martedì 25 novembre 2014

«La Domenica dei fanciulli» e la propaganda di guerra per l’infanzia

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 novembre 2014)

In occasione del centenario dello scoppio della Grande Guerra sono decine i volumi apparsi nelle librerie per celebrare degnamente questa importante ricorrenza storica e storiografica. Tra i tanti, si è scelto qui di seguito di prendere in considerazione un lavoro senz’altro non troppo noto, curato da Daniele Menozzi, Giovanna Procacci e Simonetta Soldani. Si tratta di una miscellanea di saggi uscita nel 2010 per Unicopli e intitolata Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918): in tutto quindici contributi, tra i quali indubbiamente significativo è quello, a firma di Laura Guidi, di cui si occupa il presente articolo, ovvero «Maledetto chi parla di pace...». La Grande Guerra sulle pagine di una rivista per l’infanzia.
Il saggio analizza la propaganda di guerra rivolta ai ragazzi attraverso lo studio di una singola rivista, uscita dal 1900 al 1920, intitolata «La Domenica dei fanciulli». Il punto di partenza dell’indagine è bene illustrato dall’autrice: «Il nazionalismo del primo Novecento, destinato a culminare nel primo conflitto mondiale, generò una pedagogia volta a manipolare l’immaginario, i comportamenti, i giochi e l’intero processo di formazione di bambini e bambine allo scopo di farne le cellule precoci e malleabili di progetti nazionali di potenza ed espansione territoriale, sorretti da un pervasivo militarismo e dalla valorizzazione della guerra come condizione sana e normale intorno a cui far ruotare l’intera vita sociale».
Con l’entrata in guerra dell’Italia (ma anche, in un primo momento e in forme differenti, durante il conflitto coloniale in Libia), la vera priorità nell’educazione militaresca dei giovani divenne la costruzione propagandistica di un nemico che legittimasse e rendesse comprensibile la decisione di mandare migliaia di uomini al fronte. Non si trattava però di un nemico qualsiasi, bensì di un nemico assoluto, per sua stessa natura mostruoso e inconciliabile con la comunità – idealizzata – del popolo italiano. Solo veicolando questo genere di messaggi si poteva infatti sperare che i bambini “elaborassero” l’idea di un conflitto che metteva in serio pericolo (quando non stroncava) la vita dei loro padri spediti nelle trincee. In sostanza, se si imbracciava il fucile, era per respingere il “barbaro” che ancora occupava territori che – secondo giustizia – sarebbero spettati all’Italia.
In questo contesto, «La Domenica dei fanciulli» offre una preziosa testimonianza del drastico cambiamento che, in coincidenza con lo scoppio della guerra, interessò messaggi e immagini destinati all’educazione dei giovani. Il mondo protetto (tipicamente borghese) dell’infanzia, nel quale dovevano prevalere valori quali la fratellanza, il rispetto dei ruoli e soprattutto – si pensi anche a Cuore di De Amicis – la solidarietà (del ricco verso il povero, del sano verso l’invalido, e via dicendo), cedette il passo ad una realtà in cui venivano esaltati principalmente l’eroismo, il coraggio e il sacrificio, e dalla quale – come anticipato – emergeva minaccioso lo spettro del nemico. Un nemico – scrive Laura Guidi – presente in ogni pagina, in ogni racconto o poesia, tanto che è lecito affermare che «il mondo rappresentato dalla rivista è, dall’ingresso dell’Italia in guerra, dominato dalla sua presenza e dal dovere non solo di combatterlo, ma di odiarlo».
Al riguardo, è importante sottolineare che l’immagine dei paesi e dei combattenti stranieri subì una drastica trasformazione all’indomani dell’ingresso dell’Italia in guerra. Fino a tutto il 1914, infatti, prevalse una descrizione distaccata del conflitto, rispetto al quale tutte le nazioni – ad eccezione dell’«eroico» Belgio invaso – avevano interessi, più o meno nobili, da difendere. Poi, con l’entrata in guerra dell’Italia, quella che era stata considerata un spietata «lotta fratricida» improvvisamente divenne una sorta di crociata per il completamento del Risorgimento, con la conseguenza che le pagine della rivista si popolarono di bruti e assassini (tutti appartenenti, s’intende, agli Imperi centrali, espressione di una razza malvagia e sanguinaria). 
Accanto agli esempi negativi identificati con il nemico erano proposti modelli inarrivabili di eroismo infantile, i quali – è stato notato – spesso ottenevano l’effetto di colpevolizzare i bambini, facendoli sentire inadeguati e desiderosi di riscatto. Scrive al riguardo Laura Guidi: «Il bambino viene visto come il combattente di domani, la bambina come ausiliaria di soldati. Il sangue dei caduti vale a spronare entrambi al sacrificio patriottico. Agli esempi inimitabili di ragazzi-soldato si affiancano modelli di patriottismo più accessibili, come quello rappresentato dal piccolo Sandro, protagonista del racconto L’eroe: un bambino che rinuncia alla cartella nuova per aiutare i profughi, compiendo la sua personale battaglia sul fronte interno».
Col passare delle settimane a partire dal maggio del 1915, venne meno persino il rimpianto per la pace perduta: la guerra, in sostanza, era una realtà con la quale bisognava familiarizzare, tanto più che essa era senza dubbio alcuno “giusta”, poiché combattuta contro un nemico disumano (e disumanizzato). In nome del sacrosanto irredentismo (che si estendeva indiscriminatamente fino alla rivendicazione di un po’ tutte le terre adriatiche), ogni azione di guerra era percepita come legittima. Nessuna pietà, nessun tipo di rimorso potevano indurre a mostrare compassione per il soldato austro-tedesco ucciso. «Il nemico – sottolinea la Guidi – ormai è l’Altro assoluto, il non-uomo, la cui morte viene descritta in toni che escludono qualsiasi possibilità di quell’empatia e pietas che vengono profuse invece a piene mani verso gatti e cagnolini. Di più: morte e sofferenze del nemico sono fonte legittima e doverosa di esultanza».
Contro un siffatto avversario, nessuna pace che non coincidesse con una netta vittoria era da prendere in considerazione, come bene illustrava una poesia apparsa sulla rivista nel 1918: «Questa è l’ora solenne che il pravo / Cittadino disvela e l’ignaro / Che amor patrio nel petto non ha: / Sia da tutti segnato col dito, / Dagli onesti sfregiato e fuggito / Chi per vincer, sé tutto non dà. / Cara Patria, io son per te: / Viva l’Italia! Viva il Re! [...] / Maledetto chi parla di pace, / Se il fratello che geme o che giace / Vendicato da’ suoi non sarà».
Il nazionalismo, in sostanza, doveva penetrare nei sentimenti e persino nei gesti più insignificanti della vita di tutti i giorni. Per i bambini, ciò significava compiere il proprio dovere, ubbidire a insegnanti e genitori e mostrarsi disponibili con i compagni di scuola in difficoltà. Tra italiani doveva esserci solidarietà, a tutti i livelli, giacché si combatteva una guerra totale. Ma, ancora una volta, l’elemento chiave che consentiva di tenere unito l’intero popolo d’Italia era la minaccia rappresentata dall’austro-tedesco: «Il nemico – precisa Laura Guidi – è, nello stereotipo dominante, maschio e adulto: un uomo in armi, al quale tuttavia non viene riconosciuto il ruolo di soldato di una diversa patria. Non era soldato il combattente libico, assimilato piuttosto a un ribelle o a un delinquente; tanto meno lo sono l’austriaco o il tedesco, considerati barbari in lotta contro la civiltà. Le loro truppe non vengono chiamate ‘eserciti’, ma ‘orde’. La loro non è violenza disciplinata di un’armata, ma la crudeltà sanguinaria che nasce da istinti feroci e atavici».
Anche nell’aspetto fisico gli austro-tedeschi erano raffigurati come repellenti, al limite del mostruoso, dal momento che nei loro confronti si voleva suscitare un senso di orrore e ribrezzo. Perciò, nulla di male se soffrivano la fame o morivano di stenti: in quanto appartenenti ad una razza intrinsecamente malvagia – perché il nemico non aveva un volto definito: era semplicemente un’impersonale figura di barbaro –, coloro che si battevano per soffocare le legittime aspirazioni alla libertà dell’Italia non avevano diritto ad alcuna forma di rispetto e di umanità. In casi estremi, persino i bambini austriaci o tedeschi venivano considerati nemici indegni di pietà, anche se di gran lunga prevalente era la tendenza – nota la Guidi – ad «eludere l’intricata e contraddittoria relazione tra lo stereotipo della bontà e purezza infantile e quello di un popolo intrinsecamente e per sua natura abietto».
La Grande Guerra, in sostanza, costituì un evento drammatico ed emotivamente coinvolgente per milioni di bambini, per i quali fu appositamente inventato un linguaggio capace di colpire l’immaginazione e di penetrare nelle coscienze. Un linguaggio aggressivo, manicheo ed esaltante che molti di loro avrebbero ritrovato, oramai adolescenti o adulti, durante gli anni del fascismo.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

