mercoledì 23 aprile 2014

Lodovico Antonio Muratori: la vita del grande letterato vignolese (terza parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 aprile 2014)

Negli anni compresi tra il 1717 e il 1723, Muratori si dedicò «al prodotto principale ed imperituro» della sua produzione: ovvero al progetto dei Rerum Italicarum Scriptores, l'opera che avrebbe segnato «il rinnovamento, o più precisamente la fondazione della moderna storiografia basata sulle fonti, ed in particolare la scoperta del Medio Evo» (F. Marri). La decisione di sobbarcarsi un lavoro così impegnativo venne motivata dallo stesso scrittore modenese con queste parole (che risalgono al 1721): «In mia gioventù altro io non aveva in testa che antichità greche e romane. [...] Per lo contrario mi facevano male agli occhi le fatture de' secoli susseguenti, la loro storia, i loro scrittori, riti, costumi e imbrogli, trovando io dappertutto del meschino, del barbaro (e infatti non ne manca), e parendo a me di camminare solamente per orride montagne, per miserabili tuguri e in mezzo a un popolo di fiere. [...] Mi rido ora di me stesso. Anche quel barbaro, anche quell'orrido (me ne avvidi poi tardi) ha il suo bello e il suo dilettevole».
La raccolta dei RIS, 24 volumi di fonti narrative della storia d'Italia dal 500 al 1500, fu compilata tra il 1723 e il 1738 (un ulteriore tomo fu pubblicato postumo nel 1751): per coprire le spese di stampa, precisa Fabio Marri, «era stata fondata a Milano una "Società Palatina" che aveva messo in piedi un imponente lavoro di "sottoscrizioni"». In totale, il Muratori pubblicò 116 fonti edite e oltre 2000 inedite, risultato raggiunto grazie alla determinazione con la quale il vignolese, dopo avere passato al setaccio le biblioteche Ambrosiana ed Estense, «mosse per lettera mezza Italia (e un po' d'Europa), alla ricerca di altri manoscritti medievali». L'idea che stava alla base del progetto era la centralità della fonte, l'unica in grado di offrire «quanto della storia costituisce il nocciolo, cioè una ordinata e chiara esposizione dei fatti».
Più in generale, la grande novità dell'opera era la rivalutazione di quella che, sino ad allora, era stata pressoché universalmente considerata un'età barbarica, indegna di essere accostata al fulgido periodo della classicità. Muratori, beninteso, non arrivava a superare il radicato pregiudizio che vedeva nell'età di mezzo una fase di profonda decadenza della civiltà europea; intuiva però che in quell'epoca così poco conosciuta andavano cercate le radici culturali della società settecentesca. A suo parere, nello specifico, «studiare il Medioevo significava anche esaminare e ripulire la tradizione paleocristiana ricorrendo a quelle conoscenze di patristica, paleografia, archeologia, epigrafia che consentissero di valutare i testi e di riportarli al loro tempo». Il tutto secondo una ben delineata prospettiva nazionale, essendo la nazione «il grande sostrato implicito che si esprimeva nel travaglio durissimo dei secoli oscuri come si era espresso attraverso la civile dominazione di Roma; e come […] si sarebbe dovuto esprimere, nei tempi più sereni che l'umanità del XVIII conosceva, nei termini e nelle forme di un buon governo misurato umano ragionevole» (M. Capucci).
Nella prefazione ai RIS il vignolese dava un'esauriente spiegazione del perché avesse deciso di riesumare i «secoli rozzi e infelici»: «Se dal secolo VI si presenta troppo afflitto e lacerato il volto e il destino d'Italia, [...] ciò non è da tanto che possa o debba distogliere la nostra mente dalla storia di quei tempi. Anche la conoscenza di quelle cose, infatti, è parte non trascurabile della cultura, e se ne siamo privi, facilmente il nostro corredo apparirà manchevole e noi incolti».
Muratori mirava in sostanza a ricostruire, attraverso lo studio del Medioevo, «la storia civile d'Italia» (e non quindi, si badi, una storia della storiografia, dal momento che – ha scritto Martino Capucci – «il suo interesse va ai fatti […], prima che alla resa letteraria dei testi»). In questo senso le successive opere storiche dovevano, nelle sue intenzioni, concentrarsi sull'insieme, ovvero sull'accertamento della verità storica entro una cornice nazionale italiana precocemente avvertita come unificante. Direttamente collegate ai RIS sono pertanto da considerarsi le Antiquitates Italicae Medii Aevi (pubblicate in sei tomi, dedicati a Federico Augusto III di Polonia, tra il 1738 e il 1742), opera nella quale, mettendo a profitto la lezione dei maurini e di Leibniz, Muratori intese «offrire un disegno unitario nel quale siano adeguatamente rappresentate le molte forme in cui si estrinsecò la vita sociale del Medioevo» (M. Capucci). La raccolta fu così presentata dal nipote nella citata Vita del proposto Lodovico: «Era il Muratori ben esercitato nella Critica Diplomatica, e nella conoscenza degli antichi caratteri, per averne fatto un lungo noviziato sopra i Manoscritti dell'Ambrosiana, e negli Archivi della Casa d'Este, e della Cattedrale di Modena; laonde poté arricchir l'Italia di una amplissima Raccolta di Documenti antichi; e questi poi a lui servirono per formar la grande Opera sua […], costituente in settantacinque Dissertazioni intorno i Riti, Costumi, Leggi, Dignità, Giudizi, Milizia, Mercatura, Arti, Contratti, e simili altri argomenti, che tutte insieme formano un'intera dipintura dell'Italia dopo la declinazione del Romano Imperio».
