sabato 20 luglio 2013

Processo a Rainaldo Bonacolsi, il “Duca” Passerino



(articolo apparso su Prima Pagina del 14 luglio 2013)

 
Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano


Il nome di Rainaldo Bonacolsi, detto Passerino per via della corporatura minuta, è indissolubilmente legato a quello della località di Zappolino, teatro dell'epica battaglia datata 15 novembre 1325 nella quale i modenesi, membri di un'ampia coalizione ghibellina, sbaragliarono i guelfi bolognesi, conquistando il simbolico trofeo della Secchia Rapita reso celebre dai versi in rima del Tassoni. Passerino – che come vicario imperiale di Mantova aveva ottenuto la signoria di Modena nel 1312 –, quale capitano della pars imperii ebbe un ruolo decisivo nello scontro, ma non seppe gestire le fasi successive di un trionfo militare che, se rappresentò l'acme della sua parabola politica, segnò anche l'inizio di un inesorabile declino. Cosa accadde dunque all'indomani di quel giorno di novembre di 688 anni fa?
Tra le colline bolognesi di Zappolino si fronteggiarono due eserciti piuttosto imponenti per i canoni dell'epoca. I ghibellini, i cui capi più potenti – il Bonacolsi, Cangrande Della Scala, Galeazzo Visconti, Castruccio Castracani e Rinaldo d'Este – si erano uniti in una lega, potevano schierare tra i 5.000 e gli 8.000 fanti e circa 2.500 cavalieri; più o meno equivalente nella cavalleria, l'armata guelfa era invece nettamente superiore nella fanteria, che contava ben 30.000 unità. Alla clamorosa vittoria la compagine filo-imperiale giunse compensando l'inferiorità numerica con la superiore abilità nel manovrare in un campo di battaglia impervio, chiuso su tre lati dalla cornice dell'Appennino. La portata del successo fu tale da far presumere agli sconfitti che Bologna sarebbe facilmente caduta nelle mani dei ghibellini. Il che, però, non avvenne, anche perché questi ultimi – inspiegabilmente, secondo il giudizio riportato da diverse cronache – non cinsero d'assedio la città rivale, limitandosi a correre alcuni palii presso le mura come gesto di scherno.
In realtà, in epoca medievale l'assedio di una città non era affatto impresa semplice e si trattava, nel caso in questione, di un'azione militare non alla portata dell'esercito ghibellino, vista l'inutilità degli assalti della cavalleria – suo punto di forza – in questo tipo di operazioni. Ciò che tuttavia desta polemiche ancora oggi è il trattato di pace stipulato da Passerino il 28 gennaio 1326. Esso infatti non fu per nulla penalizzante per Bologna, prevedendo al contrario clausole di per sé inconcepibili se si tiene conto esclusivamente di quanto accaduto sui colli di Zappolino. Come ha scritto Vittorio Lenzi, autore di uno studio sulla battaglia, «non è facile spiegare come i Bolognesi, a soli due mesi dalla disfatta, abbiano potuto ottenere la restituzione di tutti i castelli che avevano perduto e di tutti i prigionieri ancora non riscattati».
L'ipotesi che ha goduto, negli anni, di maggior credito è che il Bonacolsi si sia fatto corrompere. Non è però da escludere che Passerino abbia optato per un compromesso che gli garantisse una tregua col fronte guelfo (pur sempre agguerrito nonostante la batosta) e, al contempo, la possibilità di rinsaldare un potere personale che gli scricchiolii dell'alleanza ghibellina rischiavano di mettere a repentaglio. Certo è che, specie se si pensa alla tragica morte occorsa a nemmeno tre anni di distanza dai fatti di Zappolino, la sua figura resta controversa.


