(articolo apparso su Prima Pagina del 13 aprile 2014)
Tra Muratori e Leibniz si creò un'autentica «sinergia
operativa» in particolare a partire dal 1708, allorché – scrive Fabio Marri – «la
rioccupazione militare, ordinata dall'imperatore Giuseppe I, di Comacchio (già
feudo estense fino al 1598, e del quale l'impero non aveva mai cessato di
rivendicare il possesso, investendone gli Este anche nel Seicento) sollecitò un
approfondito vaglio delle carte antiche modenesi da parte dei due storici, che
orchestrarono insieme una campagna internazionale di pubblicazioni per mostrare
con la forza dei documenti non solo l'appartenenza di Comacchio all'impero, ma
più in generale l'infondatezza di tante pretese territoriali pontificie». Risultato
delle ricerche fu, da parte del Muratori, la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di
Comacchio (1712), giunta al termine di una prolungata disputa con il suo
antagonista di parte papale, l'erudito Giusto Fontanini. L'opera – a
prescindere dal fatto che nel 1725 Comacchio sarebbe stata comunque
riconsegnata allo Stato pontificio – assume notevole importanza se si considera
che lo scrittore modenese, anche se sacerdote, non si faceva scrupolo di
osteggiare la Santa Sede sul terreno giurisdizionale: in questo ambito i
diritti della Chiesa erano per lui equivalenti a quelli di ogni altro organismo
statale.
La vicenda di Comacchio portò il Muratori a riprendere
contatto con le carte d'archivio dopo un periodo in cui, forzatamente, aveva
dovuto occuparsi d'altro. Durante i primi anni del XVIII secolo, infatti, la
guerra di successione spagnola aveva spinto le truppe francesi ad occupare
Modena (1702-1707), con il conseguente esilio del duca e la necessità di
mettere in salvo numerosi documenti lontano dalla capitale estense. Dalle
parole dello stesso letterato modenese apprendiamo come egli impiegasse il suo
tempo in quelle condizioni: «Non sapendo io stare colle mani alla cintola presi
a trattare della Perfetta poesia italiana,
opera in cui spesi non poco studio e molte meditazioni [...]. Credo io che
l'erudito abbia da aver sempre in capo varie vedute e varie fila per le mani.
Se non può per qualche ostacolo far questa tela, ne lavori un'altra; se non può
fabbricar gran palagi, si metta a qualche ameno giardino, adattandosi al luogo,
al tempo e alle congiunture e mirando che non gli fugga di mano il tempo che è
cosa preziosa».
In sostanza, il Muratori si interrogava su come riportare
il buon gusto in una poesia corrotta dalle ampollosità del barocco, «sintomo e
effetto della decadenza», come sottolineato da Girolamo Imbruglia. E parve
trovare una risposta nel recupero del modello petrarchesco (nel 1711 uscirono
infatti a Modena Le rime di Petrarca
riscontrate coi testi a penna della libreria Estense e coi frammenti
dell'originale di esso poeta).
Per quanto invece riguardava il ruolo delle accademie, i Primi disegni della Repubblica letteraria
d'Italia (1703) e le Riflessioni
sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708-1715) sollecitarono un
più moderno impegno culturale, che andasse al di là delle sterili declamazioni
ereditate dalla tradizione seicentesca. Alla base dell'impegno
dell'intellettuale stava infatti per il Muratori la revisione critica: il vero
studioso non poteva cioè fidarsi delle generalizzazioni senza avere prima sottoposto
le stesse ad una sistematica analisi guidata dalla ragione.
