domenica 18 gennaio 2015

Don Primo Mazzolari: parroco di Bozzolo, «parroco d’Italia»

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 gennaio 2015)

Gli anni Trenta e il trasferimento a Bozzolo coincidono, per don Primo Mazzolari, con l’inizio di una stagione di prolifica produzione letteraria, inaugurata da un breve scritto di presentazione ai nuovi fedeli, intitolato Il mio parroco. Nel complesso, sono anni duri, con il regime che si consolida, la povertà che affligge pressoché l’intero territorio entro il quale il sacerdote lombardo si trova ad operare e l’emergere di aspri contrasti – che caratterizzeranno l’intero prosieguo della sua esistenza – con la gerarchia ecclesiastica.
Emblematico, oltre che motivo di scandalo, è il caso de La più bella avventura, originale rilettura della parabola del figliol prodigo incentrata sulla figura del fratello maggiore. Il volume viene pubblicato nel 1934 dopo aver ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, ma è condannato l’anno seguente dal Sant’Uffizio, che lo giudica «erroneo» e ne impone il ritiro dal commercio. Il motivo del provvedimento è facilmente intuibile: per Mazzolari, il prodigo è un peccatore che si mostra comunque coraggioso nel seguire il proprio istinto, mentre il fratello maggiore è fondamentalmente un ignavo che segue la regola del quieto vivere. Morale: la Chiesa non può rimanere inerte e godere degli agi della propria casa, ma deve aprirsi a chi da essa si è allontanato facendo il possibile per recuperarlo.
Come precisa nella lettera di sottomissione inviata a Roma, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», ma è frainteso. Al suo vescovo, monsignor Cazzani, confida di sentirsi come un «vigilato speciale»; nondimeno obbedisce, pur palesando di non comprendere le ragioni che stanno all’origine del provvedimento di censura. Ciò che don Primo non può sapere è che la condanna per La più bella avventura è la prima di una lunga serie. Nel 1937, allorché Mazzolari pubblica un articolo intitolato I cattolici italiani e il comunismo (nel quale l’ideologia marxista è condannata per le conclusioni materialiste cui necessariamente approda, ma non per le premesse – povertà, ingiustizia, sfruttamento – che ne costituiscono il motore), al Sant’Uffizio si sostituisce il regime: lo scritto è infatti prontamente sequestrato con l’accusa di diffondere una «prosa demagogica e disfattista», e don Primo è apertamente minacciato da Roberto Farinacci su «Regime fascista».
Mazzolari non è però per nulla disposto a farsi da parte, ed anzi guadagna fama in tutta la penisola grazie alla sua instancabile attività di conferenziere. Negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale il prete cremonese tiene numerosi discorsi, collabora alle principali testate cattoliche nazionali e contemporaneamente riesce nell’arduo compito di non perdere di vista il quotidiano impegno pastorale. Nel frattempo gli eventi si susseguono a ritmo incalzante: guerra d’Etiopia (cui don Primo dà il proprio sostegno non certo in nome dell’imperialismo fascista, ma poiché si convince che il conflitto costituisca un’occasione per alleviare le sofferenze del popolo italiano, ridotto in miseria dall’arroganza delle grandi potenze del continente europeo), guerra di Spagna e infine il secondo conflitto mondiale. Mazzolari vi giunge avvolto in un clima di sospetti e calunnie (tanto il regime, quanto il Sant’Uffizio gli bloccano in questa fase diversi scritti, tra cui il volume del 1943 Impegno con Cristo, destinato – scrive Bruno Bignami – a diventare «documento simbolo della Resistenza per l’invito a vivere la fede come impegno disinteressato per il bene dell’uomo»), e, dopo il crollo del fascismo, è presto costretto a toccare con mano il dramma della guerra civile.
Don Primo si prodiga sin da subito per favorire il movimento partigiano delle Fiamme verdi (di matrice cattolica) e si attiva per nascondere i perseguitati, tra cui diversi ebrei. L’intraprendenza espone però il sacerdote cremonese al rischio di una delazione: e infatti puntuali arrivano i primi avvertimenti, finché Mazzolari (febbraio 1944) non viene arrestato, successivamente liberato e poi nuovamente sospettato di collaborazionismo, tanto da essere costretto a nascondersi per sfuggire alla cattura. Vivrà in clandestinità, praticamente murato vivo in una stanzetta della sua canonica a Bozzolo, fino ai giorni della Liberazione.
Il dopoguerra si apre per don Primo all’insegna di una fondamentale parola d’ordine: riconciliazione. Per il prete lombardo, supremo compito del buon cristiano diviene – in quel drammatico frangente storico – l’educazione al perdono: ed egli per primo si premura di dare il buon esempio cercando con ogni mezzo di impedire le vendette politiche e mostrando pietà nei confronti dei fascisti sui quali ricade il pericolo di una giustizia sommaria. La sua sfida è quella della fraternità a tutti i costi, che deve esprimersi attraverso il comune impegno per la ricostruzione – materiale, ma soprattutto morale – del paese.