martedì 18 novembre 2014

«La Grande Guerra come fattore di divisione»: la riflessione di Giovanni Sabbatucci

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2014)

Si è soliti affermare che la Grande Guerra abbia favorito ed accelerato il processo di unificazione nazionale, mettendo in contatto uomini di diversa estrazione e provenienza geografica e offrendo/imponendo loro una causa comune per cui combattere. C’è innegabilmente una parte di verità in questa considerazione, ma – come precisa Giovanni Sabbatucci nel saggio da cui questo articolo trae il titolo, contenuto nel recente volume Partiti e culture politiche nell’Italia unita (Laterza 2014) – occorre prestare molta attenzione a non trascurare il cosiddetto rovescio della medaglia. Poiché, se è incontestabile che il primo conflitto mondiale fu una guerra di massa che coinvolse l’intero popolo italiano, è altrettanto vero che esso produsse profonde fratture, come provò dopo il 1918 la «difficoltà a elaborare e conservare una memoria condivisa di un evento considerato comunque fondante dell’identità nazionale».
Le prime grosse perplessità suscitate dalla guerra furono legate alla decisione del governo italiano di prendervi parte, contro il parere di una percentuale consistente dell’opinione pubblica. L’Italia, infatti, di per sé non era direttamente minacciata da altre potenze: come giustificare, pertanto, la scelta di giocare il tutto per tutto e di scendere in campo a fianco dell’Intesa, sconfessando un’alleanza, quella con gli Imperi centrali, istituita oltre trent’anni prima? Come far apparire necessaria l’entrata in guerra di fronte al popolo che si apprestava a combattere?
A queste domande il governo di fatto non rispose, azzardando la decisione di imbracciare il fucile nella convinzione che la lotta sarebbe stata breve, e avrebbe portato prestigio alle istituzioni. A sostenere la sua scelta fu il composito fronte interventista, i cui componenti si schieravano tanto a sinistra (si trattava delle forze che vedevano nel conflitto una contrapposizione tra democrazie e imperi autoritari) quanto a destra (con i nazionalisti, animati da un patriottismo decisamente aggressivo e mirante a fare entrare l’Italia nel novero delle grandi potenze europee). Comune a tutte le diverse formazioni che caldeggiavano l’entrata in guerra dell’Italia era però – sottolinea Sabbatucci – «l’orientamento in funzione della politica interna: rovesciamento del sistema giolittiano, lotta contro il parlamentarismo “corruttore” e contro un socialismo negatore della patria e sordo a qualsiasi richiamo ideale, tensione verso una nuova e mai ben definita coesione nazionale, peraltro implicitamente negata nel momento in cui [...] si escludevano dal corpo autentico della nazione tutti coloro che non condividessero la scelta interventista o si mostrassero soltanto tiepidi nei suoi confronti».
Il primo importante fattore di divisione sorto con la guerra va dunque collegato alla pretesa della minoranza interventista di escludere dalla parte “sana” della nazione tutti coloro che si dichiaravano contrari alla partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale. In sostanza, un’elite autodefinitasi tale in virtù di una presunta superiorità morale si sforzò di delegittimare – bollandoli come vili, opportunistici e, appunto, antipatriottici – gli sforzi compiuti da quanti si dichiaravano favorevoli alla neutralità. Altro che coesione nazionale! In Italia, scrive Sabbatucci, la mobilitazione pro-intervento «è di una parte contro un’altra e nel fronte dei nemici interni della nazione si colloca, o viene collocata, l’intera rappresentanza delle classi lavoratrici, con l’eccezione di poche frange eretiche».
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 fu dunque difficilmente “nazionalizzabile”, essenzialmente a causa di una certa attitudine giacobina espressa dal fronte interventista. Le frange, minoritarie, che volevano la guerra si mostrarono fortemente intolleranti nei confronti di chi avversava il loro pensiero, il che avvenne nonostante le forze neutraliste fossero tutt’altro che intransigenti o disposte a ricorrere al sabotaggio dell’impresa bellica (subita e non voluta). Persino i socialisti furono tutto sommato collaborativi: il loro «né aderire né sabotare» non rappresentò infatti un grosso problema per il governo – il quale, però, non volle concedere alcuna tregua politica e non concepì alcun programma di allargamento delle basi di consenso all’esecutivo –, tanto più che sentimenti antiaustriaci erano piuttosto diffusi anche in seno al PSI.