Ottenuta nel 1716 la prevostura di Santa Maria della
Pomposa, una delle parrocchie più povere della città, il letterato modenese
prese ad occuparsi con insistenza anche di alcune questioni di carattere
religioso, del resto oggetto dei suoi interessi già negli anni degli studi
giovanili. In opere quali De ingeniorum
moderatione in religionis negotio (1717), Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), De superstitione vitanda sive censura voti
sanguinarii (1740) e Della regolata
divozione de' cristiani (1747) Muratori affrontava temi delicati,
pronunciandosi a favore «di un ragionevole svecchiamento e razionalizzazione
del culto» e «di un forte impulso verso una fede operosa che mettesse in primo
piano la carità» (F. Marri). Per assistere i più bisognosi egli fondò inoltre
la Compagnia della Carità, i cui membri – precisa Elena Bianchini Braglia –
«erano tenuti a impegnarsi nel prestare massiccia opera assistenziale, non solo
da un punto di vista materiale ma anche e soprattutto da un punto di vista spirituale
e morale». La sua proposta, in sostanza, «era quella di una religione
socialmente utile, che potesse alleviare i mali sociali più evidenti», anche se
non bisogna commettere l'errore di immaginare un Muratori a tutti gli effetti
illuminista. Il vignolese infatti
«avrebbe guardato con orrore alla minaccia di un rovesciamento di trono e altare»,
dal momento che «predicando e praticando la carità e pubblica felicità egli
invocava un rinnovamento degli uomini, non delle istituzioni». Solo secondo
questa impostazione moderatamente riformista aveva senso parlare di carità, la
quale, «necessaria per la salvezza, andava fatta per aiutare non la Chiesa ma i
bisognosi, [...] cui si doveva dare non l'elemosina, ma lavoro» (G. Imbruglia).
L'idea che le pratiche esteriori di culto fossero da
porre in secondo piano rispetto alle concrete azioni di carità non mancò
peraltro di scandalizzare qualche censore del Sant'Uffizio, mentre ricevette
numerosi apprezzamenti nel nord Europa. Basti dire che il pastore e teologo di
Augsburg Jacob Brucker nei primi due volumi della monumentale Pinacotheca scriptorum nostra aetate literis
illustrium inserì, tra gli italiani, solo Muratori e Scipione Maffei,
riscontrando nel vignolese le doti del «giudizio accurato e solido, letture vaste
e quasi senza fine, ingegno fertile, operosità indefessa e incredibile, animo
retto e privo di pregiudizi».
Esempio emblematico di una religiosità che mai trascurò
la premura verso i più deboli fu l'aspra battaglia intrapresa, pochi anni prima
della morte, per la riduzione delle feste, che sottraevano tempo utile da
dedicare al lavoro e limitavano le possibilità di guadagno dei salariati. Come
sottolinea Fabio Marri, «chiedendo alle autorità religiose e civili di
concordare la soppressione di feste non motivate da particolari ragioni di
culto, Muratori voleva da un lato liberare il cattolicesimo da retaggi di
superstizioni antiche, ma dall'altro lato, soprattutto, contribuire al
miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno agiate». Miglioramento
che, a suo parere, doveva passare anche attraverso una riforma (sollecitata nel
Dei difetti della giurisprudenza,
opera del 1742 di cui si avverte la chiara influenza nel Codice Estense fatto redigere da
Francesco III) che mettesse ordine «nell'infinita congerie di leggi e
pareri legali», responsabile di quei fraintendimenti che – come magistralmente
avrebbe illustrato il Manzoni a proposito di Renzo e Azzeccagarbugli – finivano
per penalizzare sempre e solo la povera gente.
Se la religione doveva quindi necessariamente essere
«consacrata al bene del prossimo», anche la politica doveva avere a cuore la
pubblica utilità. Al riguardo, un'opera del 1714 merita di essere presa
brevemente in considerazione, ovvero Del
governo della peste e delle maniere di guardarsene. Essa si occupava con
grande concretezza della questione del «governo politico, medico ed ecclesiastico
della peste», affrontando il nodo cruciale dei provvedimenti da prendere a
livello sanitario, legale e amministrativo per salvaguardare l'incolumità delle
popolazioni e impedire il contagio. Il primo accorgimento, a parere del
Muratori, era quello di evitare di fomentare paure immotivate, il che era
possibile solo distinguendo tra i dati di fatto accertabili razionalmente e le
credenze. Queste ultime, in particolare, non potevano essere accettate per il
semplice fatto di essere diffuse e condivise dalla maggioranza. Quelle su
untori, streghe e «polveri pestifere» erano dicerie che non facevano altro che
provocare uno «stravolgimento di fantasmi» potenzialmente anche più pericoloso
dell'epidemia, una sorta di «malattia dell'immaginazione» da cui nasceva
«un'incredibil miseria di molti, che temono la morte anche dove non l'hanno da
temere». Prestando fede alle voci della strada era perciò inevitabile che si
giungesse «ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro
di bocca la confession di delitti, ch'eglino forse non avranno mai commesso,
con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli». (Continua)
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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