È questa, in sostanza, la suprema motivazione che sta alla base dell’impegno politico di Mazzolari: il forte desiderio di rimboccarsi le maniche per voltare pagina in un clima di ottimistico rinnovamento culturale, all’insegna della ritrovata libertà e della democrazia. Don Primo è convinto che l’umanità debba passare attraverso una «rivoluzione cristiana», ovvero mettersi nelle condizioni di aprirsi ai «lontani», ai poveri e agli emarginati mediante un dialogo incessante imperniato sull’amore del prossimo. Significativamente, Rivoluzione cristiana è proprio il titolo di un’opera tra le più belle dell’intera produzione mazzolariana, portata a termine durante il periodo della clandestinità ma pubblicata postuma nel 1967. In essa si legge: «Il mondo o lo si costruisce sull’egoismo, o lo si costruisce sull’amore […]. Se, invece di stimolare e garantire gli impulsi egoistici dell’uomo, avessimo stimolato e organizzato il suo bisogno d’amore; se ogni sforzo e ogni nostra invenzione li avessimo posti a servizio dell’amore per suscitare l’amore, qualcosa di meno belluino ci sarebbe nel mondo».
Mazzolari si impegna in politica proprio per gettare le basi della rivoluzione cristiana che ha in mente. Da subito si schiera per la DC, sia nelle elezioni per la Costituente (1946), sia in quelle – decisive per il futuro dell’Italia – del 1948. La sua, però, non è una scelta di campo che esclude il dialogo con gli avversari: nei confronti del comunismo – di cui, come detto, respinge categoricamente il materialismo – l’atteggiamento di don Primo è sostanzialmente di potenziale apertura, nel senso che egli crede che il cristianesimo possa costituire, al riguardo, un terreno di incontro, una sorta di casa (si noti come nel pensiero del prete cremonese torni costantemente la riflessione sulla parabola del figliol prodigo) che deve accogliere chiunque intenda farvi ritorno dopo un periodo di smarrimento.
Mazzolari non esita pertanto a scendere in piazza e ad esporsi in prima persona per tenere comizi durante la campagna elettorale (risale a quel periodo il pubblico confronto con il conterraneo Guido Miglioli, ex deputato popolare approdato nelle file del Fronte popolare). Collabora a «Democrazia» (settimanale della DC lombarda) e nel 1949 fonda il battagliero quindicinale «Adesso», pensato per sollecitare un profondo rinnovamento della Chiesa, per la quale – sostiene – è giunta l’ora dell’abbandono del conservatorismo. Il periodico affronta tutti i temi che più stanno a cuore a don Primo: la difesa dei poveri, il dialogo con i «lontani», il complicato confronto con i comunisti, il problema della pace e della bomba atomica in un’epoca di contrapposizioni globali. In sostanza, tutti argomenti “scomodi” che inevitabilmente finiscono per allarmare la gerarchia ecclesiastica, la quale puntualmente torna a farsi sentire: nel 1951 a Mazzolari è fatto divieto di scrivere e di predicare fuori della sua diocesi senza il permesso dei superiori (ma don Primo contravverrà alle disposizioni, continuando a pubblicare su «Adesso» celandosi dietro diversi pseudonimi); tre anni dopo dal Sant’Uffizio giunge l’ordine di non predicare al di fuori della sua parrocchia, di non rilasciare più interviste e di astenersi dallo scrivere «su materie sociali», con la motivazione che gli articoli e i discorsi del prete lombardo «offrono elementi di propaganda dei comunisti contro la Chiesa e provocano divisioni nel campo cattolico».
Nel frattempo, tenendo sempre presente la cura d’anime a Bozzolo, Mazzolari dà comunque alle stampe diverse opere, tra cui La pieve sull’argine (di carattere autobiografico, uscito nel 1952), Tu non uccidere (apparso anonimo nel 1955: si tratta di un testo tra i più conosciuti della produzione mazzolariana, incentrato sulla correlazione pace-giustizia) e I preti sanno morire (opuscolo pubblicato nel 1958 che affronta il delicato tema dei sacerdoti uccisi durante la Resistenza). Sono gli ultimi anni di don Primo, caratterizzati da una sostanziale riconciliazione con l’autorità ecclesiastica. Nel novembre del 1957 è infatti chiamato da monsignor Montini, allora arcivescovo di Milano, a predicare nel capoluogo lombardo all’interno di un’iniziativa straordinaria di interventi pastorali, la «Missione al popolo»; il 5 febbraio 1959, infine, Mazzolari è ricevuto in Vaticano da Giovanni XXIII, che nell’occasione pronuncia una frase destinata a diventare celebre: «Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana». Esattamente due mesi dopo, il 5 aprile, don Primo è colpito da emorragia cerebrale durante la predicazione nella chiesa di San Pietro a Bozzolo: trasportato in ospedale, muore la domenica successiva, il 12 aprile.
Dalle pagine del suo testamento spirituale si può leggere una riflessione che pare la sintesi dell’intera vicenda terrena del prete cremonese: «Nei tempi difficili in cui ebbi la ventura di vivere, un’appassionata ricerca sui metodi dell’apostolato è sempre una testimonianza d’amore, anche quando le esperienze […] pare non convengano agli interessi immediati ella Chiesa». In questo suo voler essere profeta, nell’apertura verso ciò che va oltre la canonica e la comunità dei fedeli, don Primo Mazzolari incarna la figura di un sacerdote universale, parroco di un piccolo paese di campagna ma allo stesso tempo capace di far sentire la propria voce anche in lontananza. Per questo – dice bene Bruno Bignami – fu anche, e soprattutto, «parroco d’Italia».

