venerdì 9 maggio 2014

Rinaldo d'Este, il cardinale che rinunciò alla porpora per diventare duca

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 maggio 2014)

Nel 1694, alla morte – prematura e senza eredi – di Francesco II, la successione nei domini estensi fu raccolta dal cardinal Rinaldo, figlio di Francesco I, e quindi zio del precedente duca. Giunto al potere per volontà testamentaria del nipote, il nuovo sovrano non ebbe difficoltà ad ottenere dal papa il permesso di rinunciare alla porpora cardinalizia, ricevendo immediatamente anche il riconoscimento imperiale.
Il suo primo significativo atto di governo fu il matrimonio con Carlotta Felicita di Brunswick Lüneburg, nipote di Ernesto Augusto, elettore di Hannover del Sacro Romano Impero nonché discendente – al pari degli Este – di Alberto Azzo II. La scelta della consorte fu dettata dalla volontà di ricongiungere le due casate, al fine di cementare l'alleanza con il partito imperiale, dopo che la politica di Francesco II aveva di fatto allontanato gli Estensi dall'orbita francese. Cinque anni dopo il matrimonio, celebrato con grande sfarzo per procura ad Hannover nel 1695, Rinaldo richiamò a Modena Lodovico Antonio Muratori – che si trovava a Milano in qualità di bibliotecario dell'Ambrosiana –, commissionandogli il vaglio delle carte dalle quali dovevano emergere prove documentali che attestassero la storicità del legame con la casata della moglie.
Il riavvicinamento all'Impero fu confermato in quegli anni con un altro matrimonio, quello – celebrato a Modena nel 1699 – tra Amalia, sorella di Carlotta Felicita, e Giuseppe d'Asburgo, figlio dell'imperatore Leopoldo I. Nelle intenzioni di Rinaldo la scelta di campo non implicava però la rinuncia al tradizionale principio della neutralità in caso di conflitto europeo, strategia pressoché obbligata per un piccolo Stato incapace di opporsi alle grandi potenze. Così, quando nel 1702 scoppiò la guerra di successione spagnola (aspra contesa tra la Francia e la Spagna da una parte e gli Asburgo dall'altra, motivata dal rifiuto di questi ultimi di riconoscere il duca d'Angiò Filippo di Borbone – nipote di Luigi XIV – quale legittimo erede di Carlo II, nella prospettiva di scongiurare una futura unione, ventilata dal Re Sole, delle corone di Parigi e Madrid), il duca – scrive Luciano Chiappini – «cercò di non rompere i ponti con nessuno, accontentando nei limiti del possibile francesi e spagnoli da un lato ed imperiali dall'altro».
Il tentativo di mantenere una rigida neutralità era tuttavia destinato a fallire. Intricati nodi, infatti, vennero al pettine allorché il principe Eugenio di Savoia, comandante delle truppe imperiali, intimò agli Este di cedere il forte di Brescello, in precedenza negato ai francesi. Per tutta risposta questi ultimi – dopo che l'esercito franco-spagnolo aveva respinto gli imperiali – occuparono Reggio e Modena (tempestivamente abbandonata dal duca, il quale, dopo avere nominato una reggenza, era riparato con la sua corte a Bologna), e in seguito smantellarono le fortificazioni della stessa Brescello. Per il ritorno di Rinaldo si dovette attendere il 1707, ovvero la fine della guerra con il conseguente abbandono delle terre estensi da parte dei francesi sconfitti.
Modena, del tutto impossibilitata a fare la voce grossa, aveva di fatto subito le conseguenze di un conflitto in nessun modo voluto o provocato. Al suo ritorno nella capitale Rinaldo dovette pertanto far fronte ad una situazione critica, dal momento che i francesi, durante l'occupazione, avevano vessato la popolazione con pesanti tributi e, evidentemente non paghi, si erano persino fatti ingolosire dalle argenterie e dagli arredi del guardaroba ducale. Le difficoltà incontrate dal duca nel tentativo di risanare le casse dello Stato e nella gestione della delicatissima politica estera post-bellica sono state così inquadrate da Luigi Amorth: «Rinaldo cercò dall'Impero qualche compenso ai molti danni subiti ed ebbe promesse di indennizzi, che si ridussero poi alla vana speranza di poter rivendicare Comacchio, occupata da truppe imperiali in un momento di urto col Papa, e all'acquisto di Mirandola e Concordia, confiscate al duca Pico che si era battuto dalla parte francese, per la bella somma di oltre duecentomila dobloni spagnoli e con la conseguenza di comprometterlo definitivamente nella sua teorica situazione di principe neutrale. Da allora fu decisamente considerato partigiano dell'Impero».
