(articolo apparso su Prima Pagina del 20 aprile 2014)
Negli anni compresi tra il 1717 e il 1723, Muratori si
dedicò «al prodotto principale ed imperituro» della sua produzione: ovvero al
progetto dei Rerum Italicarum Scriptores,
l'opera che avrebbe segnato «il rinnovamento, o più precisamente la fondazione
della moderna storiografia basata sulle fonti, ed in particolare la scoperta
del Medio Evo» (F. Marri). La decisione di sobbarcarsi un lavoro così
impegnativo venne motivata dallo stesso scrittore modenese con queste parole
(che risalgono al 1721): «In mia gioventù altro io non aveva in testa che
antichità greche e romane. [...] Per lo contrario mi facevano male agli occhi
le fatture de' secoli susseguenti, la loro storia, i loro scrittori, riti,
costumi e imbrogli, trovando io dappertutto del meschino, del barbaro (e
infatti non ne manca), e parendo a me di camminare solamente per orride
montagne, per miserabili tuguri e in mezzo a un popolo di fiere. [...] Mi rido
ora di me stesso. Anche quel barbaro, anche quell'orrido (me ne avvidi poi
tardi) ha il suo bello e il suo dilettevole».
La raccolta dei RIS,
24 volumi di fonti narrative della storia d'Italia dal 500 al 1500, fu
compilata tra il 1723 e il 1738 (un ulteriore tomo fu pubblicato postumo nel
1751): per coprire le spese di stampa, precisa Fabio Marri, «era stata fondata
a Milano una "Società Palatina" che aveva messo in piedi un imponente
lavoro di "sottoscrizioni"». In totale, il Muratori pubblicò 116
fonti edite e oltre 2000 inedite, risultato raggiunto grazie alla
determinazione con la quale il vignolese, dopo avere passato al setaccio le
biblioteche Ambrosiana ed Estense, «mosse per lettera mezza Italia (e un po'
d'Europa), alla ricerca di altri manoscritti medievali». L'idea che stava alla
base del progetto era la centralità della fonte, l'unica in grado di offrire
«quanto della storia costituisce il nocciolo, cioè una ordinata e chiara esposizione
dei fatti».
Più in generale, la grande novità dell'opera era la
rivalutazione di quella che, sino ad allora, era stata pressoché universalmente
considerata un'età barbarica, indegna di essere accostata al fulgido periodo
della classicità. Muratori, beninteso, non arrivava a superare il radicato
pregiudizio che vedeva nell'età di mezzo una fase di profonda decadenza della
civiltà europea; intuiva però che in quell'epoca così poco conosciuta andavano
cercate le radici culturali della società settecentesca. A suo parere, nello
specifico, «studiare
il Medioevo significava anche esaminare e ripulire la tradizione paleocristiana
ricorrendo a quelle conoscenze di patristica, paleografia, archeologia, epigrafia
che consentissero di valutare i testi e di riportarli al loro tempo». Il tutto
secondo una ben delineata prospettiva nazionale, essendo la nazione «il grande
sostrato implicito che si esprimeva nel travaglio durissimo dei secoli oscuri
come si era espresso attraverso la civile dominazione di Roma; e come […] si
sarebbe dovuto esprimere, nei tempi più sereni che l'umanità del XVIII
conosceva, nei termini e nelle forme di un buon governo misurato umano
ragionevole» (M. Capucci).
Nella prefazione ai RIS
il vignolese dava un'esauriente spiegazione del perché avesse deciso di
riesumare i «secoli
rozzi e infelici»: «Se dal secolo VI si presenta troppo afflitto e lacerato il volto
e il destino d'Italia, [...] ciò non è da tanto che possa o debba distogliere
la nostra mente dalla storia di quei tempi. Anche la conoscenza di quelle cose,
infatti, è parte non trascurabile della cultura, e se ne siamo privi,
facilmente il nostro corredo apparirà manchevole e noi incolti».
Muratori mirava in sostanza a ricostruire, attraverso lo
studio del Medioevo, «la storia civile d'Italia» (e non quindi, si badi, una storia
della storiografia, dal momento che – ha scritto Martino Capucci – «il suo
interesse va ai fatti […], prima che alla resa letteraria dei testi»). In
questo senso le successive opere storiche dovevano, nelle sue intenzioni,
concentrarsi sull'insieme, ovvero sull'accertamento della verità storica entro
una cornice nazionale italiana precocemente avvertita come unificante.
Direttamente collegate ai RIS sono
pertanto da considerarsi le Antiquitates
Italicae Medii Aevi (pubblicate in sei tomi, dedicati a Federico Augusto
III di Polonia, tra il 1738 e il 1742), opera nella quale, mettendo a profitto
la lezione dei maurini e di Leibniz, Muratori intese «offrire un disegno
unitario nel quale siano adeguatamente rappresentate le molte forme in cui si
estrinsecò la vita sociale del Medioevo» (M. Capucci). La raccolta fu così
presentata dal nipote nella citata Vita
del proposto Lodovico: «Era il Muratori ben esercitato nella Critica
Diplomatica, e nella conoscenza degli antichi caratteri, per averne fatto un
lungo noviziato sopra i Manoscritti dell'Ambrosiana, e negli Archivi della Casa
d'Este, e della Cattedrale di Modena; laonde poté arricchir l'Italia di una
amplissima Raccolta di Documenti antichi; e questi poi a lui servirono per
formar la grande Opera sua […], costituente in settantacinque Dissertazioni
intorno i Riti, Costumi, Leggi, Dignità, Giudizi, Milizia, Mercatura, Arti,
Contratti, e simili altri argomenti, che tutte insieme formano un'intera
dipintura dell'Italia dopo la declinazione del Romano Imperio».
