lunedì 22 dicembre 2014

Il mito di Mussolini: l’apogeo e il crollo

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 dicembre 2014)

Il fascismo al potere consolidò una versione rinforzata del mito del duce, facendo leva su nuove componenti, ma anche su quegli elementi che erano stati definiti da un certo immaginario collettivo durante la militanza socialista di Mussolini (idolatrato quale simbolo e incarnazione dell’ideale rivoluzionario) e nel corso della successiva fase post-interventista (quando ad essere coinvolte erano state soprattutto alcune frange di intellettuali, che avevano riconosciuto nel figlio del fabbro di Predappio l’uomo nuovo capace di assumere il ruolo di rinnovatore nazionale contro il vecchio e parassitario sistema politico giolittiano).
Volendo riassumere le principali caratteristiche che connotarono il mito mussoliniano negli anni del regime, potrebbe essere sufficiente asserire che il duce, senz’altro fino al 1940, fu considerato essenzialmente un capo carismatico, un leader infallibile e un’intelligenza superiore. Gli italiani infatti furono così presi dal culto di Mussolini che spesso confondevano questo con il fascismo vero e proprio, tanto che le forme di malcontento che trapelavano durante il Ventennio erano spesso rivolte contro i gerarchi e gli apparati di regime, mai contro il duce. Come scrisse un informatore della PS da Firenze nel 1939, «il partito mussoliniano costituisce l’autentica maggioranza in Italia e si può ben dire che per quanto il Duce stesso persista a parlare di Fascismo, l’italiano continua a comprendere sotto questa denominazione soltanto ed esclusivamente “Mussolini”. Per la stragrande maggioranza, un Fascismo senza Mussolini è incomprensibile, mentre sarebbe magari comprensibile un Mussolini senza Fascismo».
Una componente decisiva nel determinare la popolarità del mito mussoliniano fu senza dubbio il successo (reale o presunto poco importa) che accompagnò la politica fascista fino all’entrata in guerra. «Avvenimenti come la Conciliazione – sottolinea al riguardo Emilio Gentile nel suo Fascismo. Storia e interpretazione –, l’illusione che il regime fascista avesse posto riparo a mali ben più gravi della dittatura, la convinzione ingenua che Mussolini sapesse dove andare e dove guidare il paese, un certo orgoglio patriottico che si infiammò soprattutto all’epoca della guerra d’Etiopia, l’immagine di un duce moderato e saggio, salvatore della pace all’epoca di Monaco, furono alcuni fattori che consentirono al mito mussoliniano di crescere». In altre parole, che fosse per i risultati concreti che conseguì, o per l’efficacia di una propaganda che andò sempre meglio strutturandosi nel corso degli anni, Mussolini pareva una sorta di novello re Mida capace di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Il che giustificava, da parte di un intero popolo, la scelta (che in realtà per molti scelta non era…) di rinunciare a una porzione consistente della propria libertà, in cambio della garanzia di avere un uomo pressoché infallibile al governo.
Specialmente nel corso degli anni Trenta, Mussolini divenne oggetto di un vero e proprio culto religioso. Le giovani generazioni, in particolare, lo idolatravano, plagiate da una propaganda che riuscì nell’impresa di elevare il duce su un piedistallo di fiducia incondizionata. Paradossalmente, persino le critiche rivolte di volta in volta al regime risparmiavano Mussolini, giacché egli per sua stessa natura era incarnazione di un ideale di giustizia capace di prevalere finanche sui mali inflitti dal fascismo. Il duce, in definitiva, era il supremo protettore degli interessi del popolo, di un popolo che, come si evince dalle parole scritte nel 1934 da un giovane fascista, era disposto a divinizzarlo: «Tu sei il nostro padre, Tu ci insegni a vivere, Tu sei la stella che illumina il nostro cammino. Tu ci insegni a lavorare, a combattere, a morire con orgoglio e soddisfazione; finché tu vivrai non avremo paura di nessuno. Tutti dovranno piegarsi alla Tua volontà. Tu non hai mai sbagliato. Tu hai sempre ragione».
Ma il mito di Mussolini non fu solo questo. Se infatti per la gente comune il duce era come un grande padre della patria, per i fascisti egli era prima di tutto il capo di un movimento politico, il fondatore di un partito, di un regime e di un’idea. A differenza di quella popolare, questa versione del mito tardò ad affermarsi: per molti fascisti della prima ora, infatti, almeno fino al 1921 il vero duce fu D’Annunzio, l’eroico poeta armato cui si doveva in gran parte la scelta interventista del 1915. Mussolini era sì rispettato e stimato, ma la sua leadership non venne immediatamente (e universalmente) riconosciuta, soprattutto dagli esponenti più in vista dello squadrismo. In concreto, furono proprio le spaccature e le divisioni interne al movimento fascista a favorire l’ascesa di Mussolini e del suo mito, il quale veniva esaltato quale unico punto di riferimento capace di mettere tutti d’accordo. «Nello scontro delle correnti – rileva Gentile –, tutti finivano per fare appello a Mussolini [...]. Il mito del ‘duce’ si affermò come risultante dello scontro. Anche negli anni del regime, il mussolinismo poté giovarsi delle rivalità politiche o personali fra i gerarchi: il ‘duce’ aveva il ruolo supremo del mediatore e del giudice, era l’unica fonte dell’autorità».
Solo dopo avere superato le iniziali contestazioni il mito del duce si affermò e si impose universalmente. Il principale fondatore del culto fu Augusto Turati (segretario del PNF dal 1926 al 1930), il quale per primo pianificò la progressiva divinizzazione di Mussolini, inteso quale «solo pilota cui nessuna ciurma può sostituirsi». Passo dopo passo, emerse quella che potrebbe definirsi la “necessità” del duce, imprescindibile simbolo di coesione di un movimento altrimenti frammentato e insostituibile garante dei supremi interessi della nazione. In altre parole, Mussolini divenne in tutto e per tutto il capo, e il suo mito si connotò sempre più come indispensabile strumento pedagogico per alimentare la fede nella religione fascista. Concetto, quest’ultimo, che è bene espresso da queste parole estratte dal Breviario dell’Avanguardista del 1928: «Tu non sei, Avanguardista, se non perché prima di te, con te e dopo di te, Egli e soltanto Egli è».
Emilio Gentile sottolinea che negli anni del consenso al regime il mito del duce si dilatò a tal punto che «il numero degli attributi conferiti a Mussolini fu probabilmente superiore a quello degli attributi conferiti ad altri ‘grandi uomini’ in ogni epoca: egli era la somma e la sintesi d’ogni tipo di ‘grandezza’ [...]; egli era anche nella schiera dei profeti, novello Cristo, “delegato di Dio”, punto di congiunzione fra il divino e l’umano». Anche tra i gerarchi, abbandonate le incomprensioni del primo fascismo, il culto di Mussolini divenne un’autentica ossessione, a prescindere dall’opportunismo che inevitabilmente fu alla base di molte manifestazioni di piaggeria. In molti scritti privati, non destinati quindi direttamente al duce o al pubblico, Mussolini appare a tutti gli effetti una personalità straordinaria, un uomo dal carisma irresistibile, addirittura – come scrisse Giovanni Giuriati, che fu segretario del PNF nel biennio 1930-31 – «il ‘Veltro’ vaticinato da Dante».
Anche quando la guerra minò le basi del suo mito e della sua credibilità, Mussolini continuò ad ossessionare molti italiani che in lui avevano riconosciuto una ragione di vita. Scrisse per esempio Giuseppe Bottai nel 1941: «Qualche cosa, che più di vent’anni mi batteva nel cuore s’arresta di colpo: un Amore, una fedeltà, una dedizione. Ora, sono solo, senza il mio Capo [...]. Un Capo è tutto nella vita d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo; se cade, dentro si fa una solitudine atroce». Parole, queste del ministro dell’Educazione nazionale, che testimoniano della profonda crisi di un uomo che, nelle drammatiche difficoltà di un conflitto che stava sbriciolando ogni certezza, vedeva crollare molto più di un mito, ovvero il senso stesso di un’intera esistenza.
Lo stesso Mussolini, giunto all’acme della propria parabola politica, divenne prigioniero del suo stesso mito. «Egli – nota Gentile – si immedesimò con il proprio mito, facendo di sé un’astrazione, e anche fisicamente si atteggiò a immagine di una figura sovrumana nella banalità del presente, dove individui e popoli potevano solo ammirare la sua ‘grandezza’ ma non potevano percepire la dimensione della sua impenetrabile natura». Il risultato di questa iperplasia del culto di sé fu l’attribuzione ai soli italiani (indegni e mediocri) della responsabilità di avere portato il paese alla sconfitta militare: «È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista».
Mussolini, in altre parole, si credeva investito della missione di guidare il popolo italiano, ma era animato da un profondo disprezzo verso gli uomini a sua disposizione, del tutto inadeguati – così credeva – rispetto alla grandezza della sua persona. La frustrazione che lo assillò negli ultimi anni, la convinzione, cioè, che agli italiani mancassero le qualità eroiche necessarie a vincere un epocale scontro di civiltà, fu per il duce stesso le vera sentenza di morte del suo mito. Venuto meno il successo (ingrediente fondamentale di ogni costruzione propagandistica), Mussolini tornò ad essere semplicemente un uomo.