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Don Primo Mazzolari: la vocazione, la Grande Guerra e i dieci anni di ministero a Cicognara

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 gennaio 2015)

Una cosa è certa: don Primo Mazzolari, interventista, antifascista, saggista prolifico e sovente in contrasto con la gerarchia ecclesiastica, non fu un sacerdote qualunque o un semplice «prete da sagre» paragonabile al protagonista di Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Fu, al contrario, un personaggio costantemente in tensione con il suo tempo, un uomo d’azione che mai avrebbe derogato ai propri principi morali, un intellettuale colto, dalle vastissime letture e capace di mostrarsi profetico in alcune sue lungimiranti previsioni. Normale, pertanto, che a questa eccezionale e controversa figura siano stati dedicati negli anni numerosi studi, tra i quali in questa sede si segnala il recente volume biografico di Bruno Bignami (Don Primo Mazzolari, parroco d’Italia, EDB 2014), fondamentale per chiunque tenti un primo, documentato approccio con la vita e le opere del celebre parroco di Bozzolo.
Primo Mazzolari nasce a Boschetto, nel Cremonese, il 13 gennaio 1890 da Pierluigi, un contadino piccolo affittuario, e Grazia Bolli, «donna profondamente religiosa, ma non bigotta». Primogenito di cinque figli (dopo di lui nascono infatti Colombina, Giuseppe, Pierina e Giuseppina), all’età di dieci anni Primo deve trasferirsi con la famiglia a Verolanuova, vicino Brescia, per esigenze legate al lavoro del padre. Concluse le elementari, nel 1902 – sorretto da una precoce vocazione – entra nel seminario di Cremona, all’epoca caratterizzato da un eccezionale fervore intellettuale grazie soprattutto all’intraprendenza del vescovo Geremia Bonomelli, che per le sue posizioni conciliatoriste in merito all’annosa «questione romana» e la sensibilità rispetto alle più scottanti problematiche sociali è sospettato di modernismo.
Terminati gli studi, nel 1912 Mazzolari è ordinato sacerdote, dopodiché viene inviato per qualche mese a Spinadesco e, successivamente, presso la parrocchia natale di Boschetto. L’anno seguente è nominato professore di latino al ginnasio del seminario di Cremona, ma già nell’estate del 1914 accetta di recarsi in Svizzera per seguire gli emigranti italiani di ritorno dalla Germania in seguito allo scoppio del primo conflitto mondiale. Di fronte alla possibilità che anche l’Italia entri in guerra, si mostra sin da subito favorevole: il suo è infatti un interventismo convinto, che scaturisce dal duplice desiderio di veder trionfare giustizia e libertà sull’imperialismo austro-tedesco e di consegnare alla patria le contese «terre irredente». Ma ci sono anche altre ragioni che stanno alla base delle convinzioni del giovane don Primo: a suo parere – anche se presto deve ricredersi – la guerra può costituire un momento catartico capace di spazzare via valori e illusioni che allontanano dal Vangelo. «Forseché una folata di vento gagliardo non scoperchia più azzurro in un minuto che un’aura dolce in un intero giorno?», annota significativamente in quei giorni nel suo diario.
Animato da un forte senso del dovere, nel novembre del 1915 Mazzolari è chiamato alle armi e parte per Genova in qualità di soldato semplice: nella città ligure, e in seguito a Cremona, è impiegato nei servizi di sanità militare. Sin da subito – complice anche l’immediata morte in combattimento del fratello Giuseppe – comprende che la guerra non è altro che una disumana carneficina; nondimeno, desideroso di condividere le esperienze atroci dei soldati in prima linea, chiede e ottiene di essere trasferito al fronte. Nel 1918 diviene così cappellano militare dei reparti dell’esercito italiano inviati in Francia, e il suo servizio si protrarrà fino a buona parte del 1920: a guerra finita i reparti cui appartiene sono infatti inviati, con compiti di riorganizzazione, prima nei territori del confine italiano, poi in Alta Slesia, per garantire il regolare svolgimento del plebiscito per l’assegnazione della regione (contesa tra Germania e Polonia), come previsto dai trattati di pace.
Rientrato in Italia, Mazzolari riesce ad ottenere dal nuovo vescovo Giovanni Cazzani che gli venga assegnato un incarico pastorale. È così nominato delegato vescovile nella parrocchia della SS. Trinità a Bozzolo (ottobre 1920) e, poco dopo, parroco a Cicognara, frazione di Viadana (dicembre 1921): entrambi i paesi sono nel Mantovano, ma dipendono dalla diocesi di Cremona.
Nella cura d’anime don Primo presta particolare attenzione alla predicazione – che riesce a rendere accessibile a tutti attraverso un linguaggio semplice, frutto di profonda riflessione –, diventando in breve un vero e proprio maestro dell’arte omiletica. A suo parere, la Chiesa deve andare incontro al popolo e farsi capire penetrando nella vita quotidiana delle persone. Scrive al riguardo Bruno Bignami: «Mazzolari si accorge che, se l’incarnazione e la condivisione della vita della gente sono risorse straordinarie della parrocchia tradizionale, occorre però inventarsi un cambio di marcia. Si tratta di interpretare il vissuto della propria gente, di fare della Chiesa una “cosa viva”, di presentare la comunità cristiana come luogo attraente perché casa di tutti. Da qui alcune proposte pastorali, in ascolto della gente di Cicognara: le feste del grano e dell’uva, il 1° maggio cristiano, il 31 dicembre con la sintesi dell’anno trascorso. […] La pastorale di Mazzolari […] non cala dall’alto un messaggio sopra la testa delle persone, ma parte dal cuore, dal vissuto quotidiano per elevarlo e trasformarlo con l’adesione al messaggio evangelico».
Al centro della vita parrocchiale don Primo pone la questione educativa: la Chiesa deve cioè formare gli uomini, abituandoli ad ascoltare la coscienza, intesa quale voce di Dio che risuona all’interno di ogni cuore. Istituisce pertanto una biblioteca parrocchiale, promuove corsi serali e letture di classici, da Dante al Manzoni. Il suo scopo è abituare i fedeli a ragionare in libertà, in aperto contrasto con la politica del fascismo, volta ad irreggimentare una società ritenuta incapace di camminare con le proprie gambe.
L’avversione al regime da parte di Mazzolari non può essere, ovviamente, manifesta, ma si esprime attraverso una pastorale aperta al dialogo con chi sta «fuori» rispetto alla comunità cristiana, e tramite alcuni gesti dall’alto valore simbolico, come il rifiuto di cantare il Te Deum dopo il fallito attentato a Mussolini da parte di Tito Zaniboni (1925) e la decisione di non votare nel plebiscito del 1929 (che sancisce il trionfo politico del Capo del governo per via dei Patti Lateranensi). Anche nei confronti della conciliazione Mazzolari non nasconde le proprie perplessità. «La Chiesa non ebbe mai tanta libertà in Italia come durante la rottura dei rapporti tra Stato e Chiesa», annota in quei giorni nel suo diario, mettendo ben a fuoco un problema di fondo: ovvero che il Concordato è stato concesso dal regime in cambio della pretesa (implicita, ma chiaramente riconoscibile) di avocare a sé la futura educazione della gioventù. «Cosa guadagna la Chiesa con questa riconosciuta sovranità o indipendenza territoriale? Che alla garanzia morale di tutto il mondo viene sostituita la garanzia di un uomo e di un partito».
Per don Primo, dunque, la Chiesa non ha bisogno «di privilegi, ma di libertà». Ma la libertà, delle istituzioni come dei singoli individui, non è negoziabile con il fascismo, che difatti prontamente reagisce. Mazzolari è più volte “segnalato” dalle autorità per i suoi discorsi e le sue prese di posizione, fino al giorno in cui riceve un supremo avvertimento: la notte del 2 agosto 1931 un gruppetto di fascisti esplode alcuni colpi di pistola contro la finestra della canonica. L’intimidazione è forte, nondimeno don Primo ha la forza di resistere al ricatto: «Non chiederò mai a nessuno di rinunciare ai propri principi; ma pretendo che nessuno mi venga ad imporre tale sacrifizio», scrive al vescovo subito dopo l’accaduto.
Sono gli ultimi giorni di don Mazzolari a Cicognara. Nell’estate del 1932 è infatti nominato arciprete di Bozzolo, dove le due parrocchie di SS. Trinità e di San Pietro sono da poco state unificate. A dispetto di alcuni maligni pettegolezzi – secondo i quali don Primo sarebbe stato allontanato da Cicognara per punizione, a causa dei suoi eccessi –, l’incarico nella nuova parrocchia è molto delicato (Bozzolo è al centro di un territorio frammentato, punto di riferimento di molteplici località rurali dove è facilmente avvertibile un progressivo distacco dalla religione), e richiede quindi notevoli capacità. Si aggiunga inoltre che a Bozzolo Mazzolari è anche vicario foraneo, il che – suggerisce Bignami – testimonia del fatto che la nomina è senz’altro avvenuta «all’interno di un clima di fiducia», e rappresenta a tutti gli effetti una “promozione”.
Il nuovo incarico coincide con l’inizio di una nuova fase nella vita del prete lombardo. Una fase nella quale don Primo accompagnerà l’azione pastorale con un’intensa attività pubblicistica e si aprirà al mondo attraverso una sentita partecipazione alla vita politica. (Continua)