In Italia, in sostanza, non si creò un fronte comune intenzionato ad affrontare l’esperienza bellica nel segno della coesione nazionale. Al contrario, la guerra inasprì le differenze, creando autentiche fratture in conseguenza delle delusioni provocate dai ripetuti fallimenti militari. Paradossalmente, più il conflitto si prolungava, più il fronte interventista e nazionalista dava segni di insofferenza nei confronti degli avversari politici, ritenuti colpevoli di ostacolare le operazioni al fronte attraverso un atteggiamento disfattista. A incarnare le tendenze più radicali erano i nazionalisti di sinistra (provenienti dalle file radicali, socialiste rivoluzionarie, repubblicane), colpiti – scrive Sabbatucci – da una sorta di «sindrome giacobina», che li induceva «a sognare comitati di salute pubblica e plotoni di esecuzione». Ai loro occhi, il paese si presentava diviso «tra fautori e sabotatori dello sforzo bellico, tra membri sani e figli spuri della nazione, fra patrioti e antipatrioti», con la conseguente formazione di un doppio fronte: quello dei campi di battaglia, dove regnavano coraggio, abnegazione e sacrificio; e quello delle retrovie, dove a farla da padrone erano la viltà, l’inganno e il sotterfugio.
Solo in seguito alla rotta di Caporetto il governo riuscì in parte a compattare il paese e a proporsi come guida di uno sforzo realmente patriottico e nazionale, anche se non va dimenticato che le spinte centripete favorite dall’emergenza bellica (la quale richiamava tutte le forze politiche a una maggiore responsabilità) furono controbilanciate dagli effetti della Rivoluzione d’ottobre, che rese insanabile la frattura tra un PSI ormai approdato stabilmente su posizioni rivoluzionarie e il fronte interventista. Ad ogni modo, dopo Caporetto si tentò – in particolare attraverso i cosiddetti Uffici P, responsabili della propaganda – di far leva su una retorica che fosse il più possibile inclusiva, soprattutto in considerazione del fatto che la guerra del Piave era molto diversa da quella dell’Isonzo, giacché – scrive Sabbatucci – aveva «caratteristiche che ben si prestavano a riscattare almeno in parte la reale durezza dell’esperienza bellica e a fornire il materiale per la costruzione di un epos nazionale in cui la maggioranza della popolazione potesse riconoscersi».
I risultati furono parziali. Da un lato, infatti, quella del Piave fu realmente vissuta come una guerra patriottica, capace di unire il popolo italiano in un comune, estremo sforzo per difendere il suolo della nazione; ma dall’altro, specialmente dopo la vittoria, l’atteggiamento sempre più intransigente dei socialisti massimalisti bloccò ogni possibilità di dialogo tra classe operaia e istituzioni. Per il PSI la guerra era stata combattuta senza un valido motivo, il che giustificava toni sempre più aggressivi della propaganda, plateali incitamenti alla violenza, programmi insurrezionali, nonché il disprezzo per tutti gli ex combattenti che non accettavano di riconoscersi come vittime del conflitto. Ma un simile atteggiamento – che costituì un errore di calcolo politico solo tardivamente riconosciuto – ebbe l’immediato effetto di favorire una ripresa dell’estremismo interventista e in seguito l’inevitabile conseguenza di isolare sempre più i socialisti, favorendo la successiva avanzata delle camicie nere di Mussolini. «Di certo – rileva al riguardo Sabbatucci –, l’oltranzismo nazionalista di futuristi, arditi e di altre schegge minoritarie del mondo combattentistico (fra le quali cercavano di farsi largo i primi Fasci di combattimento) avrebbe avuto spazi politici ridotti e scarsa visibilità se non gli fosse stata data l’opportunità di ergersi a difensore e vindice dei valori della guerra contro l’esplicita minaccia che veniva dalle espressioni ufficiali del movimento operaio».
Vari elementi, in definitiva, contribuirono a fare della Grande Guerra un evento destinato a dividere, piuttosto che a unire, gli italiani. Anche dopo la sua conclusione, fattori quali l’incapacità dei governi del primo dopoguerra di risolvere la delicata questione adriatica (alla base della nascita del mito della cosiddetta «vittoria mutilata»), il sostanziale successo della propaganda del fascismo (abile a presentarsi quale unico erede legittimo dell’«Italia di Vittorio Veneto») e, nell’ultimo cinquantennio, l’orientamento “revisionistico” della storiografia, mirante a gettare luce sulle vicende meno patriottiche e più “crude” legate alla guerra (diserzioni, ammutinamenti, processi militari) hanno fatto sì che il primo conflitto mondiale continuasse a costituire un tema di scontro. Solo di recente l’interesse prettamente storiografico ha preso il sopravvento sulle divisioni di natura ideologica, anche se – conclude Sabbatucci – «resta, sia pure attenuata, la difficoltà di inserire l’evento in una storia condivisa e pacificata, capace di includere e riassorbire realtà complesse e contraddittorie, di coniugare la celebrazione delle glorie nazionali con la denuncia degli orrori e con l’elaborazione dei lutti».

