(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 maggio 2014)
La Rivoluzione francese lasciò in eredità, tra le altre
cose, quella che lo storico Emilio Gentile definisce «la concezione dello Stato
come educatore del popolo nel culto della nazione». Si trattava, in sostanza,
di un patriottismo mistico, già individuato da Rousseau come l'essenza di un'autentica
religione civile fondata sul valore dominante della sacralità della
collettività nazionale. Il che, in altre parole, significava appunto conferire
carattere religioso alla politica e investire lo Stato di una missione
civilizzatrice ed educatrice.
In Italia questi elementi sono
riscontrabili durante l'intero corso del Risorgimento. Precursori del culto
della patria erano stati tanto i giacobini – i quali sul finire del XVIII
secolo avevano diffuso la parola d'ordine della rigenerazione morale attraverso
la rivoluzione – quanto la massoneria, che all'indomani dell'unità aveva
gettato le basi di una religiosità laica necessariamente anticattolica. Lo
stesso Gioberti, seppur da un'opposta prospettiva volta a conciliare
patriottismo e religione tradizionale, aveva educato intere generazioni al
culto di una Terza Italia destinata ad esercitare un «primato morale e civile»
sugli altri popoli. Tuttavia fu Giuseppe Mazzini il primo vero apostolo
dell'italianità, intesa come religione di una patria alla quale il popolo
doveva donarsi integralmente mediante atto di fede. Per il rivoluzionario
genovese la mistica della nazione aveva come caposaldo la formazione di una
comunità di credenti pronti al sacrificio per il bene della nazione. A suo
parere una vera unità politica non poteva prescindere dall'unità morale. Il suo
progetto politico prevedeva pertanto «un'Italia sorta per sagrificio e virtù
del suo popolo dal sepolcro, purificata d'ogni colpa da una espiazione d'oltre
a tre secoli, splendida d'entusiasmo e di fede, forte della coscienza nelle
battaglie combattute e di vittorie conquistate col proprio sangue».
La delusione di Mazzini per l'esito
insoddisfacente (a causa della mancata unificazione morale del popolo italiano)
di un Risorgimento che altro non era stato che un ingrandimento territoriale
del Piemonte sabaudo fu all'origine della nascita del mito della rivoluzione
nazionale incompiuta. Questa idea, che si basava sul presupposto che l'Italia
monarchica avesse fallito la sua missione civilizzatrice, sarebbe rimasta a
lungo latente, per poi riemergere con prepotenza a sostegno dell'interventismo
del 1914-15 prima, e della rivoluzione fascista poi. Mazzini, va precisato, non
concepiva la sacralizzazione della patria come rinuncia alla libertà da parte
del singolo. Tuttavia è difficile immaginare, nel concreto, di riuscire a
conciliare la dedizione mistica alla causa nazionale con la concessione
all'individuo di un'ampia autonomia decisionale.
Se però il mazzinianesimo fu la
premessa di forme radicali di religione politica, questo non significa che
anche lo Stato italiano postunitario non avvertisse come urgente il problema
della formazione di un culto laico della patria. «Fare gli italiani», secondo
la celebre formula di D'Azeglio, divenne pertanto un obiettivo dichiarato dei
governi liberali della seconda metà dell'Ottocento, essendo evidente alla
classe dirigente dell'epoca che occorreva legittimare un Risorgimento cui le
masse erano rimaste estranee (quando non apertamente ostili), al fine di
plasmare una coscienza collettiva che prendesse il posto delle divisioni che
ancora laceravano la comunità nazionale. Francesco De Sanctis, storico della
letteratura e ministro dell'Istruzione nel governo Cavour, fu molto chiaro su
questo punto: «Fatta l'unità politica – disse nel 1874 tenendo una lezione su
Mazzini –, manca l'unità intellettuale e morale fondata sull'unità religiosa».
E con religione intendeva «il sentimento del sacrifizio individuale, il dovere
uscir da sé e mettersi in comunicazione con gli altri pel bene di tutti».
Il problema, fermi restando questi propositi, era però di
duplice natura. Quale religione adottare per fare gli italiani? E, soprattutto,
quali mezzi adoperare? La volontà comune era quella di conciliare patriottismo
e libertà, risultato che si tentò di raggiungere puntando essenzialmente sulla
scuola e sull'esercito. Da un lato, infatti, i governi liberali si
preoccuparono di diffondere l'istruzione elementare, nella convinzione che la
scuola potesse fungere da chiesa laica dove insegnare – come previsto dalla
legge Coppino del 1877, che estese l'obbligo scolastico fino ai nove anni di
età – «le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino». Dall'altro si
volle trasformare il servizio militare in un'occasione per affratellare gli
italiani, in una sorta di palestra in cui "allenare" il patriottismo
di una comunità che, sotto le armi, trovava finalmente modo di celebrare il
culto, unificante, della nazione.
