(articolo apparso su Prima Pagina del 30 marzo 2014)
Anche se sono passati undici anni
dall'uscita del volume nelle librerie, Il
sangue dei vinti – bestseller di Giampaolo Pansa – continua a suscitare
polemiche infuocate. Non si contano, in questo ormai lungo arco di tempo, gli
epiteti offensivi rivolti al giornalista di Casale Monferrato: «fascista»,
«revisionista», «voltagabbana», «servo di Berlusconi». E l'elenco potrebbe proseguire.
A dispetto però della valanga di
insulti che riceve ogni giorno, Pansa continua a vendere moltissime copie, con Il sangue dei vinti (di cui nel 2013 è
uscita l'ultima edizione, con una nuova introduzione dell'autore), ma non solo:
quello con i libri della battagliera penna piemontese sembra diventato, ormai,
un immancabile appuntamento annuale. E, a ben vedere, il motivo delle contestazioni
sta tutto lì: Pansa vende, e molto. Il che significa che le sue idee hanno
trovato terreno fertile in un pubblico costantemente in espansione,
evidentemente stimolato proprio dalle polemiche, anche se niente affatto
disposto a dar loro credito.
Cerchiamo ora, dopo undici anni, di
trarre un bilancio. E proviamo a farlo andando a rileggere le invettive di tre
illustri detrattori del Pansa storico.
Partiamo con Giorgio Bocca, noto
giornalista ex-partigiano scomparso nel dicembre del 2011 all'età di novantuno
anni. All'uscita de Il sangue dei vinti,
definì il volume «un libro vergognoso», con il quale «Pansa si è voluto
mettere in sintonia con gli istinti più bassi di una opinione pubblica
ottimamente rappresentata dal Cavalier Berlusconi e con quanti come lui
vogliono continuare a fare indisturbati i propri loschi affari con questo
alibi: siamo scampati ai comunisti, dobbiamo costruire un regime
anti-comunista». In sostanza, avendo rinnegato il proprio passato di uomo di sinistra
per compiacere il folto pubblico di lettori berlusconiani, Pansa non è altro
che un «voltagabbana», reo, quando parla di ventimila morti per «la resa dei
conti» post-25 aprile, di avere scopiazzato «il fascistissimo
Giorgio Pisanò».
Proseguiamo con Sergio Luzzatto, docente di Storia
moderna all'Università di Torino. Da storico di professione, egli puntò il dito
contro «la concorrenza di giornalisti, o comunque di opinion-makers che il
sistema dell'informazione tende ad accreditare come ferrati in materia di
storia, e che il pubblico è indotto a riconoscere come tali». A ognuno, quindi
– protestava Luzzatto –, il proprio mestiere, come dire che la Storia (quella
con la S maiuscola) non è roba per giornalisti. Ma non è tutto: non solo Pansa
invade il terreno altrui, ma, rispetto agli storici (quelli veri, s'intende),
si comporta come uno stupido pappagallo: «Il libro ripete cose che si sanno. Che
sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate –
con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa – da tutti i migliori
studiosi della guerra civile e dell'immediato dopoguerra».
Terminiamo, infine, con Gad Lerner, noto giornalista e
conduttore televisivo. Ma, in questo caso, non ci occupiamo direttamente di
Pansa, bensì ancora di Luzzatto, questa volta lui nella veste di autore
contestato. La vicenda risale all'anno scorso. Nei primi mesi del 2013 il
docente torinese dava alle stampe Partigia.
Una storia della Resistenza,
volume che ripercorre le vicende della banda «ribelle» di Primo Levi e getta
luce su quello che lo stesso autore di Se
questo è un uomo definì il «segreto brutto» della sua militanza partigiana:
la fucilazione «col metodo sovietico» (ossia «improvvisamente, e senza che se
ne accorgessero fino all'ultimo momento») di due giovani membri della banda,
condannati sbrigativamente a morte in quanto sbandati che si erano resi, col
loro comportamento, incompatibili con le leggi della guerriglia partigiana.
Puntuali, pochi giorni dopo l'uscita del libro, gli anatemi di coloro che scorsero
in esso una potenziale minaccia revisionista, con Lerner in prima fila tra i
propinatori di filippiche e Luzzatto – ironica nemesi? – costretto a difendersi
dalle stesse accuse che egli per primo aveva rivolto all'autore de Il sangue dei vinti. In effetti, su Repubblica il conduttore sembrò
ispirarsi proprio al Luzzatto censore di Pansa: a suo parere, infatti, Partigia «non aggiungerebbe nulla di
nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non
sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori
italiani del Novecento».
Cerchiamo ora di fare un po' di
chiarezza, entrando nel merito delle diverse accuse rivolte a Pansa. Giorgio
Bocca, forse dimentico dei propri trascorsi fascisti, lo definì un
«voltagabbana». Ma, per la verità, Pansa non ha mai rinnegato le proprie
convinzioni antifasciste. Anzi, nella breve premessa a La grande bugia, ci tiene a precisare che «la Resistenza è, da
sempre, la mia patria morale». Frase, si converrà, un po' stonata per un
fascista. Ma allora qual è il problema? Si sarebbe tentati di pensare alle
cifre: possibile che Pansa abbia dato i numeri, quantificando in ventimila i
morti del dopoguerra? Anche qui, però, lo stesso Bocca si tirò la zappa sui
piedi. Nel suo La repubblica di Mussolini
(un classico della storiografia sulla RSI) stimava infatti in 12.000-15.000 i
«fascisti fucilati nei giorni dell'aprile»: una cifra, che non si discosta
granché da quella di Pansa, confermata anche da insigni studiosi quali Paul
Ginsborg e Claudio Pavone (di certo non ascrivibili al berlusconismo).
