sabato 20 luglio 2013

«Anarchici a Modena»: la «dimensione umana» di una raccolta di biografie

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 luglio 2013)

Studiando il passato sui manuali scolastici non è infrequente commettere l'errore di accontentarsi di alcune definizioni onnicomprensive che, se hanno il pregio di condensare in poche righe i risultati di anni di ricerca, inevitabilmente trascurano, per dovere di sintesi, le esperienze individuali di coloro che, con le proprie scelte di vita, hanno rappresentato i singoli tasselli del complesso mosaico della storia. Concetti come quello di rivoluzione, risorgimento o resistenza, per esempio, possono risultare fuorvianti se non osservati attraverso una lente di ingrandimento in grado di far emergere dallo sfondo i protagonisti che hanno incanalato gli avvenimenti in modo tale da farli confluire in uno dei tanti recipienti virtuali – si passi il termine – di cui non si può fare a meno in sede di ricostruzione storiografica. E se questa procede per categorie (frutto dello sforzo interpretativo degli studiosi), ciò non significa che sia lecito pretendere di capire il passato senza avere fatto i conti con un numero sufficiente di profili biografici. In sostanza, non si può scrivere la macrostoria senza passare per la microstoria: perché la rivoluzione, il risorgimento o la resistenza contengono prima di tutto storie di uomini.
L'operazione portata a termine da Andrea Pirondini nel suo ultimo libro (Anarchici a Modena. Dizionario biografico, Zero in condotta, 2012) risponde proprio all'esigenza di dare un volto a tante persone dimenticate, schiacciate sotto il peso di un'ideologia – peraltro difficilmente classificabile come atteggiamento politico ben definibile – che alla fine ha prevalso sugli individui. A ciò si aggiunga che l’anarchismo, tra le molteplici correnti di pensiero del mondo contemporaneo, è stato vittima di un pregiudizio piuttosto diffuso tra gli storici della seconda metà del Novecento, i quali – ha scritto Gaetano Manfredonia – hanno spesso commesso l’errore di «vedere nelle idee e nei movimenti libertari del loro tempo la semplice sopravvivenza di un passato definitivamente condannato dall’evoluzione del mondo moderno», relegato in un «ghetto intellettuale» tanto dai marxisti quanto dai liberali, sbrigativamente interpretato come una serie di «forme “primitive” di rivolta preindustriale». Di fatto, all’anarchismo uno studente mediamente preparato è presumibilmente in grado di associare il nome di Bakunin (ma già su Kropotkin, per esempio, incontrerebbe grosse difficoltà) e, forse, una stringata definizione non molto più articolata di quella che è possibile ricavare sfogliando il Vocabolario Treccani: «Dottrina storico-politica che propugna l’abolizione di ogni governo sull’individuo e, soprattutto, l’abolizione dello stato, da attuare eliminando o riducendo al minimo il potere centrale dell’autorità […] [e attraverso] un estremo decentramento dei poteri amministrativi della società, affinché i lavoratori possano organizzare da sé la proprietà e l’amministrazione dei mezzi di produzione».
Lungi da chi scrive l’intento di screditare il Vocabolario Treccani, è tuttavia difficile non concordare con Pirondini quando, nelle pagine di introduzione, rivendica la «dimensione umana» del suo libro, che è prima di tutto storia di individui. Egli implicitamente raccomanda che le domande «Cos’è stato l’anarchismo?» e «Chi sono stati gli anarchici?» a più riprese si intreccino, perché non è possibile affrontare la prima senza avere precedentemente risposto alla seconda. Anche per questo, quindi, il volume si divide in due parti, una «tematica» ed una, la principale, «biografica». Nella prima «sono descritte in modo dettagliato le organizzazioni, i giornali ed alcuni momenti salienti legati alla storia degli anarchici modenesi»; nella seconda, «arricchita da un importante apporto fotografico, troviamo le biografie dei nomi più conosciuti e in vista dell’anarchismo modenese affiancate, per la prima volta, dai tanti ‘militanti di base’, che rappresentano il tessuto connettivo, il vero nerbo del movimento». In totale, quasi 300 profili.