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«Il quinto Francesco»: il dramma di un sovrano costretto all’esilio, la tragedia di una famiglia travolta dalla guerra

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 gennaio 2015)

Quella per l’unità d’Italia fu una guerra civile? Tecnicamente, esiste una sola risposta possibile: no. La cosiddetta seconda guerra d’indipendenza fu combattuta dal Piemonte di Vittorio Emanuele II, alleato della Francia di Napoleone III, contro l’Austria, potenza egemone nella penisola; l’obiettivo iniziale era l’espansione a est dello Stato sabaudo, non certo l’unificazione di una nazione italiana che come tale non era mai esistita (e forse, guardando il presente, non esiste neppure oggi…). Poi però le guerre sono imprevedibili: Cavour non pensava di arrivare a Firenze – figurarsi a Napoli, o a Palermo! –, ma alla notizia che era scoppiata una guerra contro gli Asburgo le popolazioni di Toscana ed Emilia furono animate da improvviso fermento, di fatto “consigliando” ai sovrani figli della Restaurazione di abbandonare le rispettive capitali (Leopoldo II di Toscana lasciò Firenze il 27 aprile, seguito – dopo la sconfitta austriaca a Magenta – da Luisa Maria di Parma il 9 giugno e da Francesco V d’Austria-Este l’11 giugno). Ed è qui che la guerra si complica. Con i duchi prudentemente partiti per l’esilio, l’esercito franco-piemontese trionfante e la benevola neutralità dell’Inghilterra, ogni famiglia deve scegliere da che parte stare. Certo, molti si mostrano cauti, cercando di non sbilanciarsi troppo in attesa che si ritorni alla normalità; ma c’è anche chi sente il dovere di prendere una decisione: o col Savoia, o con i vecchi sovrani (il che significa, in concreto, con l’Austria). E allora si deve tornare alla domanda da cui siamo partiti: se accadde che in una stessa famiglia vi furono partigiani dell’uno e dell’altro schieramento, è lecito affermare che alla base del Risorgimento vi fu uno scontro fratricida, una guerra civile?
Nei fatti, il percorso accidentato che portò all’unificazione della penisola fu caratterizzato anche da un aspro conflitto tra italiani, che vide il suo acme in quella che le generazioni postrisorgimentali avrebbero ribattezzato – con evidente faziosità – lotta al brigantaggio. Occorre però essere cauti nell’emettere sentenze: perché il confine tra brigante e patriota (o, in maniera analoga – volendo evocare ricordi più recenti –, tra bandito e partigiano) è labile, e basta davvero poco per passare da una categoria a quella opposta. A ben vedere, è tutta una questione di prospettive: un soldato della Brigata Estense che resta fedele al suo sovrano in esilio è al contempo un patriota modenese e un italiano ribelle nei confronti del Regno sabaudo. Così come Mazzini è un terrorista fino al 1861 (era considerato a tutti gli effetti il Bin Laden dell’epoca), e un padre della patria dopo.
Non è facile dunque giudicare, anche perché il rischio di cadere nell’anacronismo è alto. La storia, certo, ha emesso il suo verdetto, e oggi – che ci piaccia o no – a Modena siamo italiani e non più sudditi del duca. Ma un conto è leggere gli avvenimenti sui libri, altra cosa è viverli, col rischio di prendere posizione dalla parte sbagliata (o giusta ma perdente, secondo i punti di vista), fermo restando che si può essere sconfitti e avere allo stesso tempo un forte senso dell’onore. Ecco allora che forse l’atteggiamento più corretto è quello della comprensione, che prevede che si riconoscano ai vinti i giusti meriti, oltre che una certa dignità. Comprensione che naturalmente non annulla – sia chiaro – il dovere storico di dare un peso alle scelte dei diversi protagonisti (giacché non avrebbe senso ignorare il corso degli eventi e mettere tutti sullo stesso piano), ma che va intesa come sforzo di mantenere un certo salutare distacco rispetto al passato.
La premessa è d’obbligo allorché si voglia prendere in esame un libro come Il quinto Francesco di Roberto Vaccari (Edizioni Artestampa 2014), incentrato sul dramma di una guerra che divide due fratelli (uno filo-duchista, l’altro mazziniano) e costringe all’esilio – che risulterà definitivo – il sovrano estense, tutto sommato un buon governante, moderato e non privo di un certo acume politico. Quello di Vaccari è un romanzo storico che segue due filoni paralleli: Francesco V d’Austria-Este da una parte – con il suo addio a Modena, il sofferto esilio e l’epopea dei soldati della Brigata Estense rimasti coraggiosamente fedeli al loro sovrano decaduto – e la famiglia Melotti dall’altra – un padre ricco commerciante, pragmaticamente propenso a difendere l’ordine costituito, e due figli (Erio e Paolo), rispettivamente ufficiale dell’esercito del duca e volontario sotto le bandiere dei Savoia.