La volontà di definire una religione della patria non
interessò, ad ogni modo, solo la scuola e l'esercito. Altre iniziative di
rilievo furono l'istituzione delle feste civili (quella dello Statuto e dell'Unità
d'Italia, ma anche quella del 20 settembre – anniversario della breccia di
Porta Pia –, che divenne occasione per ribadire il proposito di contendere alla
Chiesa il primato nel campo dell'educazione delle coscienze) e le celebrazioni
liturgiche in occasione di funerali o dell'inaugurazione di monumenti
commemorativi. Grandiosi, in tal senso, furono nel 1878 l'estremo saluto al
«padre della patria» Vittorio Emanuele II (un rito finalizzato all'esaltazione
della monarchia quale principale artefice dell'unità nazionale) e
l'edificazione, tra il 1870 e il 1893, dell'Ossario e della Torre – dedicata al
re sabaudo – nei luoghi della battaglia di San Martino.
Tuttavia, tanto le celebrazioni quanto i monumenti
(concepiti come spazi sacri nei quali celebrare il culto della patria) ebbero
un'efficacia pedagogica tutto sommato relativa. Il problema di fondo della
liturgia civile era il forte accento posto sul rimpianto, sul dolore, sul senso
di vuoto per la perdita. Come sottolinea Emilio Gentile, «mancava, a questi
riti funebri, lo spirito vitalistico ed esaltante del mito comunitario della
rigenerazione e della rinascita attraverso il sacrificio della vita»; col
risultato che «piuttosto che riti di fede nella vita e nel futuro della patria,
essi finivano con l'apparire come strazianti manifestazioni di cordoglio di una
collettività che si sentiva abbandonata dai suoi santi protettori».
Oltre a ciò, un grosso ostacolo era
rappresentato dalle continue divisioni in seno a una comunità che si era
costituita in nazione attraverso un processo da più parti interpretato come
frettoloso. Il Risorgimento, a ben vedere, aveva lasciato in eredità una
religione della patria che non poteva non risentire dei contrasti tra
monarchici e mazziniani, tra liberali e cattolici e, sul finire del secolo, tra
istituzioni in senso lato e l'arrembante movimento socialista. La classe
dirigente dell'epoca era inoltre decisamente diffidente nei confronti delle
masse, e si dimostrò per questo riluttante a ricorrere sistematicamente a riti
e simboli in grado di suscitare entusiasmo tra le folle. Specialmente dopo la
nascita del PSI, l'immagine di piazze stracolme evocava immediatamente quella
della rivolta popolare, il più angosciante degli spauracchi.
Con l'inizio del nuovo secolo i ceti
borghesi si convertirono, pertanto, a forme più controllate di patriottismo,
lasciando in sostanza che ad occuparsi della rigenerazione morale degli
italiani fossero gli intellettuali, per i quali – forse anche per reazione alla
fiacchezza generalizzata dei costumi – il culto della nazione era assurto a
supremo valore e dovere civico. Il risultato fu un inevitabile ribellismo: nel
momento cioè in cui lo Stato faceva un passo indietro, il patriottismo di
stampo religioso cominciò ad essere vissuto come forma di antagonismo
vitalistico da opporre all'apatia di una classe dirigente considerata
inadeguata. Se poi a questa diffusa frustrazione si aggiunge il senso di vuoto
provocato dal declino della religione tradizionale, ecco che risulta più
comprensibile l'enorme importanza che molti intellettuali del primo Novecento
attribuivano al culto di una patria intesa quale comunità di individui animati
da una nuova fede. Pur trattandosi di movimenti elitari (si pensi a «La Voce»
di Giuseppe Prezzolini), era già ben delineato in essi l'ardente desiderio di
plasmare l'italiano, rigenerato, dell'avvenire. Chi aveva le idee chiare in tal
senso era Mussolini. Prima ancora che lo scoppio della Grande Guerra imponesse
una riflessione generale e a più livelli sul significato del patriottismo, il
futuro duce – all'epoca fervente socialista – si esprimeva in questi termini:
«Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l'umanità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne
perché dà l'illusione che le montagne si muovano. L'illusione è, forse, l'unica
realtà della vita». Un concetto, questo, in cui è facile riscontrare l'essenza
della sacralizzazione della politica di epoca fascista. (Continua)
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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