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Francesco III d’Este: il duca riformatore che fece di Modena una moderna capitale europea

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 dicembre 2014)

Figlio del duca Rinaldo, e quindi nipote del grande Francesco I, Francesco III d’Este nacque a Modena il 2 luglio 1698, in una corte cui l’austero genitore, in linea con il suo passato di cardinale, aveva voluto dare un’impronta di severo bigottismo. Marina Romanello (autrice della voce su Francesco III del Dizionario Biografico degli Italiani) lo descrive «ombroso, fisicamente sgraziato, votato a suscitare antipatia per i modi altezzosi che mascheravano in realtà una timidezza patologica»; e in effetti Francesco crebbe in un ambiente che percepiva ostile, quasi soffocante, per lo più a causa dei contrasti con il padre, che non nascondeva a nessuno la propria preferenza per il secondogenito Gianfederico.
A questa complicata situazione familiare e personale finì altresì per aggiungersi la burrascosa unione con Carlotta Aglae, quarta figlia di Filippo d’Orleans, voluta (non senza una certa dose di ingenuità) da Rinaldo per trovare nella Francia un prezioso alleato in grado di appoggiare le mire estensi su Parma e la Toscana. Il matrimonio, celebrato per procura nel palazzo delle Tuileries il 12 febbraio 1720, fu un totale fallimento, ma nondimeno portò alla nascita di una numerosa prole e, nel 1727, dell’erede nonché futuro duca Ercole III. Le intemperanze di Carlotta – che a Modena si sentiva soffocare, abituata com’era alla mondanità parigina – erano però così frequenti ed assurde da rendere pressoché impossibile una pacifica convivenza tra i coniugi, al punto che – scrive Luciano Chiappini – «se ne videro di tutti i colori: tentativi di intimidire ed umiliare il consorte o addirittura di trovare pretesti per un annullamento del vincolo matrimoniale causa un’ipotetica impotenza di lui; disegni di fuga dalla Corte; capricci di ogni sorta; imposizione di tutte le proprie pretese, cui corrispondevano altrettante vittorie della sua volontà contro la debolezza del marito».
Eppure, a dispetto di tutte queste premesse, il figlio di Rinaldo fu tutt’altro che inetto o incapace. Carlo Previdi, nel suo (fresco di stampa) Francesco III d’Este (Modena, 1698 - Varese, 1780). Successi, errori, glorie, scandali ed altre vicende nella vita di un sovrano, grande riformista europeo (Edizioni Il Fiorino, 2014), lo presenta infatti come un duca dal carattere problematico, ma scrupoloso – forte degli insegnamenti ricevuti dal precettore Lodovico Antonio Muratori – nell’amministrazione dei suoi domini. Di certo non irreprensibile quanto a condotta morale (era a tutti gli effetti un accanito donnaiolo), Francesco fu un abile e saggio riformatore, capace, tra l’altro, di dotare Modena di un moderno codice di leggi e di efficienti infrastrutture. 
La prima vera occasione per emanciparsi dall’opprimente tutela del padre (che pure, sperando di riconciliarsi con l’erede, su richiesta di quest’ultimo aveva acconsentito all’edificazione della maestosa villa di Rivalta, presso Reggio, assecondando le puntigliose direttive della nuora, decisa a replicare addirittura il modello di Versailles) si presentò per Francesco con la guerra di successione polacca. In quella circostanza, egli non seguì la corte nell’esilio di Bologna (dopo che Modena era stata occupata dai francesi), ma preferì recarsi con la moglie a Genova, da dove successivamente partì per una lunga serie di soggiorni in diverse capitali europee. Giunto a Vienna, si arruolò sotto le bandiere imperiali, combattendo con onore contro i turchi in Ungheria e guadagnandosi la nomina a generale d’artiglieria. Dopo il congedo e mentre faceva ritorno in Italia, Francesco fu raggiunto dalla notizia della morte del duca Rinaldo (sopraggiunta nell’ottobre del 1737): affrettò pertanto la sua marcia verso Modena (dove entrò solennemente il 4 dicembre), mentre Carlotta, che aveva approfittato dell’assenza del marito per soggiornare nell’amata Parigi, ne seguì l’esempio solamente un anno e mezzo dopo.
Come precisa Luigi Amorth, il «Francesco divenuto sovrano è indubbiamente diverso dal Francesco che abbiamo conosciuto come principe», anche se mai venne meno in lui il gusto per il divertimento, l’amore del lusso (da poco alla guida del suo Stato, Francesco abbellì il giardino ducale – che fu aperto al pubblico – e provvide ad arredare sontuosamente gli appartamenti ducali e il palazzo di Sassuolo) e la passione per la vita mondana. I suoi primi passi come duca furono ad ogni modo incoraggianti. In particolare, molto vantaggioso per il ducato risultò il matrimonio (celebrato nel 1741) tra il figlio quattordicenne Ercole e Maria Teresa Cybo Malaspina, erede del ducato di Massa e Carrara, che in tal modo, con il suo prezioso sbocco sul Tirreno, entrò a far parte dei domini estensi. L’unione, per via dell’assoluta mancanza di affinità tra i coniugi, si sarebbe rivelata nel tempo un completo fallimento, ma costituì quantomeno un’abile mossa politica.
