giovedì 29 maggio 2014

«Storia dell'idea d'Europa»: un grande classico della storiografia (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 maggio 2014)

Continuamente ristampato per i tipi di Laterza dal 1961, Storia dell'idea d'Europa è sicuramente uno dei libri più belli e affascinanti di Federico Chabod, una lettura illuminante per comprendere il travagliato percorso che ha trasformato (o quantomeno ha preteso di trasformare) un'entità geografica in un organismo che sta tuttora sforzandosi di trovare ragioni di intesa comune. Il volume, si badi, non è una storia dell'Europa in senso tradizionale: non descrive, cioè, fatti, ma si concentra sull'acquisizione di coscienza dei fatti. Chabod, in altre parole, non prende in esame i processi storici che hanno portato l'Europa ad acquisire le caratteristiche riscontrabili oggi, dal momento che oggetto del suo interesse è lo studio dei processi che hanno portato gli europei a sentirsi tali (il che significa, inevitabilmente, diversi dagli altri abitanti del pianeta). «Quel che a noi interessa – precisa infatti lo storico – è il concetto di Europa dal punto di vista culturale e morale; dell'Europa che forma un quid a sé, distinta dalle altre parti del globo, proprio soprattutto per certe determinate caratteristiche del suo modo di pensare e di sentire, dei suoi sistemi filosofici e politici; dell'Europa, come "individualità" storica, che ha una sua tradizione, che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato, nei secoli, una impronta incancellabile».
La prima cosa da stabilire è, naturalmente, il quando. A partire da quale epoca storica è possibile, concretamente, parlare di Europa come entità culturale? Per rispondere è necessario premettere una considerazione: l'identità (vale tanto per le persone quanto per i popoli) è frutto della contrapposizione. Vale a dire: io sono A perché non sono B, sono, appunto, europeo perché non sono altro. Ebbene, questo altro è, innanzitutto, l'Asia, che viene percepita come non-Europa per la prima volta dai Greci. Nell'arco di tempo che va dalle guerre persiane all'epopea di Alessandro Magno comincia cioè a formarsi una frattura tra Occidente e Oriente, sulla base dell'antitesi libertà (europea)-dispotismo (asiatico). Beninteso, si tratta di un Occidente ancora essenzialmente greco (e infatti Aristotele distingue sì l'Europa dall'Asia, ma anche la Grecia dall'Europa): ma è quantomeno lecito individuare in questa prima contrapposizione gli incunaboli di una seppur acerba idea di Europa.
In cosa consiste, però, la differenziazione libertà-tirannide? Fondamentalmente, i Greci si considerano liberi in quanto cittadini, non sudditi. Nella polis, libertà è sinonimo di partecipazione alla vita pubblica secondo le regole stabilite dalla legge (la quale per Erodoto è l'unico «padrone» che si possa riconoscere al di sopra dei singoli individui). L'inferiorità asiatica è dunque per i Greci una conseguenza del dispotismo, a partire dal presupposto che mentre il suddito persiano combatte per un sovrano, il cittadino ellenico è pronto a sacrificarsi per se stesso, in difesa della propria libertà. Si tratta di una bipartizione destinata negli anni ad essere in parte superata, anche se riemergerà con prepotenza alla vigilia della battaglia di Azio, scontro di civiltà – secondo la propaganda romana – tra Augusto e l'orientale Cleopatra (rea di aver sedotto e corrotto Antonio).
La contrapposizione Europa-Asia non regge però di fronte alle travolgenti conquiste di Alessandro Magno (il quale dà vita ad un'ecumene ellenistica) e, soprattutto, al forte impatto con la romanità, che di certo non può essere incardinata in una ristretta dimensione continentale. Con l'espansione dell'Impero la vera contrapposizione diviene quella tra romano e barbaro, destinata a cedere il passo, con l'avvento del cristianesimo, all'opposizione cristiano-pagano (anche se, per quanto attiene al Medioevo, non bisogna commettere l'errore di considerare equivalenti barbaro e pagano, essendo il primo sinonimo di rozzo, incivile – non romano, per l'appunto – e il secondo di non cristiano). In epoca medievale il termine Europa non fa quindi concorrenza – contrariamente a quanto si sarebbe indotti a pensare – a quello di cristianità. Carlo Magno, infatti, è «rex pater Europae» in quanto tutore della cristianità occidentale, ben diversa da quella bizantina. L'accezione del termine è pertanto ancora essenzialmente geografica.
