venerdì 16 maggio 2014

La travagliata ricerca di una religione civile per l'Italia unita (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 maggio 2014)

La Rivoluzione francese lasciò in eredità, tra le altre cose, quella che lo storico Emilio Gentile definisce «la concezione dello Stato come educatore del popolo nel culto della nazione». Si trattava, in sostanza, di un patriottismo mistico, già individuato da Rousseau come l'essenza di un'autentica religione civile fondata sul valore dominante della sacralità della collettività nazionale. Il che, in altre parole, significava appunto conferire carattere religioso alla politica e investire lo Stato di una missione civilizzatrice ed educatrice.
In Italia questi elementi sono riscontrabili durante l'intero corso del Risorgimento. Precursori del culto della patria erano stati tanto i giacobini – i quali sul finire del XVIII secolo avevano diffuso la parola d'ordine della rigenerazione morale attraverso la rivoluzione – quanto la massoneria, che all'indomani dell'unità aveva gettato le basi di una religiosità laica necessariamente anticattolica. Lo stesso Gioberti, seppur da un'opposta prospettiva volta a conciliare patriottismo e religione tradizionale, aveva educato intere generazioni al culto di una Terza Italia destinata ad esercitare un «primato morale e civile» sugli altri popoli. Tuttavia fu Giuseppe Mazzini il primo vero apostolo dell'italianità, intesa come religione di una patria alla quale il popolo doveva donarsi integralmente mediante atto di fede. Per il rivoluzionario genovese la mistica della nazione aveva come caposaldo la formazione di una comunità di credenti pronti al sacrificio per il bene della nazione. A suo parere una vera unità politica non poteva prescindere dall'unità morale. Il suo progetto politico prevedeva pertanto «un'Italia sorta per sagrificio e virtù del suo popolo dal sepolcro, purificata d'ogni colpa da una espiazione d'oltre a tre secoli, splendida d'entusiasmo e di fede, forte della coscienza nelle battaglie combattute e di vittorie conquistate col proprio sangue».
La delusione di Mazzini per l'esito insoddisfacente (a causa della mancata unificazione morale del popolo italiano) di un Risorgimento che altro non era stato che un ingrandimento territoriale del Piemonte sabaudo fu all'origine della nascita del mito della rivoluzione nazionale incompiuta. Questa idea, che si basava sul presupposto che l'Italia monarchica avesse fallito la sua missione civilizzatrice, sarebbe rimasta a lungo latente, per poi riemergere con prepotenza a sostegno dell'interventismo del 1914-15 prima, e della rivoluzione fascista poi. Mazzini, va precisato, non concepiva la sacralizzazione della patria come rinuncia alla libertà da parte del singolo. Tuttavia è difficile immaginare, nel concreto, di riuscire a conciliare la dedizione mistica alla causa nazionale con la concessione all'individuo di un'ampia autonomia decisionale.
Se però il mazzinianesimo fu la premessa di forme radicali di religione politica, questo non significa che anche lo Stato italiano postunitario non avvertisse come urgente il problema della formazione di un culto laico della patria. «Fare gli italiani», secondo la celebre formula di D'Azeglio, divenne pertanto un obiettivo dichiarato dei governi liberali della seconda metà dell'Ottocento, essendo evidente alla classe dirigente dell'epoca che occorreva legittimare un Risorgimento cui le masse erano rimaste estranee (quando non apertamente ostili), al fine di plasmare una coscienza collettiva che prendesse il posto delle divisioni che ancora laceravano la comunità nazionale. Francesco De Sanctis, storico della letteratura e ministro dell'Istruzione nel governo Cavour, fu molto chiaro su questo punto: «Fatta l'unità politica – disse nel 1874 tenendo una lezione su Mazzini –, manca l'unità intellettuale e morale fondata sull'unità religiosa». E con religione intendeva «il sentimento del sacrifizio individuale, il dovere uscir da sé e mettersi in comunicazione con gli altri pel bene di tutti».
Il problema, fermi restando questi propositi, era però di duplice natura. Quale religione adottare per fare gli italiani? E, soprattutto, quali mezzi adoperare? La volontà comune era quella di conciliare patriottismo e libertà, risultato che si tentò di raggiungere puntando essenzialmente sulla scuola e sull'esercito. Da un lato, infatti, i governi liberali si preoccuparono di diffondere l'istruzione elementare, nella convinzione che la scuola potesse fungere da chiesa laica dove insegnare – come previsto dalla legge Coppino del 1877, che estese l'obbligo scolastico fino ai nove anni di età – «le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino». Dall'altro si volle trasformare il servizio militare in un'occasione per affratellare gli italiani, in una sorta di palestra in cui "allenare" il patriottismo di una comunità che, sotto le armi, trovava finalmente modo di celebrare il culto, unificante, della nazione.