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

martedì 11 novembre 2014

L’attacco alla Russia del 1941 e i controversi rapporti tra Hitler e Stalin

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 novembre 2014)

L’opinione corrente relativa all’attacco nazista all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941 è che i russi furono colti completamente di sorpresa, dal momento che la decisione di Hitler di far marciare le sue truppe verso est rappresentava una clamorosa sconfessione degli accordi stipulati appena due anni prima e passati alla storia come patto Molotov-Ribbentrop. Innegabilmente c’è del vero in tutto questo, ma – secondo l’opinione dello storico americano John Lukacs, espressa nel volume 22 giugno 1941. L’attacco alla Russia, Corbaccio 2008 – i termini della questione vanno resi meno ambigui: chi fu colto di sorpresa fu essenzialmente Stalin, che di proposito ignorò tutti i segnali – che pure furono portati alla sua conoscenza – che lasciavano chiaramente intendere che la Germania stesse preparandosi per una guerra contro l’URSS.
Ambasciatori ed influenti uomini di governo di Inghilterra e Stati Uniti, ma anche membri dell’intelligence e della polizia politica sovietica, fecero il possibile per convincere il dittatore georgiano che di Hitler non c’era da fidarsi, facendogli peraltro notare l’ammassarsi minaccioso delle truppe del Reich in territorio polacco. Fino all’ultimo, però, Stalin non dette loro credito: la Germania era un paese alleato, ribatteva, e non sarebbe certo venuta meno agli accordi stipulati. La sua fiducia in Hitler, in altre parole, era totale, al punto che ancora il 17 giugno (cinque giorni prima dell’invasione), quando il commissario della sicurezza di Stato Merkulov depositò sulla sua scrivania un rapporto in cui si diceva che l’attacco tedesco sarebbe stato sferrato «da un momento all’altro», Stalin reagì con stizza, mandando letteralmente «a farsi fottere» la fonte di Merkulov, la quale altro non era – con tutta evidenza, dal suo punto di vista – che un «disinformatore».
Secondo Lukacs, la miopia di Stalin ha dell’incredibile: «Solo qualche settimana prima di giugno, le commissioni di confine congiunte tedesco-sovietiche avevano ispezionato e segnato le linee esatte di demarcazione, in particolare dove la frontiera non coincideva con un fiume. Attraverso le piatte, verdi e malinconiche pianure polacche era impossibile nascondere o anche solo confondere ciò che stava accadendo dalla parte tedesca, cioè la concentrazione di masse enormi di uomini e di migliaia di macchine belliche. Inoltre, come avviene a ogni confine, per quanto sorvegliato, c’era sempre un piccolo rivolo di uomini e donne che, per i più diversi scopi, lo superavano di nascosto; e tra questi non pochi erano le spie e i sabotatori». Significativamente, nei primi mesi del 1941 le incursioni clandestine in territorio sovietico si moltiplicarono, per non parlare dei frequenti sconfinamenti aerei. Ma Stalin non volle sentire ragioni: fino alla fine, le sue direttive furono di «non aprire il fuoco».
Un simile comportamento è difficilmente spiegabile se non si tiene conto di una questione fondamentale: ovvero che tra le ragioni che determinarono la guerra tra Germania e URSS, l’ideologia ebbe un ruolo secondario. Contrariamente a quanto più volte è stato detto e scritto, Hitler non attaccò Stalin poiché riteneva inevitabile una prova di forza per annientare il bolscevismo, ma, al contrario, diede l’ordine di varcare la frontiera sovietica essenzialmente per motivi strategici, legati agli obiettivi di lunga durata che si era prefisso all’inizio della Seconda guerra mondiale. Per il dittatore del Reich, infatti, tutto era subordinato alla politica: egli si accordò con Stalin finché ritenne opportuno servirsi dell’appoggio dei sovietici (con i quali progettò di smembrare la Polonia e l’Europa nord-orientale, opportunamente divisa in due «sfere d’influenza»), salvo poi cambiare drasticamente rotta quando si persuase che annientare l’URSS fosse il solo modo per costringere l’Inghilterra alla resa.
Scrivendo a Mussolini per informarlo dell’invasione della Russia, Hitler fu piuttosto esplicito riguardo ai suoi obiettivi militari: «[Le speranze dell’Inghilterra] si basano unicamente sul presupposto: Russia e America. Non abbiamo alcuna possibilità di eliminare l’America. Ma è sicuramente in nostro potere eliminare la Russia». Il Fuhrer riteneva pertanto – e le sue argomentazioni paiono in effetti convincenti – che Churchill e Roosevelt si sarebbero trovati con le mani legate in caso di annientamento dell’URSS, giacché una Germania in armi padrona incontrastata del vecchio continente sarebbe stata pressoché inattaccabile dalle forze angloamericane. L’anticomunismo, in sostanza, non c’entrava nulla, o meglio: fu tirato in ballo per giustificare un gesto di per sé inspiegabile, ma va detto – sottolinea Lukacs – che tra le motivazioni che spinsero Hitler a dare il via all’operazione Barbarossa l’ideologia occupava un posto del tutto secondario.
Hitler giocò in sostanza una doppia partita a braccio di ferro. Una contro Francia e Gran Bretagna, interessate a trovare un’intesa antitedesca con l’URSS e altresì convinte che nazismo e bolscevismo non potessero in alcun modo sottoscrivere un accordo; l’altra con lo stesso Stalin, prima attratto nell’orbita germanica, poi pugnalato alle spalle. Il Fuhrer del resto era sicuro che l’Unione Sovietica non sarebbe mai scesa a patti con le potenze capitaliste occidentali, tanto più che i rapporti (anche commerciali) con la Russia erano buoni. Quanto a Stalin, va sottolineato che egli aveva un’alta considerazione del popolo tedesco (il nome stesso che adottò deriva dalla traslitterazione russa della parola stahl, in tedesco acciaio) e ammirava Hitler, di cui subiva il fascino e ammirava la risolutezza.
A parere di Lukacs non deve pertanto stupire la lentezza di riflessi del dittatore georgiano. Egli si sentiva forte del patto di non aggressione stipulato nel 1939 ed era propenso – per cultura ed educazione – a diffidare assai più delle democrazie occidentali che dell’autorevole Fuhrer della potente Germania nazista. Per questo aveva ignorato tutte le avvisaglie di guerra (e l’aspetto curioso della vicenda è che Hitler non fece poi granché per tenere segreti i preparativi dell’invasione), bollandole come subdoli tentativi di destabilizzare il governo sovietico; e per questo, anche dopo il 22 giugno, persistette nell’illusione che un accordo con i tedeschi fosse ancora possibile.
Chi seppe davvero intuire la potenziale portata dei tentennamenti di Stalin fu Churchill, il quale – precisa Lukacs – sapeva perfettamente che senza i russi gli Alleati non avrebbero mai potuto sconfiggere Hitler. Scrive infatti lo storico americano: «Il timore che Stalin potesse ancora concludere un patto con Hitler ossessionò Churchill fin quasi alla fine della guerra, e questo spiega molti degli infelici compromessi e delle concessioni che sempre gli accordò, e spiega anche l’esagerata formulazione di certe sue lodi a Stalin. (Non erano né basate sul calcolo, né completamente insincere, ma Churchill si decise a vedere in Stalin uno statista e un grande leader militare)».
Anche Hitler – il che è quantomeno singolare – condivideva queste opinioni: se infatti si decise ad attaccare Stalin e il suo impero, fu poiché ritenne che quella fosse l’unica mossa strategica praticabile per colpire al cuore il suo vero, mortale nemico: la Gran Bretagna. Il generale Franz Halder scrisse infatti sul suo diario che il 22 agosto 1941, in occasione di un colloquio, il Fuhrer precisò che il suo scopo era «eliminare definitivamente la Russia come alleata dell’Inghilterra sul continente e pertanto togliere all’Inghilterra qualsiasi speranza di un mutamento nella propria sorte». Concetto, quest’ultimo, ribadito ancora il successivo 28 ottobre in uno scambio di opinioni con l’ammiraglio Kurt Fricke: «La caduta di Mosca potrebbe addirittura costringere l’Inghilterra a firmare immediatamente la pace».
Ciò che Hitler sottovalutò fu, tuttavia, la capacità di resistenza degli inglesi e dei sovietici, che seppero incassare atroci sconfitte prima di lanciarsi, uniti in un’alleanza antinazista inizialmente non prevista dal Fuhrer, al decisivo contrattacco. Churchill e Stalin, di certo, non si amavano: ma Hitler, divenuto suprema minaccia per la stabilità europea e per la stessa sopravvivenza di URSS e Inghilterra come grandi potenze, riuscì con la sua aggressività ad avvicinarli, ancor prima del risolutivo intervento americano nel conflitto. Lo statista inglese, del resto, già alla vigilia del 22 giugno era stato piuttosto esplicito al riguardo: come riferì il suo segretario Jock Colville, egli affermò che se Hitler avesse invaso l’inferno, lui, almeno per una volta, avrebbe parlato bene del diavolo.  