Il lettore è pertanto trasportato all’interno di una tragedia collettiva, che coinvolge gli uomini di potere come le persone di umili origini. Molto ben riuscita è senz’altro la descrizione dello stato d’animo di Melotti, incredulo e soprattutto spaesato di fronte a una guerra piombatagli addosso come un fulmine a ciel sereno, ma allo stesso tempo consapevole che non sempre è possibile sottrarsi alla responsabilità di difendere con coerenza le proprie idee. I suoi due figli, del resto, non sentono ragioni: è l’onore – dicono – che impone loro il sacrificio degli interessi personali. Patrioti e briganti a seconda dei punti di vista, per Melotti Erio e Paolo hanno entrambi valide ragioni: «Non ti dirò di tornare vincitore – raccomanda al secondogenito mazziniano prima della sua partenza per il Piemonte – perché tradirei tuo fratello. Ma chiunque vincerà la sfida, voglio che vi rispettiate. Lui sta facendo il suo dovere forse più di te. Promettimi che lo riabbraccerai non appena il mondo tornerà a girare nel verso giusto». E ancora, riflettendo sulla causa che sta a cuore a Paolo: «Italia, che strano suono pronunciato in casa sua, una parola leggera e insana, un concetto che brucia nei cuori degli idealisti e dei fannulloni. Una terribile speranza che ha già condotto a morte molti uomini. Eppure oggi Melotti sente che quanto va farneticando il figlio può non essere del tutto sbagliato».
I fratelli Melotti si comportano con onore e senso del dovere, anche se la guerra finisce inesorabilmente per dividerli. Erio, in particolare, dà prova di grande coraggio accettando di seguire il suo duca in esilio: per lui conta il giuramento, anche a costo di farsi trascinare nel baratro della sconfitta. La sua diviene la storia degli oltre tremila volontari che andarono a comporre la Brigata Estense, come vennero chiamate le truppe che – unicamente per devozione – abbandonarono Modena l’11 giugno 1859 determinate a condividere fino all’ultimo il destino del loro sovrano. A nulla valsero le lusinghe (come gli avanzamenti di carriera prospettati dal dittatore Farini a quanti avessero disertato per confluire nell’esercito sabaudo) e le intimidazioni dei piemontesi: solo pochi uomini cedettero e accettarono di rientrare in patria, ma, nel complesso, il numero degli effettivi della Brigata aumentò per il costante afflusso di giovani volontari. Identico esito ebbe il decreto di amnistia emanato da Vittorio Emanuele II il 21 settembre 1862, che minacciava la confisca dei beni e la perdita dei diritti civili a quanti non avessero fatto ritorno nel territorio del Regno d’Italia entro sei mesi: in tutto abbandonarono Francesco V solo 12 ufficiali e circa 160 soldati, nonostante il duca, per risparmiare inutili sacrifici ai suoi uomini, avesse autorizzato il congedo.
Lo scioglimento della Brigata avvenne solo su sentenza dell’Imperatore, datata 14 agosto 1863, quando ormai era chiaro che, con il consolidamento dell’unità d’Italia, Francesco V non sarebbe mai rientrato in possesso del suo Stato. A Cartigliano Veneto, il 24 settembre, tutti i soldati furono decorati con una medaglia recante su un lato la scritta Fidelitati et constantiae in adversis. Alcuni di loro – è il caso di Erio – scelsero di prendere servizio nell’esercito imperiale austriaco.
Per il più anziano dei fratelli Melotti la possibilità di rientrare a Modena – retrocessa da capitale di un Stato a secondaria città di provincia – non è dunque contemplata. Neppure Paolo – giunto appositamente a Cartigliano per indurlo a ragionare – riesce a smuoverlo dalle sue ostinate convinzioni: Erio ha scelto la sua strada, e – schiavo com’è del senso dell’onore – congeda bruscamente il fratello. «L’asserzione di Erio è pacata – chiarisce la voce narrante –, forte e malinconica allo stesso tempo. Le parole irrevocabili hanno il segno inequivocabile dell’errore, perché di colpo sembrano confermare quanto Paolo ha supposto: la causa per cui Erio porta la divisa è morta, ed è solo per il grande orgoglio che uomini come lui si isolano. Quando alla ragione si sostituisce l’orgoglio, e questo sopraffà la volontà, non esiste aggio per riprendere il controllo: tutto è deciso dallo spirito caustico della vanità. La vanità impedisce di vedere la giustezza delle proporzioni. Si dovrebbe avere il coraggio di ammetterlo e chinare la testa, invece di lasciarsi andare alla frustrazione, un dolce veleno che scalda le membra e il cuore fino a ubriacare».
Nel romanzo, Erio e Paolo non si vedranno più dopo l’incontro di Cartigliano. Stessa sorte il destino riservò a Francesco V nei confronti di Modena: sorto ufficialmente il Regno d’Italia sulle ceneri degli Stati preunitari, il duca estense dovette rassegnarsi a considerare per sempre perduta la sua vecchia capitale. In esilio, a Vienna, morì il 20 novembre 1875. È sepolto nella Cripta Imperiale della Chiesa dei Cappuccini, mausoleo degli Asburgo, nonché abituale luogo di pellegrinaggio di qualche modenese incuriosito o nostalgico.

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sabato 3 gennaio 2015

I bambini nella Grande Guerra: efficace (e spregiudicato) strumento di propaganda

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 dicembre 2014)

