(articolo apparso su Prima Pagina del 25 maggio 2014)
Continuamente ristampato per i tipi di Laterza dal 1961, Storia dell'idea d'Europa è sicuramente
uno dei libri più belli e affascinanti di Federico Chabod, una lettura
illuminante per comprendere il travagliato percorso che ha trasformato (o
quantomeno ha preteso di trasformare) un'entità geografica in un organismo che
sta tuttora sforzandosi di trovare ragioni di intesa comune. Il volume, si
badi, non è una storia dell'Europa in senso tradizionale: non descrive, cioè,
fatti, ma si concentra sull'acquisizione di coscienza dei fatti. Chabod, in
altre parole, non prende in esame i processi storici che hanno portato l'Europa
ad acquisire le caratteristiche riscontrabili oggi, dal momento che oggetto del
suo interesse è lo studio dei processi che hanno portato gli europei a sentirsi
tali (il che significa, inevitabilmente, diversi dagli altri abitanti del
pianeta). «Quel che a noi interessa – precisa infatti lo storico – è il
concetto di Europa dal punto di vista culturale e morale; dell'Europa che forma
un quid a sé, distinta dalle altre
parti del globo, proprio soprattutto per certe determinate caratteristiche del
suo modo di pensare e di sentire, dei suoi sistemi filosofici e politici;
dell'Europa, come "individualità" storica, che ha una sua tradizione,
che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le
hanno dato, nei secoli, una impronta incancellabile».
La prima cosa da stabilire è, naturalmente, il quando. A
partire da quale epoca storica è possibile, concretamente, parlare di Europa
come entità culturale? Per rispondere è necessario premettere una considerazione:
l'identità (vale tanto per le persone quanto per i popoli) è frutto della
contrapposizione. Vale a dire: io sono A perché non sono B, sono, appunto,
europeo perché non sono altro. Ebbene, questo altro è, innanzitutto, l'Asia,
che viene percepita come non-Europa per la prima volta dai Greci. Nell'arco di
tempo che va dalle guerre persiane all'epopea di Alessandro Magno comincia cioè
a formarsi una frattura tra Occidente e Oriente, sulla base dell'antitesi libertà
(europea)-dispotismo (asiatico). Beninteso, si tratta di un Occidente ancora
essenzialmente greco (e infatti Aristotele distingue sì l'Europa dall'Asia, ma
anche la Grecia dall'Europa): ma è quantomeno lecito individuare in questa
prima contrapposizione gli incunaboli di una seppur acerba idea di Europa.
In cosa consiste, però, la differenziazione
libertà-tirannide? Fondamentalmente, i Greci si considerano liberi in quanto
cittadini, non sudditi. Nella polis, libertà è sinonimo di partecipazione alla
vita pubblica secondo le regole stabilite dalla legge (la quale per Erodoto è
l'unico «padrone» che si possa riconoscere al di sopra dei singoli individui).
L'inferiorità asiatica è dunque per i Greci una conseguenza del dispotismo, a
partire dal presupposto che mentre il suddito persiano combatte per un sovrano,
il cittadino ellenico è pronto a sacrificarsi per se stesso, in difesa della
propria libertà. Si tratta di una bipartizione destinata negli anni ad essere
in parte superata, anche se riemergerà con prepotenza alla vigilia della
battaglia di Azio, scontro di civiltà – secondo la propaganda romana – tra Augusto
e l'orientale Cleopatra (rea di aver sedotto e corrotto Antonio).
La contrapposizione Europa-Asia non regge però di fronte
alle travolgenti conquiste di Alessandro Magno (il quale dà vita ad un'ecumene
ellenistica) e, soprattutto, al forte impatto con la romanità, che di certo non
può essere incardinata in una ristretta dimensione continentale. Con l'espansione
dell'Impero la vera contrapposizione diviene quella tra romano e barbaro,
destinata a cedere il passo, con l'avvento del cristianesimo, all'opposizione
cristiano-pagano (anche se, per quanto attiene al Medioevo, non bisogna
commettere l'errore di considerare equivalenti barbaro e pagano, essendo il
primo sinonimo di rozzo, incivile – non romano, per l'appunto – e il secondo di
non cristiano). In epoca medievale il termine Europa non fa quindi concorrenza –
contrariamente a quanto si sarebbe indotti a pensare – a quello di cristianità.
Carlo Magno, infatti, è «rex pater Europae» in quanto tutore della cristianità
occidentale, ben diversa da quella bizantina. L'accezione del termine è
pertanto ancora essenzialmente geografica.
