venerdì 23 maggio 2014

La travagliata ricerca di una religione civile per l'Italia unita (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 maggio 2014)

All'inizio del Novecento, anche per contrastare sul piano della mobilitazione socialisti e cattolici, nella veste di nuovi e agguerriti sacerdoti del culto della patria si proposero i nazionalisti, i quali però non si professavano più semplici seguaci della religione civile (di stampo liberale) della tradizione risorgimentale, bensì apostoli di un credo incentrato sulla devozione alla nazione-divinità. Enrico Corradini, fondatore del movimento nazionalista, aveva come riferimento il culto giapponese degli eroi, della natura e dell'imperatore. Scriveva infatti nel 1904: «Il Giappone è il Dio del Giappone. La forza che questo popolo attinge alla religione è forza attinta nelle sue stesse viscere, gli eroi sono popolo del passato, la natura è la patria: v'è un'autoadorazione».
Il culto degli eroi era dunque fondamentale. Esso non andava inteso secondo la connotazione del rimpianto, ma come celebrazione delle eccellenze della nazione. «Mercé gli eroi – scrisse sempre Corradini – la nazione diventa patria, l'azione diventa religione». L'eroe, in altre parole, non è per i nazionalisti un semplice defunto da commemorare: esso, al contrario, incarna lo spirito della patria perpetuandolo, tenendolo in vita. L'accento è sulla morte come sacrificio, non più sulla morte come perdita, con la conseguenza che, giacché si riteneva fosse doveroso rendere devoto omaggio a chi avesse fatto dono di sé per la patria, ad essere celebrata era, indirettamente, anche la guerra. E dal momento che il sangue di chi si immola per la nazione acquistava valore salvifico, la guerra cessava di essere un mero teatro di morte, assurgendo a scenario dove la patria si mostra viva, ad occasione quasi provvidenziale per mettere alla prova i sentimenti nazionalistici di un popolo.
Nel caso della nazione italiana, che certo non poteva vantare un'esaltante tradizione di vittorie militari, la religione della patria a inizio secolo si connotò sempre più come culto del sacrificio. L'Italia aveva cioè bisogno di martiri, di passare attraverso una rivoluzione che consacrasse nel sangue il patriottismo dei suoi figli. La conseguenza di questa premessa era che, da atto barbarico, la violenza veniva riqualificata come mezzo purificatore, poiché – nelle previsioni dei nazionalisti – avrebbe consentito alla patria di rigenerarsi, di dare prova di vitalità. La guerra e la rivoluzione, scrive Emilio Gentile, acquistavano pertanto il significato di «eventi catastrofici attraverso i quali avviene una rigenerazione dell'uomo e si forma, attraverso l'esperienza della lotta e del sacrificio, un "uomo nuovo". Il mito della "rivoluzione italiana", alla vigilia del conflitto europeo, era già pervenuto a fondere guerra e rivoluzione nell'idea del "grande evento" palingenetico, che doveva creare finalmente la "nuova Italia", facendo compiere un altro passo, nell'ambito del mito nazionale, alla sacralizzazione della politica».
  Decisiva, nel favorire il consolidamento del culto della nazione, fu con tutta evidenza anche la crisi dei valori religiosi tradizionali, percepiti (dalle classi colte, s'intende) come sempre più inadeguati ad affrontare la progressiva secolarizzazione del mondo occidentale. Alla vigilia della Grande Guerra molti giovani – che avevano ricevuto un'educazione profondamente intrisa di patriottismo, ma proprio per questo si consideravano appartenenti ad una generazione "di mezzo" che aveva ereditato il Risorgimento e non aveva ancora avuto l'occasione di dar prova del proprio valore – ritenevano pertanto che fosse giunta l'ora del cimento, nella quale finalmente attuare una drastica rivoluzione dello spirito di un intero popolo. Essi, scrisse nel 1914 Vito Fazio-Allmayer su «La Voce», si comportavano da «increduli che cercano con ogni sforzo di crearsi una religione»; convinti di attraversare una crisi epocale di valori e certezze, avevano assoluto bisogno di credere in una causa, di crearsi una nuova fede. Questo, come sottolineò Carlo Rosselli, fu il motivo per il quale molti volontari combatterono nella Prima guerra mondiale: essi si sentivano animati dal desiderio di «immolarsi anima e corpo ad una causa – quale che fosse – purché capace di trascendere i meschini motivi della vita di ogni giorno».