Le difficoltà, tuttavia, incombevano sul ducato estense per le annose e spinose questioni di politica estera. Morto Carlo VI d’Asburgo, nel 1740 scoppiò la guerra di successione austriaca, e Francesco – precisa Chiappini – «ritenne di prendere posizione a favore di quel belligerante che più gli accordasse protezione e compensi». Forte di un esercito i cui effettivi erano stati appositamente accresciuti fino alle 5.000 unità, il duca decise di schierarsi, in gran segreto, con la Spagna; ma il ritardo di questa nel giungere in suo soccorso, l’avanzata minacciosa degli austro-piemontesi e infine la sciagurata intercettazione di una lettera compromettente da parte degli imperiali lo costrinsero a venire a patti con il nemico, che pretese una formale dichiarazione di neutralità e la cessione in garanzia delle piazzeforti. Francesco non volle cedere, ma preferì rifugiarsi nella sua villa del Cataio, presso Padova, mentre gli austro-piemontesi occupavano Modena e Mirandola.
Dall’esilio il duca tentò di gestire diplomaticamente (e non senza una certa ambiguità) l’emergenza, ma fu messo alle strette e costretto a giocare a carte scoperte, proclamando la propria fedeltà al re di Spagna e dichiarandosi disposto ad accettare qualunque incarico, compreso quello di soldato semplice. Di fatto pubblicamente umiliato (si tenga peraltro conto che in quegli anni, precisamente nel 1745, il duca dovette anche far fronte ad una situazione finanziaria fattasi allarmante, risolvendosi a malincuore a vendere al re di Polonia ed elettore di Sassonia Federico Augusto III ben cento pregiati dipinti della sua prestigiosa Galleria), Francesco fu comunque nominato capitano generale dell’esercito in Lombardia (con l’intesa, però, che, dopo essersi congiunto con le armate dell’infante don Filippo, si sarebbe posto in sottordine rispetto a quest’ultimo), distinguendosi durante le fasi conclusive del conflitto e in particolare nel corso dell’assedio di Ventimiglia nel 1747.
Con la pace di Aquisgrana (1748) Francesco III rientrò in pieno possesso del proprio ducato, e subito diede prova di intraprendenza rinforzando l’esercito, proseguendo nella costruzione della strada per Massa (il cui progetto iniziale risaliva al decennio precedente) e pianificando la realizzazione, in quella stessa città, di un porto che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto permettere in futuro lo sbarco delle truppe francesi in funzione antiaustriaca. La vera spina nel fianco, tuttavia, era rappresentata come sempre dai rapporti internazionali, i quali, a causa della goffaggine mostrata dal duca estense in politica estera, si erano di fatto deteriorati un po’ con tutte le grandi potenze. Per trarsi d’impaccio, Francesco ricorse ancora una volta alla strategia degli accordi matrimoniali, offrendo in sposa la figlia del suo erede Ercole (la giovanissima Maria Beatrice) a Ferdinando d’Asburgo, figlio della potente imperatrice d’Austria Maria Teresa. Si trattò di una scelta pressoché obbligata, giacché Ercole, l’unico figlio maschio in vita, a sua volta non aveva eredi maschi, ed era in così cattivi rapporti con la moglie da non consentire al duca di fare affidamento su eventuali future nascite.
La richiesta fu accolta con favore (anche perché in questo modo l’Austria estendeva il proprio controllo sulla penisola): il che assicurò al ducato una, seppure sui generis, successione (Francesco, infatti, riuscì ad ottenere la ratifica di un accordo in base al quale alla morte di Ercole, ultimo della dinastia, il ducato sarebbe passato nelle mani di Ferdinando e dei suoi eredi, a patto che questi assumesse il cognome d’Este, accettasse di risiedere a Modena e garantisse di tenere lo Stato estense separato dall’Austria) e, in attesa che Ferdinando raggiungesse la maggiore età, valse a Francesco il comando delle truppe imperiali in Italia e la nomina a governatore generale della Lombardia.
Raggiunta Milano nel 1753, nondimeno Francesco non trascurò il governo del suo ducato, che anzi in questo periodo beneficiò dei frutti dell’acuto riformismo del sovrano estense. Al riguardo, iniziative quali l’erezione dell’ospedale di piazza Sant’Agostino e del Grande Albergo dei Poveri (attuale Palazzo dei Musei), l’allargamento della via Emilia, la realizzazione della via Giardini per collegare la capitale con la Toscana, la riforma dell’Università, la regolamentazione delle pratiche di sepoltura e la parallela costruzione del cimitero di San Cataldo, l’apertura al pubblico della prestigiosa Biblioteca Estense e soprattutto l’emanazione nel 1771 di un nuovo e più moderno codice di leggi (il celebre Codice Estense) testimoniano dell’impegno profuso per fare di Modena una capitale al passo con i tempi.
Anche dopo la cessione del governo della Lombardia a Ferdinando, Francesco si mantenne lontano dai suoi possedimenti ereditari, preferendo soggiornare a Milano o nell’elegante residenza di Varese (città di cui era signore dal 1765 per volontà di Maria Teresa). Trascorse gli ultimi anni conducendo una vita spensierata, dedita ai consueti piaceri (tra l’altro, rimasto vedovo nel 1761, si risposò due volte morganaticamente) e agli amati sollazzi. A Varese, morì il 27 aprile 1780.