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

Il manuale di storia nelle scuole e il falso mito dello studio oggettivo del passato

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 novembre 2014)

Per prima cosa, è necessario essere franchi: il manuale di storia non è un testo come un altro. Troppe aspettative, troppe polemiche – più o meno strumentali – lo pongono continuamente sotto i riflettori, al punto che è diventato quasi impossibile farne oggetto di una discussione che sia scevra di preconcetti influenzati dal mondo dell’attualità politica. Il punto, infatti, è che il manuale di storia, essendo nella stragrande maggioranza dei casi – ahimè – il solo libro riguardante il passato letto dall’italiano medio, non è percepito solo come uno strumento di lavoro, bensì, soprattutto, come un mezzo per un fine: quello dell’educazione dei giovani.
L’idea che sta alla base di questa visione è ovvia: i ragazzi studiano su un libro che ha il potere (quasi taumaturgico, verrebbe da dire) di influenzarli. Il modo in cui viene letto il passato, in altre parole, consente di programmare il futuro sulla base di un investimento educativo che deve essere il più accurato possibile. Nessuna tolleranza, dunque, per i manuali “faziosi”, giacché la storia deve essere raccontata in modo oggettivo ed imparziale. Ma un’aspettativa del genere ha senso? È realmente possibile eliminare la faziosità? E poi, soprattutto, cos’è la faziosità? Da cosa dipende?
Per rispondere, occorre sfatare un mito diffusissimo, e precisare che il manuale di storia oggettivamente perfetto non esiste. Il che ha senso solo a patto di fare chiarezza su un aspetto fondamentale: ovvero che la storia (intendendo con questo termine il fare storia, non certo, in assoluto, il passato, giacché non tutto ciò che è passato è storia) non è una lineare concatenazione di eventi certificabili, bensì una continua interpretazione degli stessi. Se si accetta questa premessa, risulta evidente che ogni libro di storia rispecchia necessariamente la soggettività del suo autore, essendo peraltro ovvio – va da sé – che se la storia fosse semplicemente un elenco di fatti e date non ci sarebbe più nemmeno bisogno degli storici.
Dunque la storia è interpretazione, a tutti i livelli. Anche quando si stabilisce cosa ricordare e cosa tralasciare, di fatto, si interpreta il passato, stabilendo che un dato avvenimento è degno di nota e merita di essere tramandato. Qualsiasi fatto, perciò, può entrare di diritto nella storia, a condizione che uno storico reputi utile (per le più diverse ragioni – e qui entra in gioco la soggettività) trasmetterlo ai suoi lettori. Ma questo – si dirà – cosa c’entra con la faziosità? C’entra poiché molti, specie nel mondo della politica, sono convinti che il manuale debba attenersi ai “fatti” (altro falso ma suadente mito) e risparmiare agli studenti (manco fossero creature indifese, incapaci di maturare convinzioni che non siano il prodotto di una “manipolazione”) le interpretazioni, veicolo di faziosità. Il che è un’assurdità, dal momento che il manuale non potrà mai essere quello che un libro di storia, per sua stessa natura, non è, ovvero un racconto compilato – per dirla con Edward Hallett Carr – mettendo insieme i fatti «come i pesci sul banco del pescivendolo».
La pretesa oggettività dei manuali (oltre ad avere un significativo precedente nel sussidiario unico per la scuola elementare introdotto nel 1930 dal regime fascista, sulla base – ha scritto Piergiovanni Genovesi – dell’«aspettativa che esso  dovesse essere un contenitore di verità assolute») non è altro, perciò, che un falso e pretestuoso problema. Il che non significa che tutti i manuali siano ben scritti e che ogni interpretazione del passato sia condivisibile. Esistono manuali e manuali, alcuni pregevoli, altri decisamente scadenti. Tuttavia, pensare che un manuale, per essere soddisfacente, debba avvicinarsi quanto più possibile a un elenco asettico di nozioni incontestabili è una stupidaggine, resa purtroppo credibile da una classe dirigente miope ed in gran parte pressoché completamente digiuna di studi storici.
Ad ogni modo, negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse iniziative – tutte risoltesi, alla fine, in un nulla di fatto – volte a screditare i metodi di insegnamento della storia nelle scuole. Riassumendo, nel 2000 il Consiglio Regionale del Lazio delibera l’istituzione di una commissione di esperti per esprimere una valutazione sui manuali più diffusi nelle scuole; nel 2002 – a partire dalla considerazione che «nelle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento della storia [...] deve svolgersi attraverso l’utilizzo di testi di assoluto valore scientifico che tengano conto in modo obiettivo di tutte le correnti culturali e di pensiero, per un confronto democratico e liberale che assicuri un corretto apprendimento del passato» – viene presentata una proposta di legge per sollecitare il Governo affinché intervenga per risolvere l’annosa questione della faziosità dei manuali; nel 2011, infine, si giunge alla richiesta di istituire una Commissione parlamentare per affrontare il problema «dell’idea gramsciana» che costituirebbe il fondamento dell’insegnamento della storia nella scuola.
