(articolo apparso su Prima Pagina del 18 maggio 2014)
All'inizio del Novecento, anche per
contrastare sul piano della mobilitazione socialisti e cattolici, nella veste
di nuovi e agguerriti sacerdoti del culto della patria si proposero i
nazionalisti, i quali però non si professavano più semplici seguaci della
religione civile (di stampo liberale) della tradizione risorgimentale, bensì
apostoli di un credo incentrato sulla devozione alla nazione-divinità. Enrico
Corradini, fondatore del movimento nazionalista, aveva come riferimento il
culto giapponese degli eroi, della natura e dell'imperatore. Scriveva infatti
nel 1904: «Il Giappone è il Dio del Giappone. La forza che questo popolo
attinge alla religione è forza attinta nelle sue stesse viscere, gli eroi sono
popolo del passato, la natura è la patria: v'è un'autoadorazione».
Il culto degli eroi era dunque
fondamentale. Esso non andava inteso secondo la connotazione del rimpianto, ma
come celebrazione delle eccellenze della nazione. «Mercé gli eroi – scrisse sempre
Corradini – la nazione diventa patria, l'azione diventa religione». L'eroe, in
altre parole, non è per i nazionalisti un semplice defunto da commemorare:
esso, al contrario, incarna lo spirito della patria perpetuandolo, tenendolo in
vita. L'accento è sulla morte come sacrificio, non più sulla morte come
perdita, con la conseguenza che, giacché si riteneva fosse doveroso rendere
devoto omaggio a chi avesse fatto dono di sé per la patria, ad essere celebrata
era, indirettamente, anche la guerra. E dal momento che il sangue di chi si
immola per la nazione acquistava valore salvifico, la guerra cessava di essere
un mero teatro di morte, assurgendo a scenario dove la patria si mostra viva,
ad occasione quasi provvidenziale per mettere alla prova i sentimenti
nazionalistici di un popolo.
Nel caso della nazione italiana, che
certo non poteva vantare un'esaltante tradizione di vittorie militari, la
religione della patria a inizio secolo si connotò sempre più come culto del
sacrificio. L'Italia aveva cioè bisogno di martiri, di passare attraverso una
rivoluzione che consacrasse nel sangue il patriottismo dei suoi figli. La
conseguenza di questa premessa era che, da atto barbarico, la violenza veniva
riqualificata come mezzo purificatore, poiché – nelle previsioni dei
nazionalisti – avrebbe consentito alla patria di rigenerarsi, di dare prova di
vitalità. La guerra e la rivoluzione, scrive Emilio Gentile, acquistavano pertanto
il significato di «eventi catastrofici attraverso i quali avviene una
rigenerazione dell'uomo e si forma, attraverso l'esperienza della lotta e del
sacrificio, un "uomo nuovo". Il mito della "rivoluzione
italiana", alla vigilia del conflitto europeo, era già pervenuto a fondere
guerra e rivoluzione nell'idea del "grande evento" palingenetico, che
doveva creare finalmente la "nuova Italia", facendo compiere un altro
passo, nell'ambito del mito nazionale, alla sacralizzazione della politica».
Decisiva,
nel favorire il consolidamento del culto della nazione, fu con tutta evidenza
anche la crisi dei valori religiosi tradizionali, percepiti (dalle classi
colte, s'intende) come sempre più inadeguati ad affrontare la progressiva
secolarizzazione del mondo occidentale. Alla vigilia della Grande Guerra molti
giovani – che avevano ricevuto un'educazione profondamente intrisa di
patriottismo, ma proprio per questo si consideravano appartenenti ad una
generazione "di mezzo" che aveva ereditato il Risorgimento e non aveva
ancora avuto l'occasione di dar prova del proprio valore – ritenevano pertanto
che fosse giunta l'ora del cimento, nella quale finalmente attuare una drastica
rivoluzione dello spirito di un intero popolo. Essi, scrisse nel 1914 Vito Fazio-Allmayer
su «La Voce», si comportavano da «increduli che cercano con ogni sforzo di
crearsi una religione»; convinti di attraversare una crisi epocale di valori e
certezze, avevano assoluto bisogno di credere in una causa, di crearsi una
nuova fede. Questo, come sottolineò Carlo Rosselli, fu il motivo per il quale
molti volontari combatterono nella Prima guerra mondiale: essi si sentivano
animati dal desiderio di «immolarsi anima e corpo ad una causa – quale che
fosse – purché capace di trascendere i meschini motivi della vita di ogni
giorno».