Dal momento che la Prima guerra mondiale fu una «guerra totale», essa coinvolse anche l’intero mondo dell’infanzia, sul quale ebbe profonde ripercussioni. Il tema del coinvolgimento dei bambini nella catastrofe del conflitto del 1914-1918 si è affacciato solo di recente nella storiografia (tanto internazionale quanto italiana), ma è oramai diventato – si potrebbe dire – di stretta attualità soprattutto perché nell’uso propagandistico di una certa immagine dell’infanzia e nell’insieme delle strategie pedagogiche approntate dai vari governi per plasmare le giovani generazioni mentre erano in corso le ostilità sono stati individuati gli incunaboli di quella politica totalitaria che si sarebbe consolidata in molti paesi dopo la pace di Versailles. L’argomento, dunque, assume una certa rilevanza, se non altro in considerazione del fatto che molti storici sono ormai concordi nel considerarlo di vitale importanza per comprendere – nello specifico caso italiano – i processi che portarono al consolidamento di un regime, come quello fascista, che godette a lungo di un vasto consenso di massa.
Al riguardo, uno studioso particolarmente attento su questo tema è da anni Antonio Gibelli, specialista della Grande Guerra, autore di un pregevolissimo volume dall’eloquente titolo Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò (Einaudi 2005) e curatore della voce I bambini, facente parte del (fresco di stampa) Dizionario storico della Prima guerra mondiale (Laterza 2014), diretto da Nicola Labanca. Su quest’ultimo contributo, in particolare, ci si soffermerà in questa sede.
L’analisi di Gibelli parte da una considerazione fondamentale, ancorché ovvia: il numero dei bambini italiani che dovettero concretamente fare i conti con l’esperienza della guerra fu elevatissimo. Scrive infatti lo storico: «La guerra fu un’esperienza intensamente vissuta all’interno di famiglie di ogni ceto sociale. Le famiglie italiane censite nel 1911 erano circa 7.700.000 e gli uomini arruolati nell’Esercito poco meno di 6 milioni, sicché, supponendo arbitrariamente che il carico della mobilitazione si distribuisse in maniera uniforme, si può immaginare che in termini statistici 4/5 delle famiglie italiane avesse un reclutato tra i suoi membri». In concreto, ciò significava che pressoché ogni bambino della penisola ebbe un parente (il padre, un fratello, uno zio…) costretto ad abbandonare il proprio nucleo familiare per esigenze di guerra; e che, sempre secondo approssimazioni statistiche, le vedove, calcolando il loro numero nella percentuale di un terzo dei caduti, furono circa 200.000 (il che, contando due figli di media per coppia, voleva dire che 400.000 bambini rimasero orfani a causa del conflitto).
Le conseguenze di questa immane tragedia non furono però soltanto di natura affettiva e personale. La perdita (o anche solo il temporaneo allontanamento) di così tanti uomini sui fronti di guerra fu alla base di un autentico stravolgimento di abitudini consolidate che riguardavano, in particolar modo, l’ambiente di lavoro. Ovunque, nelle campagne, nelle officine, negli uffici, le donne rimpiazzarono gli uomini (per non parlare delle decine di migliaia di minori che furono impiegati nelle industrie dichiarate di interesse bellico), col risultato che furono sottratti tempo e risorse all’educazione dei figli, non di rado – tra l’altro – nati in assenza del padre. Ne conseguì – precisa Gibelli – che «la scuola dell’obbligo venne investita di nuovi compiti quali l’assistenza e la custodia dei figli dei richiamati e la promozione della mobilitazione patriottica dei più piccoli. La cura dell’infanzia venne così assunta per la prima volta come un compito e un dovere nazionale, perciò gli scolari furono organicamente inseriti nel processo di nazionalizzazione delle masse».
La mobilitazione dell’infanzia (chiamata a partecipare emotivamente, non meno che fattivamente, al conflitto) risulta evidente anche solo osservando alcune immagini della propaganda di guerra. Gibelli ne prende in esame due. La prima è tratta dalla copertina della rivista «Numero» del 29 luglio 1917 (significativamente, il periodo era quello dell’arruolamento dei ragazzi nati nel 1899): un’Italia in veste di mamma prosperosa nutre al seno i propri figli, i quali, dopo aver sorbito il latte, si incamminano indossando una divisa militare, diretti verso un simbolico confine identificato come «carsico pendio» (ovvero l’altopiano del Carso, teatro di ripetuti scontri tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico). Il disegno – il cui autore è il noto illustratore Augusto Majani – alludeva evidentemente alla giovane età dei richiamati, ma allo stesso tempo voleva indicare nella lotta armata un destino ineluttabile per il vasto mondo dell’infanzia maschile, come a dire che la guerra era una realtà, un dato di fatto, e bisognava pur combatterla con tutte le risorse umane disponibili.