Sotto accusa è finita, in particolare, la cosiddetta egemonia culturale della sinistra, responsabile – a detta dei promotori delle iniziative sopra ricordate, tutti appartenenti a formazioni politiche di centro-destra – dell’indottrinamento ideologico di cui sarebbero vittime gli studenti italiani. Ma va detto che l’intero mondo accademico, compresi diversi storici non catalogabili come “di sinistra”, ha preso le distanze dalla polemica sui manuali, rivendicando, non senza un certo risentimento, l’autonomia della storiografia, la quale non può essere soggetta ai dettami di una Commissione parlamentare. Tra i vari pareri espressi dagli storici, forzatamente chiamati in causa, merita di essere citato quello di Franco Cardini: «I nostri amici politici, tranne rare eccezioni, non conoscono il mestiere dello storico e hanno una visione ingenua della storia. Pensano che sia una scienza pura. Ma non è così. Non lo è nemmeno per la fisica e la chimica. La scienza è dinamica per sua natura, si mette in discussione costantemente. La verità assoluta si trova in altre espressioni dello spirito umano, per esempio la teologia».
Il manuale, in sostanza, non può essere un Vangelo. Ed è altresì assurdo pretendere che esso – sul modello dei moderni talk-show – rispetti i parametri della par condicio, come se le interpretazioni potessero bilanciarsi per non arrecare troppo disturbo ad una determinata parte politica. Piuttosto occorre domandarsi cosa è lecito aspettarsi da un manuale di storia; e avere l’intelligenza di rispondere che esso rappresenta uno strumento (tra i tanti disponibili) e non un mezzo. Il che, si badi, non significa affatto che un manuale non possa essere criticato: tutto al mondo è perfettibile, e in questo senso l’insegnamento della storia non fa certo eccezione. Tuttavia, è necessario sgombrare il campo da equivoci: i difetti più ricorrenti riscontrabili nei manuali scolastici sono legati più che altro alla loro stringatezza. È l’estremo bisogno di sintesi – di cui sembra soffrire un po’ tutta la nostra società, che va sempre di fretta ed è assillata da una sorta di implicito diktat che le impone di non sottrarre troppo tempo alle attività cosiddette produttive – il primo responsabile della trascuratezza con cui diversi manuali affrontano molte delicate questioni riguardanti il nostro passato. Detto altrimenti, il vero problema è che si studia e si legge troppo poco, e il manuale, da utile strumento qual era e dovrebbe essere, viene investito della pesante responsabilità di essere diventato l’unico strumento a disposizione degli studenti.
La scuola dovrebbe favorire l’approfondimento, stimolare il ragionamento, moltiplicare – e non ridurre al minimo – le letture obbligatorie. Solo così facendo le lacune del manuale (in parte inevitabili, giacché esso – anche se non nelle misure attuali – deve necessariamente attenersi ad un minimo di sinteticità) possono essere colmate e risultare innocue. In sostanza, pretendere di risolvere i problemi legati all’insegnamento della storia nelle scuole con la sola revisione dei manuali non ha alcun senso, oltre ad essere un modo indiretto (ma proprio per questo fastidioso) per dichiarare la più assoluta sfiducia nelle capacità di analisi degli studenti.
Migliorare i manuali, pertanto, è possibile ma, al contempo, inutile se non si va oltre il mito della didattica da libro unico. Al riguardo, e in conclusione rispetto a quanto detto finora, è senza dubbio degna di nota la riflessione di un docente di Storia contemporanea, Piergiovanni Genovesi: «Il confronto tra posizioni e giudizi divergenti può e deve essere compiuto, ma ciò non elimina la responsabilità soggettiva di offrire un quadro interpretativo preciso, coerente, ed anche perfettibile: esso può infatti essere oggetto di rielaborazione, ma ciò deve avvenire su sollecitazioni interne al dibattito storiografico, non certo perché sgradito ad una qualsivoglia parte politica o per volontà di una Commissione di natura politica. Solo in questo modo lo studio della storia può difendere e sviluppare la propria valenza educativa, che s’incentra sulla sua capacità di essere una palestra per le capacità critiche dell’individuo».