In questa sede, per carenza di spazio, non è possibile soffermarsi su tutti i nomi: si è costretti a fare una scelta. Si potrebbe offrire al lettore un quadro generale del movimento anarchico modenese, dal sorgere delle prime organizzazioni di stampo socialista nella seconda metà dell’Ottocento fino al più recente secondo dopoguerra; oppure si potrebbe descrivere nel dettaglio un episodio significativo come l’eccidio di Piazza Grande del 7 aprile 1920, quando i carabinieri aprirono il fuoco in direzione di una nutrita folla di manifestanti – che scioperava per protestare contro precedenti episodi di violenza –, lasciando sul terreno 4 morti e ferendo una trentina di persone (una delle quali sarebbe in seguito deceduta in ospedale). Ma, anche per non cadere in contraddizione rispetto alla premessa di questa recensione, è opinione di chi scrive che sia preferibile raccontare brevemente la storia di alcuni esponenti del movimento anarchico modenese, con la consapevolezza che, inevitabilmente, la maggior parte di essi non potrà essere citata. Come fare, quindi, per scegliere i nomi? Un percorso praticabile potrebbe essere quello di seguire l’indicazione indirettamente fornita dallo stesso Pirondini, il quale, dovendo a sua volta operare una scelta, ha selezionato cinque fotografie per la copertina del libro. Fotografie che ritraggono i fratelli Lusvardi, tutti – il che è senza dubbio curioso – militanti anarchici durante il Ventennio fascista.
Il primo che si incontra è Aldebrando, nato nel 1902, che all’età di 22 anni aderisce al Gruppo libertario giovanile della Madonnina con la mansione di cassiere. Subito segnalato e schedato dalla questura quale «accanito avversario del Regime fascista», è più volte arrestato per attività sovversiva, finché, «dopo la fuoriuscita o l’arresto dei più attivi militanti anarchici modenesi», non decide di avvicinarsi ad alcuni esponenti comunisti. Scelta che tuttavia gli costa una denuncia al Tribunale speciale per «intensa attività comunista» e che, di fatto, lo costringe ad espatriare in Francia nel 1930. L’anno seguente la polizia lo annovera tra i fuoriusciti favorevoli «a combattere il regime con azioni violente», cosa che in effetti si verificherà durante il periodo della Resistenza. «Non si conosce con precisione – conclude Pirondini – il luogo della morte che pare sia avvenuta nel giugno 1986».
Più vecchio di Aldebrando di sei anni è Alfredo, anch’egli membro in gioventù del Circolo della Madonnina. Indiziato, insieme col fratello Filippo, dell’omicidio del fascista Mario Ruini (21 gennaio 1921), è rilasciato per mancanza di prove, anche se la questura lo definisce «anarchico pericoloso e capace». Nel 1922 si stabilisce in Francia, trovando impiego come muratore a Parigi. Anarchico convinto, è arrestato dalla polizia tedesca nel 1940: passa attraverso il carcere, il campo di concentramento e il confino, finché, rilasciato, non giunge a Modena nell’agosto del 1943, partecipando marginalmente alla Resistenza. Finita la guerra torna in Francia, dove muore nel 1986.
Il terzo Lusvardi è Bruno (nato nel 1904), come i fratelli precoce antifascista. Più volte arrestato tra gli anni Venti e Trenta, entra a far parte del gruppo Italia Libera – Ciro Menotti e, una volta fuoriusciti i più attivi militanti anarchici, prende contatto con la struttura clandestina comunista. I nuovi compagni, racconterà in seguito, mostrano tuttavia una certa diffidenza nei suoi confronti, giungendo persino ad accusarlo di fare il doppio gioco. Dopo l’8 settembre 1943 si arma per andare in montagna coi partigiani e aderisce infine al Partito d’Azione, di cui diviene rappresentante in seno al CLN. A guerra finita è attivo nella Federazione Comunista Libertaria di Modena, città dove muore nel 1987.
Proseguendo la lettura si incontra Filippo, che nel 1918, a soli 19 anni, è condannato a sette anni di reclusione dal Tribunale militare di Cuneo per diserzione (pena poi sospesa). Aderisce in seguito al gruppo anarchico della Madonnina ed è accusato, come detto, dell’omicidio di Ruini. Scagionato, nel 1922 decide di espatriare, trascorrendo due anni in Algeria prima di stabilirsi a Parigi, dove aderisce al Movimento anarchico fuoriuscito. Combatte in Spagna durante la guerra civile. Rientrato in Francia, è arrestato dalla polizia tedesca nel 1940 e, come Alfredo, passa dal carcere al confino, finché, con l’8 settembre, non fa rientro a Modena. Dopo aver preso parte alla Resistenza, a guerra finita rientra in Francia, dove muore nel 1991.
L’ultimo Lusvardi è Medardo, il più anziano (nasce nel 1897), che, secondo la questura, «gode di un certo ascendente sulle masse e di ciò si serve per far propaganda». Bastonato dai fascisti durante uno scontro nel 1921, diventa presto oggetto di ripetute aggressioni. Nella sua bottega di calzolaio si riuniscono alcuni giovani anarchici, che non mancano di attirare i sospetti della questura. Costantemente sorvegliato e più volte arrestato nel corso del Ventennio, durante il periodo della Resistenza perde il figlio Bruno, fucilato per rappresaglia dai nazisti. Nel dopoguerra è eletto membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Muore a Modena nel 1963.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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