lunedì 8 luglio 2013

Il Modenese tra fine Ottocento e primo Novecento: profilo socio-economico

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 giugno 2013)
 
La società modenese di fine XIX secolo – ha scritto Luigi Paganelli – si presentava «come una realtà chiusa e prevalentemente statica, più legata alla tradizione che aperta alle novità indotte dal compimento del processo unitario nazionale e dall'affermarsi della rivoluzione borghese in Italia, scarsamente consapevole, nella sua ristretta cultura, anche di quegli elementi di novità e di quelle potenzialità che pur vi si possono riscontrare». Questi limiti, uniti alla miseria delle classi lavoratrici e a un'economia pressoché completamente agricola, rallentavano lo sviluppo di una provincia in cui povertà e indigenza costituivano un'autentica piaga sociale.
Le cattive condizioni di vita bloccarono per l'intero trentennio postunitario la crescita demografica. Sul finire del secolo il Comune di Modena contava meno di 60 mila abitanti, e comprendendo l'intera provincia non si superavano le 300 mila unità.
Nel 1884 l'Inchiesta agraria Jacini dipingeva per Modena un quadro sconcertante, giungendo persino ad affermare che «gli animali godono miglior salute che gli uomini». Circa un terzo della popolazione viveva di stenti e la situazione sanitaria era disastrosa. Le epidemie, tutt'altro che infrequenti, provocavano ingenti perdite. I casi più significativi si ebbero tra il 1883 e il 1887, quando colera e vaiolo, comparsi in rapida successione, causarono centinaia di vittime. Ancora nel 1905 i decessi per malattia ammontarono a 2.905, circa un terzo per colera. Desolante, di conseguenza, pure il dato della mortalità infantile: nel 1910 appena 72 neonati su 100 arrivavano all'anno di vita. Un ruolo decisivo era giocato certamente dalle pessime condizioni igieniche: «Non esistevano – scrive Giuliano Muzzioli – impianti per la potabilizzazione dell'acqua che, anzi, in molti casi veniva prelevata dai pozzi adiacenti a gabinetti o a canali di scolo; le strade erano ripulite più dalla pioggia che dall'uomo e le fogne erano quasi sempre a cielo aperto».
Incapace di resistere in condizioni simili, spesso priva di un posto di lavoro sicuro, molta povera gente optò per l'emigrazione, che raggiunse il suo acme nel primo ventennio del Novecento (nel triennio 1906-1908 la media per la provincia di Modena – 2123 partenze ogni 100.000 abitanti – superò quella nazionale – 2.032 su 100.000 – e, in generale, dal 1900 alla Prima guerra mondiale le partenze superarono costantemente le 4.000 unità annue). Ad essere maggiormente colpite furono le zone appenniniche e della Bassa: nel 1921, su 4.600 modenesi emigrati all'estero, ben 4.000 erano montanari. Le autorità, se inizialmente tentarono di opporsi a quello che appariva un doloroso esodo provocato dalla disoccupazione, col tempo presero a considerare l'abbandono delle terre natali un'efficace valvola di sfogo dinanzi alla minacciosa avanzata del movimento socialista. Il giornale di orientamento liberale «Il Panaro» nel 1899 ne sottolineò addirittura i vantaggi economici, argomentando che, nel caso dell'emigrazione temporanea, «si tratta di fior di quattrini guadagnati all'estero e spesi in patria con vantaggio della produzione nazionale».
La disoccupazione, ha scritto Pietro Alberghi, era «un flagello cronico»: «I braccianti lavoravano in media sei mesi all'anno, da aprile ad ottobre. Nel lungo periodo di forzata inattività riuscivano a sopravvivere grazie ai pochi risparmi accumulati nei mesi di lavoro e alla pubblica beneficenza. Essi costituivano però un incombente pericolo per l'ordine pubblico. Per questo i prefetti non si stancavano di raccomandare, nel periodo di stasi delle operazioni agricole, al ministro dei Lavori pubblici e alle amministrazioni comunali e provinciali il finanziamento di opere pubbliche straordinarie».