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

La storia sempre “contro” dei giornalisti e l’ossessione tipicamente italiana per i complotti

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 ottobre 2014)

Da diversi anni, ormai, è in corso una singolare contrapposizione tra gli storici di professione (ovvero i professori universitari) e i giornalisti prestati alla storiografia. I primi – va da sé – si comportano con i secondi come farebbe un fratello maggiore nei confronti del minore: sono costantemente preoccupati, cioè, che non facciano troppo di testa loro e che seguano i consigli di chi con la storia si guadagna il pane. Quanto ai giornalisti, invece, essi hanno spesso la presunzione di voler scrivere una storia “contro”, inedita, che i professori – non è dato sapere per quale ragione – avrebbero interesse a tenere segreta, come a voler celare una verità scomoda e imbarazzante. Si tratta di una prassi oramai consolidata, ben messa in luce da Mario Isnenghi (docente di Storia contemporanea): «Nei meccanismi dissociativi di oggi, così nei confronti del Risorgimento come dell’antifascismo e della Resistenza, è d’uso stigmatizzare “storie ufficiali” e “vulgate” che, a rigore, non serve neppure tratteggiare: basta battezzarle così per liquidarle».
In questo, ci sentiamo di concordare con Isnenghi. Non è affatto vero che nelle aule universitarie la storia si insegna male, o meglio: non è vero che si insegna male dappertutto, che i professori al giorno d’oggi non valgono niente, che le cosiddette verità scomode vengono taciute, e così via. Esistono docenti preparati, disponibili e – cosa più importante – tutt’altro che ottusi, politicamente parlando. Anzi, oggi più di ieri – dopo la fine di quella che Pietro Scoppola definì «repubblica dei partiti» – è possibile parlare liberamente in aula, senza timore che un commento un po’ stonato (revisionista?) venga censurato o, peggio, procuri insulti o alzate di mani. Poi è ovvio: ci sono professori e professori. Come in ogni categoria, c’è il più bravo e il meno bravo; ma sostenere che i libri di storia (quelli scritti da professionisti) siano tutti scadenti e reticenti è una stupidaggine.
Piuttosto, c’è da chiedersi se i contributi storiografici firmati da giornalisti o non addetti ai lavori siano sempre attendibili, rigorosi e fondati su una scrupolosa ricerca documentaria. Anche qui è sbagliato fare di tutte le erbe un fascio. Esistono “dilettanti” che danno alle stampe volumi pregevoli e, al contrario, autori di autentica spazzatura. E, va detto, in questa categoria, i primi sono molto meno numerosi dei secondi, se non altro per una ragione del tutto ovvia: se cerchiamo un bravo storico, è più facile che lo troviamo tra chi si occupa del passato a tempo pieno, così come accade per qualsiasi altro mestiere. Se infatti ho bisogno, per esempio, di un falegname, mi rivolgo preferibilmente a un professionista o a uno che intaglia il legno per hobby? Spesso e volentieri, quindi, un libro senza note, magari con un titolo a sensazione e scritto da un semplice appassionato che nella vita non ha mai varcato la soglia di un archivio, si rivela essere nient’altro che una congerie di banalità e imprecisioni.
C’è, infine, un ultimo mito da sfatare. Non è vero che la cosiddetta “storia ufficiale” sia impossibilitata – per fantomatiche questioni di casta, per servilismo, per opportunismo – ad affrontare determinati argomenti “tabù”. Queste sono solo leggende diffuse ad arte da chi, come certi dilettanti, cerca una scorciatoia per affermarsi in quello stesso mondo che apertamente denigra. Possibile, infatti, come ha giustamente rilevato Giovanni De Luna (docente di Storia contemporanea), che la storia dei quotidiani sia sempre «nuova» e in grado di fare emergere retroscena loschi e poco indagati? È veramente credibile che i docenti (soprattutto, per ovvi motivi, quelli di storia contemporanea) ordiscano complotti per occultare dinamiche e processi storici potenzialmente pericolosi per il mondo della politica? Per un mondo, poi, che quando esce un libro, firmato da un giornalista, stracolmo di accuse alla casta (collusione con la mafia, corruzione, leggi ad personam, vitalizi esorbitanti, e via dicendo) opta sempre per un imbarazzato silenzio, come se l’opinione pubblica non fosse cosa di cui curarsi. Davvero, cioè, possiamo e vogliamo credere che il passato sia chiuso a chiave, tenuto al sicuro lontano dalle destabilizzanti penne degli storici di professione, e, invece, il presente sia libero e accessibile a chiunque voglia parlar male del politico di turno? Che – per esempio – il Risorgimento o la Resistenza siano ancora un campo minato, in un tempo nel quale infangare l’intero Parlamento sembra essere diventato il primo sport nazionale?