Ammettendo pure che Pansa – il quale cita comunque altri autori – abbia
approssimato un po' troppo per eccesso, resta il problema di giustificare
migliaia di morti in quella che fu una sanguinosa guerra civile. Del resto, gli
eccidi del dopoguerra non li ha certo raccontati per primo Il sangue dei vinti. Si legga, per esempio, questo breve passo
tratto da Storia del Novecento italiano
(libro uscito nel 2000, tre anni prima, quindi, dello scoppio del caso-Pansa) di
Simona Colarizi (docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma): «[Nel
Nord Italia] le condanne sono state già pronunciate fuori dalle aule dei
tribunali e le esecuzioni si fanno per le strade, nei viottoli delle campagne,
sotto i cavalcavia e nei fossati in piena notte, con un colpo alla nuca. Per
tre mesi nelle province rosse, in particolare l'Emilia Romagna, i partigiani si
scatenano. Alla fine del giugno 1945 i dati raccolti dal Comando generale dei
carabinieri sono impressionanti: sono 270 le persone giustiziate a Bologna, 117
a Ferrara, 120 a Ravenna, 110 a Reggio Emilia, per dare solo le cifre più significative.
E non viene neppure risparmiato chi è in carcere in attesa di processo: a
Cesena, a Ferrara, a Carpi si dà l'assalto alle prigioni per impadronirsi degli
imputati che sono passati per le armi davanti alla folla. È una pagina di
vergogna».
Nessuno insorse per queste frasi
della Colarizi (una storica di professione, collega di Luzzatto...). Ma veniamo
proprio alle accuse di quest'ultimo: a suo parere Pansa, abbiamo visto,
dovrebbe occuparsi di cronaca e lasciare la storia ai professionisti. Ora, a
parte il fatto che questo discorso dovrebbe valere per tutti i giornalisti che
si sono divertiti a scrivere del passato (e quindi anche per quelli
"ortodossi" – un nome su tutti: Enzo Biagi), è evidente che questo è
un finto, e pretestuoso, problema. Il punto è: il libro, a prescindere
dall'autore, è valido o no? Dice falsità o è documentato? Perché delle due
l'una: o il libro è scritto con rigore, e quindi merita di essere letto; o,
all'opposto, è scadente. E, se è scadente, compito degli storici sarebbe quello
di correggerlo, punto per punto, passo per passo. Dalla penna di Luzzatto
dovrebbero uscire frasi del tipo «Qui Pansa sbaglia», «Qui scrive
un'inesattezza», «Qui esagera», e non generiche invettive che puzzano un tantino
di invidia per le copie vendute da un giornalista che gli ha "rubato"
il mestiere.
C'è poi la questione del Pansa (e poi
del Luzzatto "pansizzato") che ricorre al banale copia e incolla. Anche
qui è lecito rimanere un po' perplessi. Innanzitutto, non ce ne voglia Gad
Lerner, condannare un libro per il semplice fatto che non aggiunge «nulla di
nuovo sul piano della ricostruzione storica» significa, implicitamente, dare
credito a ciò che viene ripetuto. Ragionando in questi termini, mica si afferma
che il già detto non sia credibile! Si dice solo che ripetere è peccato, come
se i libri di storia potessero avere tutti la pretesa di affrontare argomenti
trascurati o poco noti. E poi, siamo seri: davvero si può credere che Pansa (e
poi Luzzatto con Partigia) non abbia
niente di nuovo da dire? Vogliamo sostenere che sui fatti raccontati ne Il sangue dei vinti gli italiani fossero
ferrati già prima dell'uscita del libro? Non scherziamo. Perché, in definitiva,
è proprio questo il merito di Pansa: aver acceso l'interesse su un argomento
poco dibattuto. Anziché protestare, gli storici di professione dovrebbero
essergli grati, dal momento che Il sangue
dei vinti – anche volendo considerarlo un libraccio – ha fornito
l'occasione per un proficuo dibattito storiografico, che sarebbe compito dei
professionisti gestire con scrupolo. Per quale motivo, infatti, deve essere
scavato un solco incolmabile tra saggistica e divulgazione?
Per finire, una piccola provocazione.
Quando uscì Il Codice da Vinci di Dan
Brown, lo studioso statunitense Ehrman Bart pubblicò un volumetto intitolato La verità sul Codice da Vinci, nel quale
confutava molte delle tesi contenute nel fortunato bestseller. Ora, immaginiamo
che uno storico di professione dia alle stampe un ipotetico La verità sul Sangue dei vinti: facile
prevedere che sarebbe un successo. Se è vero che Pansa è niente più che un
volgare mistificatore, cosa aspettano i suoi detrattori a prendere in mano carta
e penna?
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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