Resta ora da chiedersi quali siano i
confini della cristianità. Teoricamente, essi abbracciano – in prospettiva –
l'intera umanità; in pratica, però, è possibile far coincidere la cristianità
con l'Europa, la quale, ancora lontana da quella attuale, di fatto comprende
l'Occidente e il Mezzogiorno romano. E l'Oriente? Riferendosi a Costantinopoli,
nel Paradiso Dante la colloca «ne lo
stremo d'Europa», il che è un segno evidente che l'Oriente – si passi il gioco
di parole – si sta progressivamente espandendo ad ovest. Nel tardo Medioevo,
infatti, Germania e Inghilterra hanno ormai rimpiazzato la Grecia e l'est europeo,
portando a compimento un processo avviatosi già verso la fine dell'età
imperiale, con la bipartizione dell'ecumene romana. A Bisanzio, del resto, più
che al mito di Roma ci si richiama alla tradizione greca preesistente; e, da
una parte e dall'altra, si diffondono rapidamente speculari pregiudizi (le
accuse più comuni sono relative alla fiacchezza dei costumi). «Tutto è dunque
diverso – spiega Chabod –, fra Occidente e Oriente. Ma se in tale contrasto
riappaiono taluni dei motivi già emersi nel V-IV secolo a. C., v'è una
differenza fondamentale tra quel lontano periodo e il Medioevo: ed è che allora
l'Oriente voleva dire l'Asia e l'Occidente la Grecia, cioè l'Europa civile;
ora, l'Occidente significa le regioni ad ovest dell'Adriatico e il disprezzato
Oriente comprende la Grecia».
Al riguardo, eventi decisivi sono lo
scisma d'Oriente del 1054 (con la separazione della Chiesa greca da quella
romana), le Crociate e la conquista ottomana di Costantinopoli (1453) e della
Grecia. L'aspetto più importante da rilevare è che proprio la regione dove prende
forma il senso di appartenenza ad un'unità morale che anticipa indirettamente
la nascita dell'Europa si trova ad essere esclusa dal blocco occidentale. «I
Greci – sottolinea Chabod – non appaiono nemmeno più veri cristiani, anzi, un
che di mezzo tra cristiani e Saraceni; sono "eretici" poco meno
pericolosi dei Turchi». Tant'è che il termine Europa comincia a designare, in
pratica, solo Franchi e Latini (e significativamente, dopo la quarta crociata,
Costantinopoli diviene la capitale dell'impero latino d'Oriente).
Le fonti del tempo contrappongono
pertanto Latini e Greci, sulla base di consolidati stereotipi. Così, se per i
primi gli orientali sono infidi, scaltri e traditori, per i secondi gli
occidentali sono avidi di dominio, ottusi e senza scrupoli. Ma non solo: il
feudo e la cavalleria diventano istituti tipicamente europei, mentre anche gli
Arabi cominciano a distinguere tra Franchi e Greci. L'Europa vera e propria,
sia chiaro, è ancora lontana; tuttavia è significativo che proprio nel XV
secolo, con Enea Silvio Piccolomini, faccia la sua comparsa il termine
«europeo», che ha una marcata accezione culturale, oltre che geografica. Il
solco scavato tra i due mondi pare insomma incolmabile, specialmente
all'indomani della conquista turca. Se infatti in un primo tempo si era
registrato un riavvicinamento (in nome della cristianità) tra le due aree, la
caduta di Costantinopoli non fa altro che accentuare il reciproco senso di
estraneità. Con la conseguenza, per certi versi paradossale, che l'uscita dei
Greci dall'Europa sancisce l'ingresso dei popoli (in particolare Ungheria,
Transilvania e Polonia) che, trovandosi al confine con l'impero ottomano,
fungono da baluardo difensivo contro gli infedeli.
Nel frattempo è entrata in Europa anche
la Germania, che ha ormai completato il suo processo di civilizzazione. In
quest'ottica si ripresenta dunque la vecchia contrapposizione con i barbari, coloro
cioè – come sottintende Piccolomini quando parla di europei – che sono rimasti
estranei alla tradizione di Roma e non sono imbevuti di cultura classica. Con
tutta evidenza, è presente in questa concezione dell'Europa la rivendicazione
di una pretesa superiorità culturale, sulla base di quelli che di lì a poco
diventeranno i pilastri dell'Umanesimo. Anticipando quindi per certi versi
Voltaire, i dotti del Rinascimento immaginano l'Europa come una comunità di
letterati, uniti – scrive Chabod – «nel culto della intelligenza». Dapprima – è
bene specificarlo – questa affermazione di preminenza culturale si diffonde tra
gli umanisti italiani, che tendono ad emarginare in quanto barbaro tutto ciò
che proviene dal nord Europa (si pensi alla chiusa del Principe di
Machiavelli, il quale esorta Lorenzo de' Medici con le parole: «A ognuno puzza
questo barbaro dominio»); ma con gli anni l'Umanesimo si espande, e in autori
quali Erasmo da Rotterdam il senso di Europa si fa vivo, forse proprio perché
ha varcato i confini dell'Italia. Nel Rinascimento Europa è quindi sinonimo di
cultura. Di una cultura, si badi, ancora strettamente connessa con la
religione, ben diversa da quella che avranno in mente, secoli più tardi, gli
illuministi. «La cultura – conclude Chabod – è [...] cresciuta di statura,
quasi portandosi all'altezza della fede, ma quest'ultima resta pur sempre
"primogenita" per dirla con parole dantesche, degna di reverentia
da parte della cultura. Ecco perché [...] il termine generalmente usato, e con
perfetta coerenza, è ancora christianitas». (Continua)
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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