Resta ora da chiedersi quali siano i confini della cristianità. Teoricamente, essi abbracciano – in prospettiva – l'intera umanità; in pratica, però, è possibile far coincidere la cristianità con l'Europa, la quale, ancora lontana da quella attuale, di fatto comprende l'Occidente e il Mezzogiorno romano. E l'Oriente? Riferendosi a Costantinopoli, nel Paradiso Dante la colloca «ne lo stremo d'Europa», il che è un segno evidente che l'Oriente – si passi il gioco di parole – si sta progressivamente espandendo ad ovest. Nel tardo Medioevo, infatti, Germania e Inghilterra hanno ormai rimpiazzato la Grecia e l'est europeo, portando a compimento un processo avviatosi già verso la fine dell'età imperiale, con la bipartizione dell'ecumene romana. A Bisanzio, del resto, più che al mito di Roma ci si richiama alla tradizione greca preesistente; e, da una parte e dall'altra, si diffondono rapidamente speculari pregiudizi (le accuse più comuni sono relative alla fiacchezza dei costumi). «Tutto è dunque diverso – spiega Chabod –, fra Occidente e Oriente. Ma se in tale contrasto riappaiono taluni dei motivi già emersi nel V-IV secolo a. C., v'è una differenza fondamentale tra quel lontano periodo e il Medioevo: ed è che allora l'Oriente voleva dire l'Asia e l'Occidente la Grecia, cioè l'Europa civile; ora, l'Occidente significa le regioni ad ovest dell'Adriatico e il disprezzato Oriente comprende la Grecia».
Al riguardo, eventi decisivi sono lo scisma d'Oriente del 1054 (con la separazione della Chiesa greca da quella romana), le Crociate e la conquista ottomana di Costantinopoli (1453) e della Grecia. L'aspetto più importante da rilevare è che proprio la regione dove prende forma il senso di appartenenza ad un'unità morale che anticipa indirettamente la nascita dell'Europa si trova ad essere esclusa dal blocco occidentale. «I Greci – sottolinea Chabod – non appaiono nemmeno più veri cristiani, anzi, un che di mezzo tra cristiani e Saraceni; sono "eretici" poco meno pericolosi dei Turchi». Tant'è che il termine Europa comincia a designare, in pratica, solo Franchi e Latini (e significativamente, dopo la quarta crociata, Costantinopoli diviene la capitale dell'impero latino d'Oriente).
Le fonti del tempo contrappongono pertanto Latini e Greci, sulla base di consolidati stereotipi. Così, se per i primi gli orientali sono infidi, scaltri e traditori, per i secondi gli occidentali sono avidi di dominio, ottusi e senza scrupoli. Ma non solo: il feudo e la cavalleria diventano istituti tipicamente europei, mentre anche gli Arabi cominciano a distinguere tra Franchi e Greci. L'Europa vera e propria, sia chiaro, è ancora lontana; tuttavia è significativo che proprio nel XV secolo, con Enea Silvio Piccolomini, faccia la sua comparsa il termine «europeo», che ha una marcata accezione culturale, oltre che geografica. Il solco scavato tra i due mondi pare insomma incolmabile, specialmente all'indomani della conquista turca. Se infatti in un primo tempo si era registrato un riavvicinamento (in nome della cristianità) tra le due aree, la caduta di Costantinopoli non fa altro che accentuare il reciproco senso di estraneità. Con la conseguenza, per certi versi paradossale, che l'uscita dei Greci dall'Europa sancisce l'ingresso dei popoli (in particolare Ungheria, Transilvania e Polonia) che, trovandosi al confine con l'impero ottomano, fungono da baluardo difensivo contro gli infedeli.
Nel frattempo è entrata in Europa anche la Germania, che ha ormai completato il suo processo di civilizzazione. In quest'ottica si ripresenta dunque la vecchia contrapposizione con i barbari, coloro cioè – come sottintende Piccolomini quando parla di europei – che sono rimasti estranei alla tradizione di Roma e non sono imbevuti di cultura classica. Con tutta evidenza, è presente in questa concezione dell'Europa la rivendicazione di una pretesa superiorità culturale, sulla base di quelli che di lì a poco diventeranno i pilastri dell'Umanesimo. Anticipando quindi per certi versi Voltaire, i dotti del Rinascimento immaginano l'Europa come una comunità di letterati, uniti – scrive Chabod – «nel culto della intelligenza». Dapprima – è bene specificarlo – questa affermazione di preminenza culturale si diffonde tra gli umanisti italiani, che tendono ad emarginare in quanto barbaro tutto ciò che proviene dal nord Europa (si pensi alla chiusa del Principe di Machiavelli, il quale esorta Lorenzo de' Medici con le parole: «A ognuno puzza questo barbaro dominio»); ma con gli anni l'Umanesimo si espande, e in autori quali Erasmo da Rotterdam il senso di Europa si fa vivo, forse proprio perché ha varcato i confini dell'Italia. Nel Rinascimento Europa è quindi sinonimo di cultura. Di una cultura, si badi, ancora strettamente connessa con la religione, ben diversa da quella che avranno in mente, secoli più tardi, gli illuministi. «La cultura – conclude Chabod – è [...] cresciuta di statura, quasi portandosi all'altezza della fede, ma quest'ultima resta pur sempre "primogenita" per dirla con parole dantesche, degna di reverentia da parte della cultura. Ecco perché [...] il termine generalmente usato, e con perfetta coerenza, è ancora christianitas». (Continua)

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