotio (1717), Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), De superstitione vitanda sive censura voti sanguinarii (1740) e Della regolata divozione de' cristiani (1747) Muratori affrontava temi delicati, pronunciandosi a favore «di un ragionevole svecchiamento e razionalizzazione del culto» e «di un forte impulso verso una fede operosa che mettesse in primo piano la carità» (F. Marri). Per assistere i più bisognosi egli fondò inoltre la Compagnia della Carità, i cui membri – precisa Elena Bianchini Braglia – «erano tenuti a impegnarsi nel prestare massiccia opera assistenziale, non solo da un punto di vista materiale ma anche e soprattutto da un punto di vista spirituale e morale». La sua proposta, in sostanza, «era quella di una religione socialmente utile, che potesse alleviare i mali sociali più evidenti», anche se non bisogna commettere l'errore di immaginare un Muratori a tutti gli effetti illuminista. Il vignolese infatti «avrebbe guardato con orrore alla minaccia di un rovesciamento di trono e altare», dal momento che «predicando e praticando la carità e pubblica felicità egli invocava un rinnovamento degli uomini, non delle istituzioni». Solo secondo questa impostazione moderatamente riformista aveva senso parlare di carità, la quale, «necessaria per la salvezza, andava fatta per aiutare non la Chiesa ma i bisognosi, [...] cui si doveva dare non l'elemosina, ma lavoro» (G. Imbruglia).
L'idea che le pratiche esteriori di culto fossero da porre in secondo piano rispetto alle concrete azioni di carità non mancò peraltro di scandalizzare qualche censore del Sant'Uffizio, mentre ricevette numerosi apprezzamenti nel nord Europa. Basti dire che il pastore e teologo di Augsburg Jacob Brucker nei primi due volumi della monumentale Pinacotheca scriptorum nostra aetate literis illustrium inserì, tra gli italiani, solo Muratori e Scipione Maffei, riscontrando nel vignolese le doti del «giudizio accurato e solido, letture vaste e quasi senza fine, ingegno fertile, operosità indefessa e incredibile, animo retto e privo di pregiudizi».
Esempio emblematico di una religiosità che mai trascurò la premura verso i più deboli fu l'aspra battaglia intrapresa, pochi anni prima della morte, per la riduzione delle feste, che sottraevano tempo utile da dedicare al lavoro e limitavano le possibilità di guadagno dei salariati. Come sottolinea Fabio Marri, «chiedendo alle autorità religiose e civili di concordare la soppressione di feste non motivate da particolari ragioni di culto, Muratori voleva da un lato liberare il cattolicesimo da retaggi di superstizioni antiche, ma dall'altro lato, soprattutto, contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno agiate». Miglioramento che, a suo parere, doveva passare anche attraverso una riforma (sollecitata nel Dei difetti della giurisprudenza, opera del 1742 di cui si avverte la chiara influenza nel Codice Estense fatto redigere da Francesco III) che mettesse ordine «nell'infinita congerie di leggi e pareri legali», responsabile di quei fraintendimenti che – come magistralmente avrebbe illustrato il Manzoni a proposito di Renzo e Azzeccagarbugli – finivano per penalizzare sempre e solo la povera gente.
Se la religione doveva quindi necessariamente essere «consacrata al bene del prossimo», anche la politica doveva avere a cuore la pubblica utilità. Al riguardo, un'opera del 1714 merita di essere presa brevemente in considerazione, ovvero Del governo della peste e delle maniere di guardarsene. Essa si occupava con grande concretezza della questione del «governo politico, medico ed ecclesiastico della peste», affrontando il nodo cruciale dei provvedimenti da prendere a livello sanitario, legale e amministrativo per salvaguardare l'incolumità delle popolazioni e impedire il contagio. Il primo accorgimento, a parere del Muratori, era quello di evitare di fomentare paure immotivate, il che era possibile solo distinguendo tra i dati di fatto accertabili razionalmente e le credenze. Queste ultime, in particolare, non potevano essere accettate per il semplice fatto di essere diffuse e condivise dalla maggioranza. Quelle su untori, streghe e «polveri pestifere» erano dicerie che non facevano altro che provocare uno «stravolgimento di fantasmi» potenzialmente anche più pericoloso dell'epidemia, una sorta di «malattia dell'immaginazione» da cui nasceva «un'incredibil miseria di molti, che temono la morte anche dove non l'hanno da temere». Prestando fede alle voci della strada era perciò inevitabile che si giungesse «ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti, ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli». (Continua)

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