(articolo apparso su Prima Pagina del 4 maggio 2014)
Nel 1694, alla morte – prematura e
senza eredi – di Francesco II, la successione nei domini estensi fu raccolta
dal cardinal Rinaldo, figlio di Francesco I, e quindi zio del precedente duca.
Giunto al potere per volontà testamentaria del nipote, il nuovo sovrano non
ebbe difficoltà ad ottenere dal papa il permesso di rinunciare alla porpora
cardinalizia, ricevendo immediatamente anche il riconoscimento imperiale.
Il suo primo significativo atto di
governo fu il matrimonio con Carlotta Felicita di Brunswick Lüneburg, nipote di
Ernesto Augusto, elettore di Hannover del Sacro Romano Impero nonché discendente
– al pari degli Este – di Alberto Azzo II. La scelta della consorte fu dettata
dalla volontà di ricongiungere le due casate, al fine di cementare l'alleanza
con il partito imperiale, dopo che la politica di Francesco II aveva di fatto
allontanato gli Estensi dall'orbita francese. Cinque anni dopo il matrimonio,
celebrato con grande sfarzo per procura ad Hannover nel 1695, Rinaldo richiamò
a Modena Lodovico Antonio Muratori – che si trovava a Milano in qualità di
bibliotecario dell'Ambrosiana –, commissionandogli il vaglio delle carte dalle
quali dovevano emergere prove documentali che attestassero la storicità del
legame con la casata della moglie.
Il riavvicinamento all'Impero fu
confermato in quegli anni con un altro matrimonio, quello – celebrato a Modena
nel 1699 – tra Amalia, sorella di Carlotta Felicita, e Giuseppe d'Asburgo,
figlio dell'imperatore Leopoldo I. Nelle intenzioni di Rinaldo la scelta di
campo non implicava però la rinuncia al tradizionale principio della neutralità
in caso di conflitto europeo, strategia pressoché obbligata per un piccolo
Stato incapace di opporsi alle grandi potenze. Così, quando nel 1702 scoppiò la
guerra di successione spagnola (aspra contesa tra la Francia e la Spagna da una
parte e gli Asburgo dall'altra, motivata dal rifiuto di questi ultimi di
riconoscere il duca d'Angiò Filippo di Borbone –
nipote di Luigi XIV – quale legittimo erede di Carlo II, nella prospettiva di scongiurare
una futura unione, ventilata dal Re Sole, delle corone di Parigi e Madrid), il
duca – scrive Luciano Chiappini – «cercò di non rompere i ponti con nessuno,
accontentando nei limiti del possibile francesi e spagnoli da un lato ed
imperiali dall'altro».
Il tentativo di mantenere una rigida
neutralità era tuttavia destinato a fallire. Intricati nodi, infatti, vennero
al pettine allorché il principe Eugenio di Savoia, comandante delle truppe
imperiali, intimò agli Este di cedere il forte di Brescello, in precedenza
negato ai francesi. Per tutta risposta questi ultimi – dopo che l'esercito
franco-spagnolo aveva respinto gli imperiali – occuparono Reggio e Modena
(tempestivamente abbandonata dal duca, il quale, dopo avere nominato una reggenza,
era riparato con la sua corte a Bologna), e in seguito smantellarono le
fortificazioni della stessa Brescello. Per il ritorno di Rinaldo si dovette
attendere il 1707, ovvero la fine della guerra con il conseguente abbandono
delle terre estensi da parte dei francesi sconfitti.
Modena, del tutto impossibilitata a
fare la voce grossa, aveva di fatto subito le conseguenze di un conflitto in
nessun modo voluto o provocato. Al suo ritorno nella capitale Rinaldo dovette
pertanto far fronte ad una situazione critica, dal momento che i francesi,
durante l'occupazione, avevano vessato la popolazione con pesanti tributi e,
evidentemente non paghi, si erano persino fatti ingolosire dalle argenterie e
dagli arredi del guardaroba ducale. Le difficoltà incontrate dal duca nel
tentativo di risanare le casse dello Stato e nella gestione della delicatissima
politica estera post-bellica sono state così inquadrate da Luigi Amorth: «Rinaldo
cercò dall'Impero qualche compenso ai molti danni subiti ed ebbe promesse di
indennizzi, che si ridussero poi alla vana speranza di poter rivendicare
Comacchio, occupata da truppe imperiali in un momento di urto col Papa, e
all'acquisto di Mirandola e Concordia, confiscate al duca Pico che si era
battuto dalla parte francese, per la bella somma di oltre duecentomila dobloni
spagnoli e con la conseguenza di comprometterlo definitivamente nella sua
teorica situazione di principe neutrale. Da allora fu decisamente considerato
partigiano dell'Impero».