La tragedia della guerra, nella quale molti sperimentarono i drammatici effetti della morte di massa, favorì da un lato il recupero del sentimento religioso tradizionale, ma dall'altro diede impulso proprio alle forme più estreme di divinizzazione della patria in armi, schierata contro il secolare nemico in quella che la propaganda militarista descriveva come la quarta guerra d'indipendenza. Si doveva credere, in sostanza, che nelle trincee si andava a morire per un motivo valido, per una nobile causa. Il conflitto europeo fece sì che i miti del sacrificio e del cameratismo, uniti al culto dei caduti, dei martiri e degli eroi, fossero trasferiti dai campi di battaglia alla politica, con l'idea che se la nazione era in grado di portare finalmente a compimento il progetto rivoluzionario di Mazzini con le armi in pugno, tanto più avrebbe dovuto mostrarsi animata da fervore patriottico nella gestione dei propri affari interni. Come bene intuì D'Annunzio, la guerra creava le premesse perché anche la politica, come già la patria, divenisse oggetto di culto. Il poeta pescarese fu il primo grande fautore della sacralizzazione della politica, un sacerdote laico che mutuò dalla religione tradizionale una congerie di simboli, liturgie e riti al fine di rafforzare la mistica della nazione. Il risultato fu la fusione di religione, politica ed arte, nel senso che la partecipazione alla vita pubblica doveva risultare, spiritualmente ma anche esteticamente, appagante e gratificante.
Nel dopoguerra, all'interno dell'arricchita simbologia nazionalista ricoprì un ruolo decisivo il culto dei caduti. Cimiteri di guerra e, soprattutto, monumenti alla memoria dei martiri della patria – che sorsero un po' ovunque per iniziativa di comuni, gruppi di cittadini e associazioni varie – divennero autentici spazi sacri in cui celebrare riti di sacralizzazione della nazione. Tra questi, il più solenne fu senz'altro la tumulazione sotto l'Altare della patria a Roma della salma del Milite Ignoto – trasportata in un vagone speciale che fu accolto ovunque da ali di folla giunta appositamente sul luogo di transito per rendere omaggio al feretro –, commovente cerimonia che si tenne il 4 novembre 1921, anniversario della vittoria della Grande Guerra. Le cerimonie della capitale furono, in assoluto, le più sentite nell'ancor breve storia dell'Italia unita. «L'apoteosi del Soldato ignoto è il ritorno alla religione della patria», commentò «L'Illustrazione italiana»: una religione di cui i fascisti, di lì a poco, si sarebbero proclamati unici e agguerriti custodi.
Il fascismo, infatti, ereditò e allo stesso tempo portò a maturazione il culto sacrale della nazione. Esso, come affermò Giovanni Gentile nel 1923, era «forza spirituale e religione», e come tale non era più disposto a tollerare la presenza di "miscredenti", insensibili al richiamo della nazione divinizzata. Dice bene lo storico Giordano Bruno Guerri quando scrive: «La giovane generazione che tornava dal fronte [...] aveva sviluppato una sensibilità fortissima a determinati richiami: la violenza come necessità, l'obbedienza ferrea alla gerarchia, le celebrazioni liturgiche, il culto dei caduti, l'esaltazione dell'azione e del sangue, la scarsa valutazione per la vita del nemico. Il fascismo avrebbe avuto gioco facile nell'applicare gli stessi atteggiamenti alla propria ideologia, che venne presentata come la sintesi, il culmine e il passo successivo del Risorgimento e del conflitto mondiale».
Non è sbagliato, pertanto, affermare che all'inizio degli anni Venti il fascismo trovò terreno fertile per l'affermazione (e l'imposizione) di una politica sacralizzata, incentrata sul culto totalizzante della nazione. Nelle intenzioni di Mussolini, il neonato PNF doveva assolvere la missione di portare finalmente a compimento la rivoluzione italiana avviata con il Risorgimento. Al riguardo, già sul finire del 1920 – come scrisse su «Il Popolo d'Italia» – il futuro duce aveva le idee chiare: «Noi lavoriamo alacremente per tradurre nei fatti quella che fu l'aspirazione di Giuseppe Mazzini: dare agli italiani il "concetto religioso della nazione" [...]. Gettare le basi della grandezza italiana nel mondo, partendo dal concetto religioso dell'italianità [...], deve diventare l'impulso e la direttiva essenziale della nostra vita».

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