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lunedì 15 dicembre 2014

Il mito di Mussolini: dalle origini all’avvento del fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 dicembre 2014)

Il mito di Mussolini costituì una componente essenziale del fascismo, al punto che per molti italiani che vissero nel Ventennio esso rappresentava la vera e propria essenza del regime. Senza dubbio, Mussolini incarnò la figura esemplare del capo carismatico, del leader dominatore delle masse, del duce capace di guidare alla vittoria un intero popolo, e, innegabilmente, per queste sue caratteristiche fu sostenuto con ammirazione ed entusiasmo dai suoi seguaci. Ma come nacque e si consolidò questo mito?
Secondo alcune diffuse interpretazioni, il culto di Mussolini fu una spiacevole conseguenza dello scarso senso civico degli italiani (Piero Gobetti nel 1924 scrisse che il mussolinismo altro non era che un’ennesima prova dell’animo cortigiano degli abitanti della penisola) e/o il risultato di un’efficace e martellante azione propagandistica coordinata dal regime. Si tratta di considerazioni che contengono elementi di verità, ma che non sono sufficienti a spiegare in modo esauriente un fenomeno che, ben lungi dal costituire una peculiarità italiana, si connota inevitabilmente come l’esito di una consolidata tradizione politico-culturale. A partire infatti dalla metà del XIX secolo, si diffuse in tutta Europa il culto romantico del genio, e con esso la convinzione che la crescente partecipazione delle masse alla vita pubblica avrebbe creato i presupposti per l’ascesa di grandi uomini capaci di interpretare e manipolare a proprio vantaggio i sentimenti delle folle. Forte era, in particolare, il senso di smarrimento provocato da una modernità al contempo suadente e minacciosa, e, in assoluto, il timore che la civiltà occidentale potesse abbandonare valori e tradizioni secolari senza trovare, al loro posto, un’altrettanto valida ragione di vita. Specialmente per i ceti colti, la nascente società di massa rischiava pertanto di farsi portatrice di mediocrità a più livelli, a partire ovviamente da quello, assai delicato, della politica. In sostanza, come sottolinea Emilio Gentile (che al mito di Mussolini ha dedicato un lungo capitolo del suo Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza 2002), nell’Europa di inizio Novecento «molti giovani auspicavano, dall’avvento di uomini nuovi, la trasformazione della società per superare la mediocrità della società borghese, per combattere la banalità della democrazia liberale e preparare la nascita di un ordine nuovo».
La prima, fondamentale ragione del successo del mito di Mussolini risiede perciò nella diffusa convinzione che il duce rappresentasse un perfetto esempio di genio, incarnazione di un superuomo cui era non solo lecito, ma estremamente vantaggioso affidare il ruolo di guida della nazione. Ma in che modo si formò e come si evolse il mussolinismo?
 Innanzitutto è bene precisare che il mito di Mussolini ebbe varie espressioni, diverse tra loro ma tutte incentrate sul fascino carismatico del leader. La prima forma di culto della personalità del duce nacque in ambiente socialista, precisamente all’indomani del congresso nazionale del PSI di Reggio Emilia, tenutosi nel 1912. In quell’occasione Mussolini affascinò i delegati del partito con la sua oratoria aggressiva e scintillante, tanto da apparire, specie ai più giovani, come l’incarnazione dell’ideale rivoluzionario. Ma, ovviamente, il fascino si sarebbe presto esaurito se ad accompagnarlo non fosse giunto il successo: il che puntualmente avvenne con l’assunzione da parte del futuro duce della direzione dell’«Avanti!» (che con Mussolini aumentò sensibilmente la diffusione) e con il parallelo incremento del numero degli iscritti e delle sezioni.
La scelta dell’interventismo e la fondazione del «Popolo d’Italia» segnarono però il crollo del mussolinismo socialista. E fu un crollo totale, come rileva Gentile: «Il mito del rivoluzionario intransigente, apostolo dell’idea, milite integerrimo e capo fedele, fu sostituito da una sorta di contromito del politicamente opportunista, ambizioso per interesse, egocentrico, senza idee e ideali, corrotto dal desiderio di potere». Divenuto traditore della causa, Mussolini venne di fatto espulso dal pantheon dei miti socialisti, a riprova del fatto che «il prestigio di un mito dura solo se corrisponde e non entra in contrasto con le convinzioni e i valori propri del pubblico al quale si rivolge e che lo sostiene con la sua fiducia».
Mentre però veniva espulso dal PSI, Mussolini riuscì a impressionare alcuni intellettuali, specialmente quelli che facevano capo alla rivista «La Voce» e che propugnavano una riforma prima di tutto morale degli italiani, a loro dire corrotti da una democrazia liberale guidata da uomini fiacchi e inetti. Venne così a crearsi una seconda versione del mito, che richiamava alcuni attributi della prima (sincerità, fede, carattere) con l’aggiunta, però, di una componente fondamentale: l’idea che Mussolini costituisse il perfetto esempio di uomo nuovo. Egli era cioè – come scrisse Prezzolini – una figura capace di risaltare «in un mondo di mezze figure e di coscienze sfilacciate come elastici che han troppo servito»; era un rivoluzionario intransigente, disposto a pagare di persona (con l’espulsione dal partito socialista) pur di difendere i propri ideali; e, soprattutto, incarnava l’antigiolittismo, ovvero – nota Gentile – era «un simbolo di vitalità opposto a un simbolo di senescenza, un giovane di fede contro un vecchio scettico e cinico, un uomo “carico di avvenimenti” e che aveva in sé “tanta parte dei futuri destini d’Italia”, contro il vecchio burocrate assurto a simbolo di tutti i mali del passato che le nuove generazioni volevano eliminare».
Mussolini, in sostanza, divenne il campione di un’opposizione radicale al governo e al parlamentarismo, un mito in particolare per le giovani generazioni che sentivano il forte bisogno di attuare una riforma intellettuale e morale del popolo italiano. «In lui – scrisse Carlo Carrà nel novembre del 1914 – vi è il dramma di tutta la nostra generazione»: dramma da intendersi come crisi di valori, ma anche come volontà, frustrata, di nobilitare l’esistenza col sacrificio e con la dedizione a una causa. Mussolini, in altre parole, sembrò rappresentare l’archetipo del rinnovatore nazionale, e in tal senso il suo mito trasse giovamento dalla scelta interventista, dal momento che tutti gli antigiolittiani (i vociani, i sindacalisti rivoluzionari, i nazionalisti, i futuristi) erano per la guerra. Essi esultarono quando Mussolini abbandonò il PSI, e subito riconobbero in lui l’uomo nuovo, tanto che alcuni vociani entusiasti gli telegrafarono: «Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie».
Con tutta evidenza, in questa fase del suo sviluppo il mito di Mussolini intendeva esaltare prevalentemente le qualità morali del futuro duce, alle quali però si aggiungeva un elemento decisivo: la cultura. Si trattava, infatti, di un fattore di non poco conto, fondamentale motivo di raccordo tra il Mussolini socialista rivoluzionario e il Mussolini apprezzato dalle avanguardie e dagli intellettuali. Questi ultimi, in particolare, come ha sottolineato Gentile, «accreditarono il mito mussoliniano dell’uomo nuovo che non era solo un politico notevole ma anche un paladino delle lettere, delle arti e della filosofia, un temperamento che condensava in sé i tratti dell’uomo moderno e partecipava al ritmo della modernità».
A questo mito – decisamente elitario –, il fascismo dovette aggiungere alcuni importanti elementi in grado di renderlo accessibile alla gente comune, senza peraltro rinnegare le componenti ereditate dal socialismo e dall’interventismo. Nello specifico, il mito fascista fu essenzialmente il mito del capo, incarnazione di tutte le più elevate qualità morali, politiche e intellettuali, oltre che interprete e garante unico degli interessi supremi della nazione. Un mito che ebbe manifestazioni di massa inedite, differenti rispetto alle precedenti forme di esaltazione, e che venne diffuso in ogni angolo della penisola attraverso la cosiddetta «fabbrica del consenso», la macchina propagandistica del regime.
Il Mussolini fascista fu pertanto, in parte, un Mussolini del popolo, che appariva come l’uomo di umili origini che aveva portato la pace sociale e come un capo di governo finalmente giovane, energico, realista, dotato di uno stile moderno e di un’oratoria affascinante. Ma non fu, ovviamente, solo questo, nel senso che anche la borghesia e i ceti abbienti riconobbero in lui l’uomo della provvidenza, il salvatore che aveva sconfitto il bolscevismo e posto un freno all’anarchia. Di fatto, come scrisse Ferruccio Parri nel 1924, dopo la conquista del potere Mussolini fu posto su «un piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore estatico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo duce dinamico agitarsi e recitare».
(Continua)