La volontà di definire una religione della patria non interessò, ad ogni modo, solo la scuola e l'esercito. Altre iniziative di rilievo furono l'istituzione delle feste civili (quella dello Statuto e dell'Unità d'Italia, ma anche quella del 20 settembre – anniversario della breccia di Porta Pia –, che divenne occasione per ribadire il proposito di contendere alla Chiesa il primato nel campo dell'educazione delle coscienze) e le celebrazioni liturgiche in occasione di funerali o dell'inaugurazione di monumenti commemorativi. Grandiosi, in tal senso, furono nel 1878 l'estremo saluto al «padre della patria» Vittorio Emanuele II (un rito finalizzato all'esaltazione della monarchia quale principale artefice dell'unità nazionale) e l'edificazione, tra il 1870 e il 1893, dell'Ossario e della Torre – dedicata al re sabaudo – nei luoghi della battaglia di San Martino.
Tuttavia, tanto le celebrazioni quanto i monumenti (concepiti come spazi sacri nei quali celebrare il culto della patria) ebbero un'efficacia pedagogica tutto sommato relativa. Il problema di fondo della liturgia civile era il forte accento posto sul rimpianto, sul dolore, sul senso di vuoto per la perdita. Come sottolinea Emilio Gentile, «mancava, a questi riti funebri, lo spirito vitalistico ed esaltante del mito comunitario della rigenerazione e della rinascita attraverso il sacrificio della vita»; col risultato che «piuttosto che riti di fede nella vita e nel futuro della patria, essi finivano con l'apparire come strazianti manifestazioni di cordoglio di una collettività che si sentiva abbandonata dai suoi santi protettori».
Oltre a ciò, un grosso ostacolo era rappresentato dalle continue divisioni in seno a una comunità che si era costituita in nazione attraverso un processo da più parti interpretato come frettoloso. Il Risorgimento, a ben vedere, aveva lasciato in eredità una religione della patria che non poteva non risentire dei contrasti tra monarchici e mazziniani, tra liberali e cattolici e, sul finire del secolo, tra istituzioni in senso lato e l'arrembante movimento socialista. La classe dirigente dell'epoca era inoltre decisamente diffidente nei confronti delle masse, e si dimostrò per questo riluttante a ricorrere sistematicamente a riti e simboli in grado di suscitare entusiasmo tra le folle. Specialmente dopo la nascita del PSI, l'immagine di piazze stracolme evocava immediatamente quella della rivolta popolare, il più angosciante degli spauracchi.
Con l'inizio del nuovo secolo i ceti borghesi si convertirono, pertanto, a forme più controllate di patriottismo, lasciando in sostanza che ad occuparsi della rigenerazione morale degli italiani fossero gli intellettuali, per i quali – forse anche per reazione alla fiacchezza generalizzata dei costumi – il culto della nazione era assurto a supremo valore e dovere civico. Il risultato fu un inevitabile ribellismo: nel momento cioè in cui lo Stato faceva un passo indietro, il patriottismo di stampo religioso cominciò ad essere vissuto come forma di antagonismo vitalistico da opporre all'apatia di una classe dirigente considerata inadeguata. Se poi a questa diffusa frustrazione si aggiunge il senso di vuoto provocato dal declino della religione tradizionale, ecco che risulta più comprensibile l'enorme importanza che molti intellettuali del primo Novecento attribuivano al culto di una patria intesa quale comunità di individui animati da una nuova fede. Pur trattandosi di movimenti elitari (si pensi a «La Voce» di Giuseppe Prezzolini), era già ben delineato in essi l'ardente desiderio di plasmare l'italiano, rigenerato, dell'avvenire. Chi aveva le idee chiare in tal senso era Mussolini. Prima ancora che lo scoppio della Grande Guerra imponesse una riflessione generale e a più livelli sul significato del patriottismo, il futuro duce – all'epoca fervente socialista – si esprimeva in questi termini: «Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l'umanità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne perché dà l'illusione che le montagne si muovano. L'illusione è, forse, l'unica realtà della vita». Un concetto, questo, in cui è facile riscontrare l'essenza della sacralizzazione della politica di epoca fascista. (Continua)

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