Rigorosamente delimitato cronologicamente a partire dalla
disgregazione del mondo romano, conseguenza delle invasioni barbariche, il
Medioevo diveniva pertanto per Muratori un imprescindibile punto di partenza
non solo per l'approfondimento della storia delle istituzioni (Chiesa, signorie,
comuni), ma anche per lo studio dei costumi, delle leggi, della demografia,
dell'economia, della religiosità, dell'arte, della lingua e della letteratura.
Anche per questa «grande varietà ed oscurità degli argomenti»
trattati, le Antiquitates costarono
al vignolese «maggior fatica» di tutte le altre opere. «Niun'altra», però –
conclude Gian Francesco Soli Muratori –, «diede maggiormente a conoscere,
quanto vasta e profonda fosse la sua erudizione [...]; né alcun'altra perciò si
vide più di questa applaudita non men dagl'Italiani, che dagli Oltramontani
Letterati».
Il successo delle Antiquitates
convinse probabilmente il Muratori della necessità di completare «il
proprio piano storiografico dandosi a un'opera richiestagli […] da tutta la
cultura italiana» (F. Marri). Nacquero così gli Annali d'Italia (pubblicati in nove tomi nel 1744, con l'aggiunta
di altri tre nel 1749), che videro la luce con l'intento – precisa Capucci –
«di accompagnare alle due grandi raccolte medievali un racconto disteso che lo
ordinasse annalisticamente». Il progetto prevedeva inizialmente di prendere in
esame il millennio 500-1500, ma fu presto ampliato fino a comprendere il
principio dell'era volgare; in seguito, tuttavia, ulteriori appelli spinsero il
letterato modenese ad estendere la narrazione sino alla pace di Aquisgrana del
1748, che, giunta al termine della guerra di successione austriaca, parve porre
fine a secoli di conflitti e devastazioni.
A caratterizzare l'opera era innanzitutto «il ripudio di tutte le
interpretazioni finalistiche o provvidenziali», che emergeva anche da alcuni
giudizi particolarmente severi espressi nei confronti della Chiesa di Roma e di
alcuni papi, alla cui condotta politica il Muratori imputava la responsabilità
dello scisma protestante (F. Marri). Più in generale, come ha notato Furio
Diaz, «l'erudizione e il moderato razionalismo di Muratori formulano una serie
di revisioni storiografiche, ispirate al ripudio della ragion di Stato
secentesca e piene di un umanitarismo avverso alle guerre e alle violenze,
sollecito del bene dei popoli anche se piuttosto timido di fronte all'autorità
e rispettoso delle complesse esigenze della politica».
Questa impronta culturale moderatamente riformatrice è facilmente
riscontrabile nelle opere della maturità del vignolese, specie negli scritti
politici e di filosofia morale. A parte il trattato – pubblicato nel 1749 – Della pubblica felicità (che Franco
Venturi annovera fra le espressioni più mature «di tutto il pensiero
riformatore in Italia durante la guerra di successione austriaca»), due scritti
quali la Filosofia morale esposta e
proposta ai giovani (1735) e Il
cristianesimo felice nelle missioni de' padri della Compagnia di Gesù nel
Paraguai (1743, con un supplemento nel 1749) offrono, seppure da
prospettive differenti, una chiara testimonianza dell'attenzione del Muratori
per «l'incrocio tra nuova questione sociale e consolidato convincimento
assolutistico» (G. Imbruglia). Se nella prima opera infatti l'erudito modenese
non mancava di avvertire i governanti che «quanto più in alto seggono, […]
tanto più grande è il fascio delle obbligazioni e dei doveri», nella seconda
egli riversava «i suoi ideali evangelici e umanitari», individuando «nelle
Riduzioni del Paraguay la reincarnazione della società perfetta già attuata dai
primi cristiani» (F. Marri).
Gli scritti degli anni Quaranta lasciavano in sostanza
trasparire «l'esigenza
di istituzioni adatte a un'efficace carità», con il conseguente «appello
politico ai principi» affinché adeguassero la legislazione al diffuso disagio
sociale (G. Imbruglia). In quest'ottica, la Pubblica
felicità, di fatto un articolato trattato sul buon governo, costituisce per
Venturi «il testamento e il programma di un uomo e di un'epoca», nel quale
Muratori «riprende […] i problemi di riforma che lo hanno appassionato nella
sua lunga carriera, dalla letteratura all'economia».
Giunto alle soglie dei 77 anni, il vignolese, ormai infermo, ebbe
il tempo di dare alle stampe il De naevis
in religionem incurrentibus («difesa – scrive Marri – […] della prassi
cattolica nella canonizzazione dei santi, seppure con qualche apertura al
protestantesimo») e Dei pregi dell'eloquenza
popolare («un'estrema esortazione ai predicatori perché si attenessero alla
semplicità espositiva, per rispetto del popolo»). Appena licenziata
quest'ultima opera, la malattia lo privò della vista da entrambi gli occhi,
finché non sopraggiunse la morte il 23 gennaio 1750.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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