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Ercole III d’Este: il duca burlone, morto in esilio, che amava il dialetto, il popolo e le donne

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 dicembre 2014)

Ercole III, ultimo duca estense e predecessore di Francesco IV, che inaugurò la dinastia degli Austria-Este, è spesso ricordato essenzialmente per una curiosità: era un uomo bonario, allegro, per certi versi un po’ comico per via del pronunciato naso aquilino, e, soprattutto, amava mescolarsi con la gente comune ed esprimersi in dialetto. Ercole era cioè una di quelle persone che oggi non esiteremmo a definire simpatiche, forse addirittura accattivanti, anche se – come è stato scritto da Luciano Chiappini – la sua figura sembrava «impersonare, nel profilo fin troppo mite, modesto, bonaccione, il tramonto consapevole e rassegnato della dinastia».
Alla luce di queste considerazioni, c’è poco da stupirsi che al sovrano estense erede del grande Francesco III si sia interessato un appassionato cultore delle tradizioni e del dialetto di Modena quale Sandro Bellei, che nel suo ultimo libro Il duca Nasone (Edizioni Il Fiorino, 2014) ha tracciato un breve profilo dal quale emerge un Ercole III effettivamente burlone, dalla battuta sempre pronta, arguto nel saper prendere le avversità della vita con la giusta ironia. È un duca, quello di Bellei, che quasi compiaciuto ostenta la propria perfetta padronanza del dialetto, utilizzato per le più banali osservazioni («Devo farmi togliere un molare che ormai è marcio, ma éd Garuti, al dintésta ch’a-m tàia anch i cavî, a-n me fid piò»), ma persino per dare ordini ai sottoposti («Rebucci, urdnê subét che Umberto, al fiól dal marangòun, al pòrta in prèsia a Sasól ’na làttra ch’a-v darò fra pòch»). Un Ercole, in sostanza, “popolare”, alieno da ogni formalismo, insofferente nei confronti dell’etichetta di corte, di fatto il protagonista perfetto di una biografia “non autorizzata”, come precisa Bellei nel sottotitolo.
Ercole III divenne duca nel 1780, all’età di cinquantatre anni, di fatto dopo un’intera vita trascorsa ad interessarsi «sól al stanèli e ai divertimèint». Suo padre, Francesco III, gli aveva combinato il matrimonio con Maria Teresa Cybo Malaspina, erede del ducato di Massa e Carrara, che in tal modo era stato incamerato entro i domini estensi. Si trattava però di un’unione assolutamente infelice, un po’ per il carattere autoritario e bacchettone della consorte, un po’ per la sfacciataggine di Ercole, le cui attenzioni per le donne e soprattutto per l’amante “ufficiale” Chiara Marini (avvenente cantante lirica, da tutti conosciuta a Modena come “la Chiarina”) risultavano eccessive persino per l’elastica mentalità cortigiana dell’epoca. I rapporti tra i due erano così tesi che la duchessa aveva finito per abbandonare il marito, di fatto trasferendosi nella residenza ducale di Reggio; ed Ercole, quando Maria Teresa venne a mancare nel dicembre del 1790, subito si adoperò per legalizzare l’unione con la Marini attraverso un matrimonio morganatico.
Rispetto al padre, sovrano autorevole che nutriva ambiziosi progetti per lo Stato estense, Ercole era un duca più dimesso, quasi allergico alle costrizioni del cerimoniale e un tantino impacciato quando si trattava di affrontare con risolutezza le delicate questioni di politica estera. Forse il suo comportamento era espressione di un’inconscia ribellione al dispotico genitore, il quale – tra le altre cose, al fine di garantire una qualche forma di sopravvivenza della dinastia, considerato che Ercole non aveva eredi e, dati i burrascosi rapporti con la moglie, era più che ipotizzabile che non ne avrebbe avuti in futuro – lo aveva costretto contro la sua volontà ad acconsentire al matrimonio tra la figlia Maria Beatrice (che aveva solo tre anni quando venne promessa in sposa) e Ferdinando d’Asburgo-Lorena, figlio dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa. O forse, per altro verso, il duca era semplicemente animato da una sorta di disincantato realismo, che – scrive Bellei – gli aveva fatto mettere «da pèrt tótti gli ambiziòun» e che doveva essere all’origine di decisioni quali quella di smantellare le costose difese della capitale, perché tanto – sosteneva – fortificata o no, «chi vól ocuper Mòdna a-n gh ha ménga da fèr tanta fadiga».
Ma Ercole, a dispetto della sua apparente faciloneria, non fu un sovrano del tutto inetto e sprovveduto. Influenzato dalle opere del Muratori, nei primi anni di governo si dotò di una Camera dei Conti (che doveva vigilare su entrate ed uscite dello Stato), fondò l’Accademia di Belle Arti, favorì l’acquisto di numerosi volumi destinati alla Biblioteca Estense (divenuta una delle più prestigiose della penisola), fece costruire strade e ponti sul Secchia e sul Panaro, istituì il catasto, si impegnò per far fronte all’imponente aumento demografico sollecitando il passaggio a colture intensive al fine di migliorare le rese, varò una riforma annonaria per liberalizzare il commercio del grano e, cosa alquanto gradita ai sudditi, riuscì in breve tempo a ridurre di un terzo la pressione fiscale (che sotto Francesco III aveva raggiunto livelli difficilmente sostenibili). Con tutta evidenza, siamo al cospetto di un tipico esempio di sovrano illuminato, pur con tutte le debolezze dell’uomo-Ercole III di cui si è detto. Al riguardo lo storico Pompeo Litta, genealogista dell’epoca, riferisce che l’ultimo duca di casa d’Este «governò mirando soprattutto all’economia. Fu molto economo nella sua vita privata e dalla sua corte fu bandito il lusso; il suo erario non era mai esausto, ma questo denaro non si toglieva tutto alla circolazione poiché lo somministrava con tenue compenso ai pubblici corpi».