Per tutto il cinquantennio postunitario Modena rimase una provincia essenzialmente agricola. Luigi Paganelli sottolinea che nel 1911 «l'80 per cento delle 2.560 imprese "industriali" censite ha meno di 5 addetti» e che, su 30.000 lavoratori dipendenti del settore, «ci sono 13.000 artigiani e lavoratori a domicilio [...] a definire una situazione tipica di un regime pre-industriale». Una tale arretratezza economica fu alla base del costante aumento della percentuale di popolazione impiegata nei campi (nel 1861 gli agricoltori erano il 57%; a fine secolo la percentuale raggiunse il 60%, fino al picco del 1921, quando il valore salì al 65%), a fronte del quale non si registrarono peraltro significativi miglioramenti dal punto di vista della gestione dei terreni, della coltivazione e delle tecniche. Vi fu, al contrario, una diminuzione del numero dei lavoratori autonomi (piccoli proprietari, affittuari e mezzadri) a favore dei braccianti, con la conseguente proletarizzazione di buona parte del settore agricolo. La mezzadria rimaneva comunque il principale rapporto di produzione ed era regolata spesso in maniera iniqua a favore dei proprietari. La tradizionale durata annuale dei contratti costituiva poi un limite evidente, dal momento che rendeva poco convenienti gli investimenti per apportare migliorie.
Lievi progressi si riscontrarono solo agli inizi del XX secolo, quando furono introdotti nuovi sistemi di rotazione, si procedette all'estensione delle superfici destinate alle colture intensive e vennero sfruttati in maggior quantità i concimi chimici, migliorando sensibilmente le rese. La modernizzazione delle tecniche riguardò però solamente la pianura: in montagna, infatti, le avversità climatiche, l'arretratezza dei metodi e l'eccessivo frazionamento della proprietà rendevano pressoché impossibile un incremento sensibile della produttività.
L'attività industriale aveva scarso peso nell'economia modenese. Le imprese, dislocate in gran parte in periferia, erano per lo più manifatture che davano lavoro ad artigiani e apprendisti. Si trattava prevalentemente di botteghe e mestieri tradizionali (falegname, sarto, fabbro, orefice, ecc.), che solo a fine secolo cominciarono a servirsi con continuità di forza motrice idraulica o a vapore; oppure, data la natura essenzialmente agricola dell'economia modenese, di industrie che si occupavano della lavorazione delle derrate alimentari. Una discreta produttività era garantita dai settori tessile e della ceramica, così come una buona efficienza fu raggiunta tra fine Ottocento e primi Novecento dall'industria del truciolo. Un'eccezione era infine la Manifattura Tabacchi, che a fine secolo giunse a dare lavoro a circa 1.000 dipendenti (per il 90% donne), confermandosi come l'attività con il maggior numero di addetti. In generale, comunque – scrive Muzzioli –, «l'assenza di una convinta e diffusa coscienza industriale fu senz'altro uno dei limiti dell'industria modenese; i capitali [...] vi vennero indirizzati con molta parsimonia, preferendo impiegarli nell'agricoltura, nel commercio o, più tranquillamente, depositarli in banca». Tra le province d'Italia, Modena occupava a fine Ottocento il 43° posto per consistenza industriale.
Arretratezza economica, disoccupazione e miseria erano accompagnate da un elevato tasso di analfabetismo, che a inizio Novecento superava il 50% (rispetto al 66% del 1861). Il sistema scolastico, anche dopo che la legge Coppino del 1877 ebbe ribadito – portandola fino a nove anni – l'obbligatorietà dell'istruzione elementare, non poteva di certo dirsi efficiente. I genitori, bisognosi di braccia, spesso preferivano far lavorare i figli nei campi piuttosto che mandarli a scuola; i fondi non erano sufficienti né per le strutture né per la remunerazione degli insegnanti, dipendenti pubblici tra i peggio retribuiti; infine l'Università, ridotta da una legge nazionale al rango di ateneo minore fino al 1887, vide diminuire il numero di iscritti da 476 di media all'anno (anni 1859-1864) a 460 (anni 1909-1915). Qualche piccolo progresso, soprattutto con la fondazione di scuole elementari in diversi comuni della provincia, si ebbe ad opera dei socialisti, che vedevano nell'istruzione un aspetto indispensabile per l'emancipazione delle masse. Ma, nel complesso, i risultati furono modesti.

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