La seconda immagine è una fotografia pubblicitaria delle officine Meccaniche Carminati di Voghera (risalente al 1916-1917), la quale – nota Gibelli – «presentava affiancati una “granata d’acciaio da 152”, affusolato e luccicante proiettile, e un bambino paffuto, candidamente vestito, il capo incoronato da lunghi riccioli biondi che lo facevano assomigliare a un angioletto, la mano sinistra appoggiata alla punta della granata, quasi a suggerirne il paragone con la figura umana. Umanizzazione dell’ordigno e assimilazione del bambino ai codici della distruzione sembrano andare di pari passo». In altre parole, viene meno il diaframma che, secondo logica, dovrebbe separare l’infanzia dal mondo degli adulti: e la ragione è che la guerra totale non conosce privilegi d’età.
All’origine di questa strumentalizzazione di una certa immagine dell’infanzia risiedeva l’evidente volontà di condizionare il mondo degli adulti, a partire dal presupposto che ogni cosa – persino i bambini – potesse fornire utili spunti per la propaganda nazionalista. Nello specifico, il principio della difesa e della protezione dei più giovani – ai quali, attraverso la vittoria militare, bisognava garantire un futuro – fu presentato come la più nobile (e ovvia) delle cause per le quali valesse la pena sacrificare la vita, una sorta di supremo deterrente pensato per scongiurare l’eventualità che sul patriottismo prevalesse l’egoismo. Non stupisce, pertanto, che la propaganda diffondesse immagini di bambini vittime di un nemico barbarico e incapace di umanità: l’infanzia, infatti, doveva apparire in costante pericolo per suscitare forti sentimenti di riprovazione, e niente doveva sembrare più terrificante di un esercito – quale quello austro-ungarico – pressoché completamente disumanizzato.
Nota al riguardo Gibelli: «I toni sono spesso cruenti e trucidi: gli infanti sono ghermiti da soldati che esibiscono un ghigno feroce, esposti alle violenze, abbandonati a se stessi accanto a madri anch’esse violentate e uccise. Le immagini veicolano un sentimento di pietà e un bisogno di protezione che devono sfociare in odio, desiderio di vendetta, impulso alla resistenza. Richiami primordiali, evocazioni di istinti primari di difesa, al cui centro si situano precisamente i più indifesi, ossia i bambini e le bambine, servono a creare i presupposti per l’accettazione del sacrificio prolungato e del lutto».
A fronte di questa crudezza nel presentare i potenziali tragici costi della guerra, occorreva però evitare di diffondere pericolosi allarmismi (giacché un nemico che non fosse altro che un mostro poteva risultare inquietante). Ed ecco allora che alla demonizzazione si accompagnò la ridicolizzazione dell’austriaco, spesso ritratto in pose goffe e impacciate. Si cercava, in sostanza, di edulcorare l’immagine del conflitto, e a tal fine, ancora una volta, tornarono utili i bambini, raffigurati in scene domestiche e rassicuranti accanto ai padri soldati in permesso, in un contesto nel quale la guerra veniva indirettamente “sdrammatizzata”come un dato di fatto universalmente accettato.
Ma i minori non furono soltanto soggetti passivi e strumentali della propaganda. Al contrario, essi presto divennero destinatari di messaggi affidati alla penna di scrittori per l’infanzia (si pensi a Luigi Bertelli, detto Vamba, e al suo «Giornalino della Domenica», ma anche a un classico come Cuore di De Amicis), alla scuola, a periodici quali il «Corriere dei piccoli» e persino al mondo dei giocattoli, cui era affidato il compito di “addomesticare” il conflitto attraverso la riproduzione, banalizzata, degli armamenti e delle attrezzature militari. In tempo di guerra la parola d’ordine rivolta a tutti i ragazzi divenne quella della parsimonia (per evitare gli sprechi), dell’obbedienza agli adulti (metafora del rispetto delle gerarchie nell’esercito), della disponibilità a fare piccoli sacrifici quotidiani (per esempio non consumare le suole delle scarpe giocando alla corda o utilizzare stoffa per vestire le bambole). Al contempo, accanto a moniti e raccomandazioni – pensati per suscitare una sorta di inconscio e indiretto senso di colpa –, si proponevano modelli eroici da seguire, tutti incentrati sul valore militare e sull’altruismo, sull’esempio di personaggi quali la piccola vedetta lombarda o il tamburino sardo.
In sostanza, conclude Gibelli, «si può dire che il mondo dell’infanzia, abbattuto lo steccato che nella tradizione ottocentesca lo voleva separato da quello adulto e protetto dai suoi conflitti, venne invece direttamente interpellato e coinvolto a fare la sua parte, come soggetto sociale autonomo, dotato di sue responsabilità, secondo i principi della guerra totale, che non poteva trascurare alcuna energia né ammettere alcuna defezione». In nuce, erano già quindi ben presenti i cardini della successiva politica fascista, che avrebbe fatto della giovinezza (si pensi tra l’altro al celebre inno del partito) un vero e proprio mito nazionale.