La questione che più assillava il
duca era, ad ogni modo, quella finanziaria. Già nel 1695 egli aveva infatti
prospettato un quadro decisamente allarmante nella sua corrispondenza con
Vienna: «Siamo indebitati e tutte le sicurezze si sono adoperate: le gioie e
gli argenti furono dal Sig. Duca mio nipote impegnate. Noi abbiamo contratti
nuovi debiti in Venezia, Genova, Bologna e Roma». L'emergenza (forse, va detto,
in parte ingigantita dalle parole di Rinaldo, intenzionato a sottrarsi
all'onere – divenuto prassi ai tempi del suo predecessore – del mantenimento di
truppe imperiali sul territorio estense) si tradusse quindi in una politica di
rigida austerità e di rigorosa moralizzazione dei costumi. Balli e divertimenti
furono ridotti al minimo, venne curata con severità la riscossione delle
imposte e ci si preoccupò di migliorare le rese agricole. Lo stesso Rinaldo,
seppur dispotico e autoritario, voleva dare il buon esempio: per questo –
scrive Riccardo Rimondi – «si alzava presto, seguiva con rigore i precetti
religiosi e si coricava alle dieci».
A turbare il sonno del duca non era
però solo il delicato problema dell'indebitamento dello Stato: altrettanto
spinosa fu l'aspra controversia con Roma per il caso di Comacchio, feudo di
investitura imperiale che, all'epoca della Devoluzione di Ferrara alla Santa
Sede (1598), era stato (indebitamente, secondo il parere degli Estensi)
incamerato dalla Chiesa. La questione, da anni oggetto di continui botta e
risposta tra Modena e la Corte pontificia, era tornata di attualità nel 1708,
con l'occupazione di Comacchio da parte delle truppe imperiali (motivata non
tanto dalla volontà di assecondare le richieste estensi, quanto dall'intento di
fare pressioni su Clemente XI affinché riconoscesse Carlo d'Asburgo – il rivale
di Filippo di Borbone, che successivamente sarebbe diventato imperatore come
Carlo VI – quale legittimo re di Spagna). Logico che, in quelle circostanze,
Modena scorgesse il pretesto per ribadire le proprie rivendicazioni, che furono
saggiamente affidate da Rinaldo alla penna di Muratori. Questi, incaricato di
trovare nei documenti le prove che potessero legittimare il recupero delle
terre contese nel Ferrarese, diede infine alle stampe, nel 1712, la Piena esposizione dei diritti imperiali ed
estensi sopra la città di Comacchio, in cui abilmente confutava le
argomentazioni addotte dalla Santa Sede. Tuttavia, come del resto ampiamente
previsto dallo stesso Muratori («Le carte e l'erudizione non conquistano
Stati», aveva realisticamente scritto a Leibniz), ogni sforzo fu vano, e nel
1725 la Chiesa rientrò pienamente in possesso delle terre contese.
Uguale sorte ebbe il tentativo di
intromettersi nella successione a Parma e in Toscana. Rinaldo, dando prova di
una certa ingenuità, avanzò la propria candidatura a uno dei due troni,
cercando appoggi presso la corte di Versailles. Risultato delle trattative fu
il matrimonio del primogenito Francesco con Carlotta Aglae, figlia del reggente
di Francia Filippo d'Orleans: un'unione che non solo non servì a nulla a
livello politico, ma che si rivelò anche in tutti i sensi fallimentare a causa
del difficile carattere della futura duchessa.
Non per questo, ad ogni modo, Rinaldo
rinunciò alla strategia delle alleanze matrimoniali (una delle poche armi in
dotazione ai piccoli Stati dinastici dell'epoca). Nel 1728 fu infatti la volta
della figlia Enrichetta, data in sposa ad Antonio Farnese, ultimo duca di una
casata in estinzione. L'obiettivo era evitare che Parma, in assenza di successori,
cadesse nelle mani di una potenza europea, con tutti i rischi che una tale
prospettiva comportava per il debole Stato estense. Ma la mancata nascita di un
erede vanificò anche questo disegno: morto Antonio nel 1731, Parma passò dai Farnese
ai Borbone di Spagna.
Nel frattempo Rinaldo, che certo si
può dire non fosse assistito dalla buona sorte, aveva perso nel 1727 il figlio
prediletto, il giovane Gian Federico. Per il duca, ormai anziano, fu un duro
colpo, cui si aggiunse, sei anni più tardi, l'umiliazione per un nuovo esilio a
Bologna. Era infatti scoppiata la guerra di successione polacca e Rinaldo,
prontamente dichiaratosi ufficialmente neutrale, incappò nell'ennesimo episodio
sfortunato: una lettera segreta in cui offriva il proprio aiuto all'Impero fu
intercettata dai francesi, che non esitarono ad occupare Modena.
Nella capitale estense il duca poté
tornare solo nel 1736, accolto da grandi festeggiamenti. Per la sua lealtà
(anche se non può escludersi che si trattasse in realtà del conguaglio di un precedente
prestito) l'imperatore gli concesse l'investitura dei feudi di Novellara e
Bagnolo; ma Rinaldo non ebbe il tempo di godere di questo – seppur limitato –
successo diplomatico. L'anno seguente, all'età di ottantadue anni, si spense
lasciando il ducato in eredità al figlio Francesco III.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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