Rigorosamente delimitato cronologicamente a partire dalla disgregazione del mondo romano, conseguenza delle invasioni barbariche, il Medioevo diveniva pertanto per Muratori un imprescindibile punto di partenza non solo per l'approfondimento della storia delle istituzioni (Chiesa, signorie, comuni), ma anche per lo studio dei costumi, delle leggi, della demografia, dell'economia, della religiosità, dell'arte, della lingua e della letteratura. Anche per questa «grande varietà ed oscurità degli argomenti» trattati, le Antiquitates costarono al vignolese «maggior fatica» di tutte le altre opere. «Niun'altra», però – conclude Gian Francesco Soli Muratori –, «diede maggiormente a conoscere, quanto vasta e profonda fosse la sua erudizione [...]; né alcun'altra perciò si vide più di questa applaudita non men dagl'Italiani, che dagli Oltramontani Letterati».
Il successo delle Antiquitates convinse probabilmente il Muratori della necessità di completare «il proprio piano storiografico dandosi a un'opera richiestagli […] da tutta la cultura italiana» (F. Marri). Nacquero così gli Annali d'Italia (pubblicati in nove tomi nel 1744, con l'aggiunta di altri tre nel 1749), che videro la luce con l'intento – precisa Capucci – «di accompagnare alle due grandi raccolte medievali un racconto disteso che lo ordinasse annalisticamente». Il progetto prevedeva inizialmente di prendere in esame il millennio 500-1500, ma fu presto ampliato fino a comprendere il principio dell'era volgare; in seguito, tuttavia, ulteriori appelli spinsero il letterato modenese ad estendere la narrazione sino alla pace di Aquisgrana del 1748, che, giunta al termine della guerra di successione austriaca, parve porre fine a secoli di conflitti e devastazioni.
A caratterizzare l'opera era innanzitutto «il ripudio di tutte le interpretazioni finalistiche o provvidenziali», che emergeva anche da alcuni giudizi particolarmente severi espressi nei confronti della Chiesa di Roma e di alcuni papi, alla cui condotta politica il Muratori imputava la responsabilità dello scisma protestante (F. Marri). Più in generale, come ha notato Furio Diaz, «l'erudizione e il moderato razionalismo di Muratori formulano una serie di revisioni storiografiche, ispirate al ripudio della ragion di Stato secentesca e piene di un umanitarismo avverso alle guerre e alle violenze, sollecito del bene dei popoli anche se piuttosto timido di fronte all'autorità e rispettoso delle complesse esigenze della politica».
Questa impronta culturale moderatamente riformatrice è facilmente riscontrabile nelle opere della maturità del vignolese, specie negli scritti politici e di filosofia morale. A parte il trattato – pubblicato nel 1749 – Della pubblica felicità (che Franco Venturi annovera fra le espressioni più mature «di tutto il pensiero riformatore in Italia durante la guerra di successione austriaca»), due scritti quali la Filosofia morale esposta e proposta ai giovani (1735) e Il cristianesimo felice nelle missioni de' padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (1743, con un supplemento nel 1749) offrono, seppure da prospettive differenti, una chiara testimonianza dell'attenzione del Muratori per «l'incrocio tra nuova questione sociale e consolidato convincimento assolutistico» (G. Imbruglia). Se nella prima opera infatti l'erudito modenese non mancava di avvertire i governanti che «quanto più in alto seggono, […] tanto più grande è il fascio delle obbligazioni e dei doveri», nella seconda egli riversava «i suoi ideali evangelici e umanitari», individuando «nelle Riduzioni del Paraguay la reincarnazione della società perfetta già attuata dai primi cristiani» (F. Marri).
Gli scritti degli anni Quaranta lasciavano in sostanza trasparire «l'esigenza di istituzioni adatte a un'efficace carità», con il conseguente «appello politico ai principi» affinché adeguassero la legislazione al diffuso disagio sociale (G. Imbruglia). In quest'ottica, la Pubblica felicità, di fatto un articolato trattato sul buon governo, costituisce per Venturi «il testamento e il programma di un uomo e di un'epoca», nel quale Muratori «riprende […] i problemi di riforma che lo hanno appassionato nella sua lunga carriera, dalla letteratura all'economia».
Giunto alle soglie dei 77 anni, il vignolese, ormai infermo, ebbe il tempo di dare alle stampe il De naevis in religionem incurrentibus («difesa – scrive Marri – […] della prassi cattolica nella canonizzazione dei santi, seppure con qualche apertura al protestantesimo») e Dei pregi dell'eloquenza popolare («un'estrema esortazione ai predicatori perché si attenessero alla semplicità espositiva, per rispetto del popolo»). Appena licenziata quest'ultima opera, la malattia lo privò della vista da entrambi gli occhi, finché non sopraggiunse la morte il 23 gennaio 1750.

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