Questi innegabili successi di politica interna non valsero però a contrastare efficacemente il contagio rivoluzionario diffusosi in Francia nel 1789 e destinato ad estendersi a macchia d’olio sotto l’urto delle baionette francesi. Ercole si illuse di poter arginare la minaccia giacobina legandosi strettamente all’imperatore d’Austria, cui senza esitare inviò cannoni, munizioni ed ingenti somme di denaro, concedendo persino che reclute del proprio esercito venissero arruolate in quello asburgico. Ma allorché il Bonaparte si fece minaccioso, avanzando nella penisola a suon di vittorie, il duca si vide costretto ad abbandonare Modena, nella quale lasciò un Consiglio di Reggenza. Partì la sera del 7 maggio 1796, diretto verso Venezia (dove fu in seguito raggiunto da imbarcazioni cariche d’oro e di oggetti preziosi) e ignaro che il suo esilio si sarebbe protratto fino alla morte.
Nella città lagunare Ercole poteva contare sulla protezione dell’ambasciata austriaca; ma ciò nondimeno fu raggiunto da un distaccamento francese e costretto a consegnare ben 200.000 zecchini d’oro (corrispondenti ad oltre sei quintali), che i transalpini erano certi egli avesse in buona parte sottratto alle casse pubbliche dello Stato estense (e non quindi prelevato dal solo suo patrimonio personale). In cambio, Ercole ottenne un lasciapassare per raggiungere Trieste; in seguito proseguì per Vienna, per poi stabilirsi, infine, nella più tranquilla Treviso, controllata dagli austriaci.
Nel frattempo da Modena, all’indomani della partenza del duca, la Reggenza aveva inviato un plenipotenziario a Napoleone per trattare l’armistizio (di fatto una resa). Le condizioni imposte dai francesi furono durissime: 7,5 milioni di franchi, derrate, munizioni, polvere da sparo e, dulcis in fundo, una ventina di quadri della prestigiosa galleria estense. Difficile soddisfare una tale richiesta, «anche perché – ha scritto Luigi Amorth – il Duca, che si era portato con sé tre milioni di lire modenesi tolti dai dodici del pubblico erario, faceva orecchie da mercante ad ogni richiesta d’aiuto», preferendo decretare prestiti forzosi.
La politica di Ercole era tuttavia destinata al fallimento. Il 28 maggio il Consiglio Generale di Reggio, dopo aver istituito una Guardia Civica, approvò la stesura di un promemoria che affermava i diritti di libertà della città rispetto al potere estense. Di lì alla vera e propria rivoluzione il passo era breve. Il 25 agosto, nella Piazza Maggiore fu piantato un albero della libertà, simbolo – riferisce una cronaca dell’epoca – «d’un’aperta ribbellione al Duca», nonché dell’assunzione dei poteri da parte del Senato di Reggio. Era l’atto di nascita della Repubblica Reggiana.
Anche a Modena, nel frattempo, questi fatti accesero la miccia rivoluzionaria. Il 29 agosto duecento soldati ducali dovettero usare la forza per rimuovere un albero della libertà eretto nell’attuale Piazza Grande. Per impedire che la situazione degenerasse, fu concessa tuttavia un’amnistia e pubblicato un editto nel quale il duca rassicurava che avrebbe saldato il debito con i francesi. Ma – spiega Amorth – «erano solo promesse: ché l’esule sovrano, sordo da quel tale orecchio, protestava che i Francesi avevano violato l’armistizio coll’assecondare la ribellione di Reggio».
Di tutt’altro avviso era ovviamente Napoleone, che non a sé, ma ad Ercole III imputava il mancato rispetto del trattato, dal momento che i tempi concessi per il pagamento del tributo non erano da quest’ultimo stati rispettati. Il 4 ottobre, pertanto, il Bonaparte denunciò l’armistizio, prendendo «sotto la protezione dell’Armata Francese li Popoli di Modena, e di Reggio» e dichiarando «nemico della Francia qualsivoglia attentasse alla proprietà, ed ai diritti di questi Popoli». Entrate rapidamente nella capitale estense, il 7 ottobre le truppe francesi innalzarono l’albero della libertà (un pioppo ornato di tricolori francesi e berretto frigio) di fronte alla Ghirlandina, ingiungendo inoltre «a tutti indistintamente» di indossare «la Coccarda tricolorata, [...] distintivo di quella Protezione che dall’Armata Francese è generosamente accordata a questi Popoli». Il giorno seguente fu soppressa la Reggenza estense, in sostituzione della quale si procedette alla nomina di un Comitato di Governo di sette cittadini, all’elezione di nuovi membri della Municipalità e all’istituzione di una Guardia Civica.
Le vicende che seguirono sono tutte legate all’epopea napoleonica. Per rivedere un Estense alla guida di Modena si dovette attendere il crollo del Bonaparte e l’avvento al potere, nel 1814, di Francesco IV, nipote di Ercole III. A quella data, dalle parti della Ghirlandina il duca “nasone” era ormai uno sbiadito ricordo: spentosi in esilio il 14 ottobre di undici anni prima, egli sembrava appartenere ad un tempo (quello antecedente la rivoluzione) lontano e definitivamente tramontato.  