La tragedia della guerra, nella quale
molti sperimentarono i drammatici effetti della morte di massa, favorì da un
lato il recupero del sentimento religioso tradizionale, ma dall'altro diede impulso
proprio alle forme più estreme di divinizzazione della patria in armi,
schierata contro il secolare nemico in quella che la propaganda militarista
descriveva come la quarta guerra d'indipendenza. Si doveva credere, in
sostanza, che nelle trincee si andava a morire per un motivo valido, per una
nobile causa. Il conflitto europeo fece sì che i miti del sacrificio e del
cameratismo, uniti al culto dei caduti, dei martiri e degli eroi, fossero
trasferiti dai campi di battaglia alla politica, con l'idea che se la nazione
era in grado di portare finalmente a compimento il progetto rivoluzionario di
Mazzini con le armi in pugno, tanto più avrebbe dovuto mostrarsi animata da
fervore patriottico nella gestione dei propri affari interni. Come bene intuì
D'Annunzio, la guerra creava le premesse perché anche la politica, come già la
patria, divenisse oggetto di culto. Il poeta pescarese fu il primo grande
fautore della sacralizzazione della politica, un sacerdote laico che mutuò
dalla religione tradizionale una congerie di simboli, liturgie e riti al fine
di rafforzare la mistica della nazione. Il risultato fu la fusione di
religione, politica ed arte, nel senso che la partecipazione alla vita pubblica
doveva risultare, spiritualmente ma anche esteticamente, appagante e
gratificante.
Nel dopoguerra, all'interno
dell'arricchita simbologia nazionalista ricoprì un ruolo decisivo il culto dei
caduti. Cimiteri di guerra e, soprattutto, monumenti alla memoria dei martiri
della patria – che sorsero un po' ovunque per iniziativa di comuni, gruppi di
cittadini e associazioni varie – divennero autentici spazi sacri in cui
celebrare riti di sacralizzazione della nazione. Tra questi, il più solenne fu
senz'altro la tumulazione sotto l'Altare della patria a Roma della salma del
Milite Ignoto – trasportata in un vagone speciale che fu accolto ovunque da ali
di folla giunta appositamente sul luogo di transito per rendere omaggio al
feretro –, commovente cerimonia che si tenne il 4 novembre 1921, anniversario
della vittoria della Grande Guerra. Le cerimonie della capitale furono, in
assoluto, le più sentite nell'ancor breve storia dell'Italia unita. «L'apoteosi
del Soldato ignoto è il ritorno alla religione della patria», commentò
«L'Illustrazione italiana»: una religione di cui i fascisti, di lì a poco, si
sarebbero proclamati unici e agguerriti custodi.
Il fascismo, infatti, ereditò e allo
stesso tempo portò a maturazione il culto sacrale della nazione. Esso, come
affermò Giovanni Gentile nel 1923, era «forza spirituale e religione», e come
tale non era più disposto a tollerare la presenza di "miscredenti",
insensibili al richiamo della nazione divinizzata. Dice bene lo storico
Giordano Bruno Guerri quando scrive: «La giovane generazione che tornava dal
fronte [...] aveva sviluppato una sensibilità fortissima a determinati
richiami: la violenza come necessità, l'obbedienza ferrea alla gerarchia, le
celebrazioni liturgiche, il culto dei caduti, l'esaltazione dell'azione e del
sangue, la scarsa valutazione per la vita del nemico. Il fascismo avrebbe avuto
gioco facile nell'applicare gli stessi atteggiamenti alla propria ideologia,
che venne presentata come la sintesi, il culmine e il passo successivo del
Risorgimento e del conflitto mondiale».
Non è sbagliato, pertanto, affermare
che all'inizio degli anni Venti il fascismo trovò terreno fertile per
l'affermazione (e l'imposizione) di una politica sacralizzata, incentrata sul
culto totalizzante della nazione. Nelle intenzioni di Mussolini, il neonato PNF
doveva assolvere la missione di portare finalmente a compimento la rivoluzione
italiana avviata con il Risorgimento. Al riguardo, già sul finire del 1920 –
come scrisse su «Il Popolo d'Italia» – il futuro duce aveva le idee chiare:
«Noi lavoriamo alacremente per tradurre nei fatti quella che fu l'aspirazione
di Giuseppe Mazzini: dare agli italiani il "concetto religioso della
nazione" [...]. Gettare le basi della grandezza italiana nel mondo,
partendo dal concetto religioso dell'italianità [...], deve diventare l'impulso
e la direttiva essenziale della nostra vita».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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