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«Italiane in tempo di guerra»: l’inedito (e sconcertante) attivismo delle donne durante il primo conflitto mondiale

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 dicembre 2014)

È opinione piuttosto diffusa che la Grande Guerra abbia aperto le porte dell’emancipazione all’universo femminile italiano, ma va detto che in sede di analisi storiografica questa immagine del primo conflitto mondiale è andata progressivamente sbiadendosi. Se però parlare di autentica emancipazione pare, in effetti, una forzatura, è pur sempre lecito attribuire alla Grande Guerra un ruolo decisivo nel favorire un certo protagonismo femminile sulla scena politico-sociale del paese. Scrive al riguardo Beatrice Pisa, autrice del breve saggio Italiane in tempo di guerra (facente parte della miscellanea ‒ a cura di Daniele Menozzi, Giovanna Procacci e Simonetta Soldani ‒ dal titolo Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), Edizioni Unicopli 2010): «Molta impressione desta la presenza di donne nelle officine di guerra, alla guida di tram, nelle campagne, nonché nelle vesti di postine, telegrafiste, tagliaboschi, mentre la capacità femminile di fare fronte alle nuove responsabilità all’interno delle famiglie prive di presenze maschili desta ammirazione, stupore, ma anche allarme e preoccupazione».
Già prima dello scoppio del conflitto, in particolare a Milano e a Roma, alcuni gruppi di donne facenti capo al cosiddetto associazionismo assistenziale si organizzano per far fronte all’eventualità di una guerra che pare imminente. In breve, in vari centri sorgono comitati finalizzati alle gestione dei soccorsi e del lavoro da compiere in sostituzione degli uomini, partiti per il fronte, mentre – più la guerra appare probabile – inizia a diffondersi un sincero sentimento patriottico. Il fenomeno della crescente partecipazione femminile alla vita della comunità interessa in maniera più vivace il Nord e il Centro, mentre è tardivo ed episodico nelle aree meridionali della penisola, dove ben più radicati sono pregiudizi e proibizioni.
Scoppiata la guerra – sottolinea la Pisa –, le iniziative si moltiplicano: «Si riutilizzano rifiuti, si riorganizzano avanzi: si rabbercia, si ricicla, si riutilizza tutto, dai vestiti vecchi, ai brandelli di tappeti, alle stuoie [...]. Ogni cosa serve a confezionare capi per il freddo [...]. Sono le donne che per prime propongono e organizzano posti di ristoro alle stazioni, assistenza agli emigranti e ai profughi che affluiscono subito in grande quantità nel Paese».
Non sempre, però, le reazioni dell’opinione pubblica sono positive, più che altro perché il fenomeno è troppo nuovo per non suscitare sconcerto nella società dell’epoca. Sotto accusa finisce quello che prontamente viene giudicato un attivismo eccessivo del mondo femminile, che rischia – in parole povere – di far uscire troppo spesso di casa la donna, con conseguente abbandono delle pratiche domestiche e familiari. Nemmeno le impiegate nel ramo assistenziale riescono a schivare i giudizi malevoli di chi ritiene che esse facciano un uso strumentale della guerra allo scopo di mettersi in mostra, con evidenti secondi fini (su tutti, quello di voler avvantaggiarsi nella battaglia per la parità dei sessi). Quanto poi ai numerosi comitati sorti in tutta la penisola, va detto che essi presto si convincono di rappresentare – per quanto attiene alle politiche sociali – le forze più moderne e avanzate della nazione, spingendosi fino a criticare apertamente l’operato del governo riguardo a temi delicati quali la gestione dell’emergenza-profughi e l’interessamento verso i prigionieri italiani. Il che, va da sé, certo non facilita l’accettazione del nuovo protagonismo femminile.
La nascita delle associazioni favorisce inoltre l’elaborazione di proposte e rivendicazioni politiche, in parte solo abbozzate e destinate ad essere riprese nel dopoguerra, in parte invece chiaramente studiate per incidere sul presente. Tra queste, quella più significativa è sicuramente la battaglia interventista, che per prime vede coinvolte alcune donne della capitale, riunite – a partire dal 20 dicembre 1914 – in un Comitato nazionale femminile per l’intervento e aventi come punto di riferimento la rivista «Unità italiana», di stampo mazziniano. Il gruppo resta compatto fino all’ingresso dell’Italia in guerra, poi si spacca a causa dell’estremismo di alcune suffragiste, che fondano una seconda rivista («L’Unità d’Italia») e assumono una marcata connotazione ideologica antitedesca, dal sapore neanche troppo velatamente razzista.
L’aspetto più interessante di questa esperienza è il legame tra interventismo e suffragismo, intesi quasi come le due facce di una stessa medaglia. Scrive infatti la Pisa: «Scegliendo di definirsi interventiste proprio in quanto femministe, in quanto donne che fanno politica, queste attiviste spezzano il legame tradizionale fra pacifismo e suffragismo e avanzano dure critiche verso quelle che si dichiarano contrarie alla guerra. Esse condannano il vago umanitarismo che confonde assalitori e assaliti che, notano, finisce per essere una dimostrazione di ‘inettitudine’ politica capace di squalificare per lunghissimi anni le donne come amministratrici della cosa pubblica. Il suffragismo italiano, ormai interventista e antitedesco per la sua quasi totalità, reputa coerente con il suo taglio altamente politico non dimenticare la dimensione rivendicazionista femminista».
Al di là dell’associazionismo, anche le esponenti più colte dell’universo femminile partecipano al dramma emotivo della Grande Guerra, influenzate da un nazionalismo che con gli anni si fa sempre più contagioso. Molto attive sono per esempio le maestre (che si dedicano alacremente alla propaganda patriottica), numerose donne appartenenti alla categoria delle intellettuali (saggiste, poetesse, romanziere, giornaliste, le quali spesso si servono delle loro riviste per sostenere il paese in guerra) e persino alcune socialiste (si pensi ad Anna Kuliscioff e Margherita Sarfatti), che finiscono per abbandonare il neutralismo del «né aderire, né sabotare».
Con tutta evidenza, si tratta di un protagonismo inedito e sconvolgente per l’arretrata società italiana dell’epoca, certo non abituata e non sempre disposta ad accettare un mondo nel quale le donne si occupano di politica e svolgono mansioni tradizionalmente maschili. Assai più che negli altri paesi, infatti, gli industriali italiani sono riluttanti ad assumere manodopera femminile, tanto che nel 1918, al momento del massimo sforzo per la produzione bellica, le donne nelle fabbriche non superano le 200.000 unità (a fronte delle 600.000 che lavorano a domicilio). E poco importa, al riguardo, che la propaganda si sforzi di dipingere l’impiego femminile come prova suprema di coesione nazionale: una classe operaia composta anche di donne è per molti inquietante, al punto che rapidamente si diffondono vivaci polemiche sulle «operaie dalle calze di seta» e sulle impiegate che indossano abiti provocanti.
Di fatto, le donne si fanno notare un po’ dappertutto. Nelle campagne (dove suppliscono come possono alla carenza di forza lavoro e si segnalano per la partecipazione a dimostrazioni contro il caro vita), nel vasto settore della produzione del vestiario militare (supportato dalla moltiplicazione dei corsi di cucito), nelle industrie di guerra (al riguardo – sottolinea la Pisa – l’immagine «di mani femminili che toccano e producono strumenti di morte fa molta impressione»), negli uffici: ovunque si registra un’impennata della presenza femminile. Tra i diversi ambiti di lavoro, il settore impiegatizio sarebbe quello in grado di offrire, potenzialmente, le migliori prospettive di emancipazione. Ma l’occasione, nota la Pisa, viene sostanzialmente persa: «Poche si impegnano contro la mentalità diffusa che vede le impiegate negli uffici solo come delle sostitute per il tempo di guerra, delle ‘donne surrogato’ che, a parità di lavoro e di orario, prendono uno stipendio nettamente inferiore a quello maschile, con la scusa che esso serve solo per “spese superflue di vanità personale”».
Eppure, al di là di queste considerazioni, va precisato che le donne che si associano in tempo di guerra sono consapevoli che il conflitto rappresenta una preziosa opportunità. A prescindere da alcune frange che subiscono l’attrazione del nazionalismo più estremo, buona parte del mondo femminile si astiene da ogni valutazione critica sulle cause della guerra, avendo come obiettivo quello di sfruttare l’occasione che si presenta per dare un contributo nella società e far sentire la propria presenza in senso patriottico. Prevale cioè, specialmente nelle prime fasi del conflitto, la logica ‘del fare’, non scevra peraltro di un certo nazionalismo destinato a farsi sempre più intenso negli ultimi anni di guerra. In sostanza, più il conflitto diviene aspro, più l’universo femminile perde di vista le ragioni profonde che erano state alla base del primo associazionismo, finendo per assecondare una certa logica secondo la quale, in nome del comune sforzo bellico, l’inedito protagonismo sociale delle donne non è altro che una temporanea necessità contingente. Come infatti sottolinea la Pisa, «nel momento in cui le donne, per sostenere il Paese durante lo sforzo bellico, si concentrano sull’esaltazione dell’eroismo, della morte in battaglia e partecipano alla lacerante lotta contro il nemico interno, allora esse stesse finiscono per tradire e cancellare la dimensione civile e quella femminile». Il che «sembra dare ragione a quella parte della storiografia che ha concluso che le vicende belliche rinverdiscono il mito della donna salvifica e consolatrice, da una parte, e dell’uomo guerriero dall’altra, molto più di quanto non offrano possibilità di realizzazione personale alle donne e di affermazione come genere».

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