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martedì 2 dicembre 2014

L’ascesa del razzismo nella crisi globale

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2014)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

Lo scorso giovedì 13 novembre, presso il teatro dell’Istituto Sacro Cuore di Modena, il professor Pietro Basso (docente di Teorie Sociologiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia) ha tenuto un’interessante conferenza dal titolo L’ascesa del razzismo nella crisi globale.
L’aspetto più interessante dell’intervento – che ha ovviamente posto l’accento sui rapporti di oppressione che sono alla base della pretesa “superiorità” dei bianchi rispetto ai neri – è stata la suddivisione del razzismo in tre forme fondamentali: istituzionale, dottrinale e popolare. Contrariamente a quanto comunemente si pensa – ha spiegato il professor Basso –, il razzismo non sale dagli ignoranti, ma scende dagli Stati e dalle necessità del mercato. Le forme più rozze di intolleranza popolare sono quindi essenzialmente la conseguenza e non – com’è più comodo credere – la causa di un certo tipo di politica, spesso avallata (e qui si entra nel razzismo dottrinale) da certe categorie di presunti intellettuali. Detto altrimenti, lo sfruttamento e la diffusione di stereotipi e pregiudizi sono le due facce di una sola medaglia e costituiscono l’arma di cui si serve la nostra società per perpetuare, potenzialmente all’infinito, i propri privilegi.
Il razzismo – acuitosi con tutta evidenza in questi ultimi anni di forte recessione economica – rappresenta pertanto la formula magica (Basso ha usato proprio questa specifica espressione) che consente di scaricare sugli elementi più deboli della società la responsabilità del disagio crescente in conseguenza della crisi. Poco importa, infatti, che gli immigrati costituiscano una risorsa imprescindibile per la nostra economia (tanto che se per assurdo dall’oggi al domani abbandonassero in massa la penisola – e si parla di circa 5 milioni di lavoratori –, l’Italia precipiterebbe nella graduatoria dei paesi più ricchi al mondo): ostacolare la loro integrazione – ha precisato provocatoriamente Basso – conviene ai cosiddetti poteri forti, che in questo modo ottengono il duplice effetto di mantenere alto il livello di sfruttamento di cospicue minoranze e di abbassare quello dei diritti di tutti.
Si tratta di una tesi indubbiamente “forte” – come si suol dire –, ma non priva di fascino, oltre che di una certa autorevolezza. È innegabile infatti che l’intolleranza vada di pari passo con l’ignoranza – verrebbe da dire indotta – che sembra permeare l’intera nostra società. Senza dubbio la conoscenza (anche banalmente quella geografica: chi può negare, a essere onesti, che talvolta si incontrano persone provenienti da aree del mondo che i più avrebbero difficoltà ad individuare su una cartina?) è un’arma potente contro gli stereotipi, proprio perché costringe ad andare oltre il pregiudizio. Ma la domanda a cui è difficile sottrarsi è: oggi come oggi, la conoscenza è sufficiente a consentire una convivenza pacifica e spontanea dei popoli? Perché un conto è il razzismo di chi difende con convinzione (o arroganza?) la propria superiorità culturale; altra cosa è il razzismo, potremmo dire istintivo o inconscio, di chi sarebbe anche propenso a mostrare disponibilità nell’accoglienza, ma è frenato dalla paura.
Ecco, forse dalle parole del professor Basso è possibile trarre la conclusione che è sempre bene diffidare di chi si serve di potenti mezzi di comunicazione per veicolare determinati messaggi. Ma occorre anche essere realisti: prima che, sull’autobus o in treno, un italiano decida di sedersi indifferentemente accanto a un bianco o a un nero, dovranno trascorrere ancora molti anni. Certo è, però, che tra qualche generazione – basta leggere numeri e statistiche – avremo milioni di concittadini che difficilmente si chiameranno Mario o Giovanni. Cosa pensano, di questo, i membri più giovani della nostra società? Prendiamo in considerazione le riflessioni di alcuni studenti dell’Istituto Sacro Cuore di Modena.