La questione che più assillava il duca era, ad ogni modo, quella finanziaria. Già nel 1695 egli aveva infatti prospettato un quadro decisamente allarmante nella sua corrispondenza con Vienna: «Siamo indebitati e tutte le sicurezze si sono adoperate: le gioie e gli argenti furono dal Sig. Duca mio nipote impegnate. Noi abbiamo contratti nuovi debiti in Venezia, Genova, Bologna e Roma». L'emergenza (forse, va detto, in parte ingigantita dalle parole di Rinaldo, intenzionato a sottrarsi all'onere – divenuto prassi ai tempi del suo predecessore – del mantenimento di truppe imperiali sul territorio estense) si tradusse quindi in una politica di rigida austerità e di rigorosa moralizzazione dei costumi. Balli e divertimenti furono ridotti al minimo, venne curata con severità la riscossione delle imposte e ci si preoccupò di migliorare le rese agricole. Lo stesso Rinaldo, seppur dispotico e autoritario, voleva dare il buon esempio: per questo – scrive Riccardo Rimondi – «si alzava presto, seguiva con rigore i precetti religiosi e si coricava alle dieci».
A turbare il sonno del duca non era però solo il delicato problema dell'indebitamento dello Stato: altrettanto spinosa fu l'aspra controversia con Roma per il caso di Comacchio, feudo di investitura imperiale che, all'epoca della Devoluzione di Ferrara alla Santa Sede (1598), era stato (indebitamente, secondo il parere degli Estensi) incamerato dalla Chiesa. La questione, da anni oggetto di continui botta e risposta tra Modena e la Corte pontificia, era tornata di attualità nel 1708, con l'occupazione di Comacchio da parte delle truppe imperiali (motivata non tanto dalla volontà di assecondare le richieste estensi, quanto dall'intento di fare pressioni su Clemente XI affinché riconoscesse Carlo d'Asburgo – il rivale di Filippo di Borbone, che successivamente sarebbe diventato imperatore come Carlo VI – quale legittimo re di Spagna). Logico che, in quelle circostanze, Modena scorgesse il pretesto per ribadire le proprie rivendicazioni, che furono saggiamente affidate da Rinaldo alla penna di Muratori. Questi, incaricato di trovare nei documenti le prove che potessero legittimare il recupero delle terre contese nel Ferrarese, diede infine alle stampe, nel 1712, la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio, in cui abilmente confutava le argomentazioni addotte dalla Santa Sede. Tuttavia, come del resto ampiamente previsto dallo stesso Muratori («Le carte e l'erudizione non conquistano Stati», aveva realisticamente scritto a Leibniz), ogni sforzo fu vano, e nel 1725 la Chiesa rientrò pienamente in possesso delle terre contese.
Uguale sorte ebbe il tentativo di intromettersi nella successione a Parma e in Toscana. Rinaldo, dando prova di una certa ingenuità, avanzò la propria candidatura a uno dei due troni, cercando appoggi presso la corte di Versailles. Risultato delle trattative fu il matrimonio del primogenito Francesco con Carlotta Aglae, figlia del reggente di Francia Filippo d'Orleans: un'unione che non solo non servì a nulla a livello politico, ma che si rivelò anche in tutti i sensi fallimentare a causa del difficile carattere della futura duchessa.
Non per questo, ad ogni modo, Rinaldo rinunciò alla strategia delle alleanze matrimoniali (una delle poche armi in dotazione ai piccoli Stati dinastici dell'epoca). Nel 1728 fu infatti la volta della figlia Enrichetta, data in sposa ad Antonio Farnese, ultimo duca di una casata in estinzione. L'obiettivo era evitare che Parma, in assenza di successori, cadesse nelle mani di una potenza europea, con tutti i rischi che una tale prospettiva comportava per il debole Stato estense. Ma la mancata nascita di un erede vanificò anche questo disegno: morto Antonio nel 1731, Parma passò dai Farnese ai Borbone di Spagna.
Nel frattempo Rinaldo, che certo si può dire non fosse assistito dalla buona sorte, aveva perso nel 1727 il figlio prediletto, il giovane Gian Federico. Per il duca, ormai anziano, fu un duro colpo, cui si aggiunse, sei anni più tardi, l'umiliazione per un nuovo esilio a Bologna. Era infatti scoppiata la guerra di successione polacca e Rinaldo, prontamente dichiaratosi ufficialmente neutrale, incappò nell'ennesimo episodio sfortunato: una lettera segreta in cui offriva il proprio aiuto all'Impero fu intercettata dai francesi, che non esitarono ad occupare Modena.
Nella capitale estense il duca poté tornare solo nel 1736, accolto da grandi festeggiamenti. Per la sua lealtà (anche se non può escludersi che si trattasse in realtà del conguaglio di un precedente prestito) l'imperatore gli concesse l'investitura dei feudi di Novellara e Bagnolo; ma Rinaldo non ebbe il tempo di godere di questo – seppur limitato – successo diplomatico. L'anno seguente, all'età di ottantadue anni, si spense lasciando il ducato in eredità al figlio Francesco III.

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