L'accusa di Gabriele Sorrentino


Il 15 novembre 1325 una coalizione ghibellina guidata dal mantovano Rainaldo “Passerino” Bonacolsi sconfisse duramente i guelfi, comandati da Malatestino Malatesta e dal capitano bolognese Fulcieri da Calboli, a Zappolino. Passerino era “signore” di Modena dal 1312 e tra i ghibellini militavano anche Azzone Visconti e Rinaldo d’Este, mentre Cangrande della Scala aveva abbandonato il campo per dissapori con gli alleati. Le cronache raccontano di una astuta manovra di cavalleria che portò alla rotta catastrofica i guelfi. Fu una grande mattanza che durò sino alla notte, quando i superstiti poterono rifugiarsi nei castelli di Zappolino, Bazzano e Piumazzo, mentre Crespellano il 16 novembre venne conquistata dai modenesi.
Bologna tremava perché non c’era più un esercito guelfo a difenderla. Eppure, quando i vincitori giunsero sotto le mura petroniane – era il 17 novembre – non assediarono la città. Si limitarono a sbeffeggiare i difensori, a correre tre corse – una in onore di Azzone Visconti, una di Passerino, una di Rinaldo d’Este – e a saccheggiare il territorio. Tra i trofei ci fu la famosa secchia rapita, rubata probabilmente da qualche pozzo fuori delle mura bolognesi. Il 24 novembre anche Bazzano si arrese ai modenesi, ma i ghibellini non diedero il colpo di grazia a Bologna.
In realtà non era facile, nel Trecento, assediare una città d’inverno, soprattutto quando da Piacenza stava scendendo un esercito guelfo in aiuto della città. La scelta di abbandonare il campo, quindi, era logica e non è per questa decisione che va condannato Passerino. Diversa, però, è la situazione legata al trattato di pace che il Bonacolsi, il 28 gennaio 1326, firmò con l’odiata rivale. L’accordo lasciò ai bolognesi tutti i territori contesi – Monteveglio, Savignano e Bazzano – in cambio della sola promessa di restituzione di Nonantola, occupata nel 1306. Il Frignano venne assegnato a Guidinello III da Montecuccoli che, pur ghibellino, era nemico di Rainaldo. Come è possibile che un condottiero vittorioso abbia ceduto a un accordo così sfavorevole?
Certo, per Passerino possiamo invocare alcune attenuanti generiche. La coalizione ghibellina stava sfaldandosi, dopo la rottura con Cangrande; Azzo Visconti e Rinaldo d’Este si erano presto defilati, tentando un accordo col Papa, il primo oppresso dalla scomunica, il secondo desideroso di vedersi confermata Ferrara. Il trattato, letto in volgare nella Cattedrale, è sfacciatamente favorevole agli sconfitti, anche se conteneva clausole che perdonavano i saccheggi e le violenze della guerra e che, tra l’altro, permisero alla secchia rapita di rimanere a Modena. Passerino aveva dimostrato di non essere uno stolto, non avrebbe potuto cadere in un simile tranello. Per questo molti storici sono convinti che si fece comprare dall’oro bolognese e così facendo tradì i modenesi, i quali nel 1327 lo cacciarono dalla città.


La difesa di Matteo Maria Bonghi

 
Dopo Zappolino, a Passerino vengono imputate due colpe: non aver approfittato dello sbandamento dei guelfi per conquistare Bologna; aver firmato una pace rinunciataria, “vergognosa” secondo alcuni cronisti.
Confutare la prima accusa è facile. Basta consultare un manuale militare per capire che all’epoca vincere una battaglia campale e conquistare una città erano due cose molto diverse. Per un esercito del Trecento espugnare una città era un’impresa non facile. Richiedeva tempo e dispendio di mezzi e uomini. E Passerino non aveva né l’uno, né gli altri. Le sue truppe erano scarse di fanti e la vittoria era stata ottenuta grazie alla cavalleria. Ma la cavalleria era di poca utilità nell’assalto a una città cinta di mura. Inoltre la via di un lungo assedio invernale, mentre alle spalle gli equilibri politici e le alleanze venivano ridefinite, era impercorribile. Per questa imputazione Passerino verrebbe assolto da qualsiasi giuria.
Più complessa è la seconda questione. Poco dopo il trionfo sui bolognesi, con fretta sospetta Passerino firmò un trattato di pace molto penalizzante per i vincitori. Restituì le rocche conquistate chiedendo, in cambio, solo che entro cinque anni Bologna consegnasse Nonantola, benché nulla garantisse che i felsinei avrebbero rispettato l’accordo.
Perché Passerino si comportò in questa maniera? Molti cronisti parlano di corruzione. Passerino si sarebbe fatto comprare dall’oro.
Secondo il sottoscritto invece i motivi di questa incomprensibile pace sono da ricercare in logiche tutt’altro che irrazionali e al contempo molto attuali. Chiunque abbia un minimo di esperienza di vita politica sa che il nemico si trova sempre nel proprio schieramento e quasi mai in quello opposto. Dall’altra parte c’è l’avversario, che è cosa ben diversa, con il quale ci si confronta più o meno lealmente ma sempre da posizioni distinte. Invece la coltellata alla schiena, quella più temuta, viene sempre dalle proprie fila, dal seguito.
La spiegazione può venire da qui. Il Bonacolsi guidava uno schieramento tutt’altro che solido. E dopo la vittoria gli scricchiolii si erano fatti assordanti. Aveva quindi bisogno di concludere in fretta la pace con l’avversario per non rischiare di trovarsi stritolato tra i guelfi, ancora forti e potenti, e gli inaffidabili alleati.
Basti pensare che il crollo del potere bonacolsiano si sarebbe avuto pochi anni dopo proprio a causa del tradimento dei “fedelissimi” Gonzaga, che alla prima occasione affondarono il coltello nella schiena del loro protettore.
A ben guardare poi, dopo la battaglia di Zappolino, una delle più sanguinose dell’epoca, Modena ottenne due risultati di lungo periodo: guadagnò il controllo su entrambe le sponde del Panaro, garanzia di confini sicuri; provocò se non il declino di Bologna, la fine della sua capacità espansiva. Dopo questa sconfitta Bologna, allora quinta città d’Europa, non sarebbe più stata quella di prima.
Quindi ci sentiamo di poter chiedere l’assoluzione anche per questa seconda imputazione, benché un po’ di rimpianto per questa “vittoria mutilata” rimanga in fondo a ogni modenese.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia



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