Pro di Francesca Adani, Maria Teresa Guidi e Beatrice Sitta

«Non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione»

Per cogliere al meglio le problematiche attuali è necessario partire dalle radici. Il relatore ha chiarito che il problema non nasce dagli ignoranti bensì dagli stati e dalle necessità del mercato. Si apre così la grande parentesi del capitalismo da lui ampiamente argomentata e si crea un forte collegamento tra questo fenomeno e quello del razzismo, proponendolo come una matrice da cui nel corso della storia sono state coniate le problematiche di diversità sociale e culturale. Il professor Basso ha reso noto a tutti che l'intolleranza induce allo sfruttamento delle classi sociali più basse, con il conseguente arricchimento del ceto più alto a scapito dei ceti medi. Il dato su cui riflettere è che questa situazione migliora lo status sociale della classe più ricca e soprattutto l’andamento dell’economia.
Questo meccanismo porta gli immigrati ad essere indispensabili per la nostra attività economica, nonostante in molti non la pensino allo stesso modo.
Si potrebbe però ribattere alle molte accuse degli italiani mostrando loro che il settore primario non verrebbe scelto da molti lavoratori. I dati illustrano, infatti, che una percentuale di stranieri pari all’89,9% per gli uomini e al 10,1% per le donne svolge attività in questo ramo.
Un altro argomento molto rilevante è il fenomeno, poco presente, dell’integrazione in Italia. Come abbiamo potuto constatare assistendo a una conferenza riguardante i Sikh tenutasi lo scorso 6 novembre presso l’Istituto Sacro Cuore, queste etnie vivono nel nostro paese come negli antichi ghetti: parlano la loro lingua, mantengono la loro cultura e sono estraniate dalla nostra società.
La loro integrazione è ostacolata dallo stato e dai nostri pregiudizi: l’idea comune è che la maggior parte dei crimini siano commessi soprattutto dagli immigrati, anche se i dati che il professore ha fornito durante l’assemblea dimostrano il contrario. Occorre poi tenere presente che, per diverse etnie vittime dei luoghi comuni, la percentuale di detenuti è irrisoria e che il più delle volte è la criminalità organizzata italiana a gestire/sfruttare gli immigrati come forza lavoro a basso costo. Non c’è da stupirsi più di tanto, perciò, se chi lucra sulla prostituzione o sullo spaccio di stupefacenti si serve di non italiani – che fanno il lavoro sporco, rischiando tutti i giorni la galera – per intercettare clienti e consumatori (quelli sì molto spesso italiani).
In definitiva, non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione (anche perché l’immigrazione non è certo un fenomeno che si possa arginare). Ed è evidente che se le istituzioni (sul modello americano) favorissero l’istruzione degli stranieri sulla base della nostra lingua e della nostra cultura, l’inserimento di questi ultimi all’interno della società risulterebbe più semplice e spontaneo.
In conclusione l’unica arma per combattere le intolleranze, le discriminazioni, i pregiudizi e il disagio sarebbe l’impegno comune dei cittadini, dello stato e anche degli immigrati stessi.


Contro di Matteo Talami, Isabell Albinelli, Maria Vittoria Abati e Aurora Vandelli

«Non crediamo alla favola dell’integrazione ad ogni costo»

La conferenza del professor Basso ha affrontato temi complessi con un linguaggio – forse un tantino accademico – non sempre del tutto accessibile per noi ragazzi che ancora non abbiamo alle spalle studi storici approfonditi. Risulta perciò complicato, dal nostro punto di vista, contestare le argomentazioni di un docente che a noi è sembrato interessato a stimolare più che altro il pubblico degli adulti, con buona pace degli studenti.
La sensazione diffusa, in sostanza, è che gli addetti ai lavori – non dimentichiamo che il professor Basso è direttore del Master “Immigrazione. Fenomeni migratori e trasformazioni sociali” – si perdano in troppi sofismi, e finiscano col trascurare i problemi concreti che attanagliano la popolazione. Perché va bene parlare di integrazione, di radici pluridecennali del fenomeno-immigrazione, del fatto che un secolo fa erano gli italiani ad abbandonare in massa il loro paese, della miseria quale principale motore che spinge interi popoli a salutare per sempre la terra d’origine; ma occorre anche dare risposte a quanti si sentono minacciati dalle cosiddette “orde” di clandestini.
A nostro parere, inoltre, l’integrazione va vissuta da ambo le parti. Non solo, cioè, gli italiani, ma anche gli immigrati devono adattarsi ad un mondo che cambia e che mette in contatto culture apparentemente inconciliabili. Quanto poi ai pregiudizi, essi derivano sì in parte dall’ignoranza, ma sono anche la conseguenza di un diffuso e crescente disagio. Non è possibile tacciare di razzismo una persona solo perché manifesta difficoltà a confrontarsi con un mondo che avverte sempre più come una minaccia. Anche perché è normale, nei periodi di crisi, chiudersi un po’ a riccio a difesa dei propri interessi.
C’è infine lo spinoso problema del lavoro. Gli immigrati costano meno e danno l’impressione di porre un freno all’occupazione. Certo non sono loro i responsabili di questa anomalia del nostro sistema, ma non bisogna commettere l’errore di criminalizzare quanti esternano un certo malcontento che, inevitabilmente, si riversa anche sugli stranieri per bene. È la politica, infatti, che dovrebbe dare risposte, garantendo agevolazioni a chi opera secondo le regole e facilitando l’integrazione di quanti sbarcano nel nostro paese con le migliori intenzioni. Solo in questo modo sarà possibile instaurare un regime di pacifica e costruttiva convivenza. Noi non crediamo alla favola dell’integrazione ad ogni costo: ma non per questo ci sentiamo razzisti.

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