Siamo seri, su. Anche perché i libri di storia, scritti da storici, esistono, e a decine. Quali sarebbero, poi, questi argomenti tabù? Stando a quanto si legge oggigiorno, il Risorgimento, la guerra civile e la guerra fredda (ma non solo, ovviamente) sarebbero da riscrivere. Ma è davvero così? O forse fa comodo credere che sia così, magari per vendere un certo tipo di storia secondo le esigenze della politica? È bene sapere, infatti, che gli storici di professione non costituiscono un blocco omogeneo: anche tra loro c’è chi la pensa bianco e chi nero. Come tutti, si confrontano, si scontrano e discutono. Talvolta persino litigano!
Il punto è che nel nostro paese viviamo ormai con l’assillo del complotto. Forse proprio perché nessuno si fida più della politica e, soprattutto, dei suoi interpreti (in certi casi francamente indifendibili), siamo tutti un po’ propensi a dubitare, per partito preso, di tutto ciò che è bollato come istituzionale, o come “ufficiale”, nel caso della ricerca storica. Ed ecco quindi che prendono piede alcune interpretazioni maliziose, costantemente alla ricerca – ha scritto Angelo d’Orsi (docente di Storia del pensiero politico) – «del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente»; le quali, quando non si fondano su fatti e avvenimenti inventati di sana pianta, giungono a conclusioni maliziose e, soprattutto, incuranti del pericolo più insidioso che minaccia ogni studioso (serio) del passato: l’anacronismo. Quando infatti si vuole fare un uso strumentale della storia (o anche, più banalmente, quando non si presta la dovuta attenzione), una tecnica efficace è quella di giudicare i fatti di ieri con le categorie mentali dell’oggi. Ad esempio: avrebbe senso infierire sulla figura di Arthur Schopenhauer, accusandolo di essere stato un uomo ottuso semplicemente perché – come moltissimi uomini del suo tempo – non stimava granché le donne dal punto di vista intellettuale? Chiaro che sarebbe fuori luogo, giacché applicheremmo al XIX secolo un giudizio che si adatterebbe ad un ipotetico Schopenhauer del 2014.
Altro esempio, per il quale riportiamo le acute osservazioni di Mario Isnenghi a proposito dei plebisciti risorgimentali: «C’è un abisso – certo – fra la parola d’ordine mazziniana del suffragio universale per eleggere nel 1849 un’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto scegliere la forma istituzionale dello Stato, e quello che è veramente avvenuto: i plebisciti unanimisti, senza una effettiva alternativa, e quelle cifre imbarazzanti. Nessuna riserva, da parte mia, nell’apprezzare moralmente quei pochissimi che ebbero il fegato di dire “no” [...]. Ma anche nessuna esitazione a riconoscere comunque in quei plebisciti l’espressione – sfigurata – di un grande principio radicalmente innovativo: un uomo, un voto. E tu non puoi – erede esplicito o tacito dei Borboni, del granduca, del papa-re o della Serenissima – irridere alle modalità operative dei plebisciti perché probabilmente in quelle votazioni ci sono stati dei brogli, omettendo che era proprio il voto, il principio stesso di chiamare tutto il popolo a votare, a costituire il motivo di scandalo all’epoca e la discriminante tra il vecchio e il nuovo».
A ben vedere, quindi, il vero problema non riguarda i libri di storia in quanto tali, ma la loro diffusione e l’uso che ne viene fatto. Gli storici di professione hanno versato fiumi d’inchiostro per spiegare dinamiche ed avvenimenti: se esistono zone d’ombra, esse sono casomai dovute a carenze, non a complotti. Ciò che manca davvero, in Italia, è la volontà di documentarsi sul passato, cioè, detto banalmente, la voglia di leggere la storia, quella scritta da chi (docente, giornalista o appassionato che sia) il passato cerca di prenderlo sul serio. Certo, un ostacolo ingombrante c’è, eccome se c’è: ed è l’oggettiva complessità dei libri di storia, spesso ostici per il lettore sprovvisto degli strumenti necessari per orientarsi nell’universo della saggistica. Ma un conto è affermare che un volume dato alle stampe da un docente universitario rimarrà sempre un prodotto d’elite; altra cosa è rassegnarsi ad affidare la divulgazione – che pure è indispensabile – a pennivendoli che non si fanno scrupoli a manipolare il passato per convenienze di parte. Parlare chiaro – come pretendono di fare certi autori allergici alle note a piè di pagina – non offre alcuna garanzia (anzi: c’è da essere sospettosi!) sulla qualità del prodotto che si ha tra le mani.
Occorre pertanto fare chiarezza su cosa ci si aspetta dalla storia, poiché è evidente che se la si studia con secondi fini allora qualsiasi manipolazione diventa possibile. Un dato, però, è certo: in Italia non abbiamo bisogno di scrivere in continuazione nuovi volumi infarciti di presunte clamorose rivelazioni; casomai, dovremmo sforzarci di leggere e diffondere i libri, seri, che già esistono. Solo in quest’ottica, infatti, è possibile interrogarsi sull’esistenza di vulgate e chiedersi come mai alcuni argomenti sono più conosciuti di altri. Per quale motivo, per esempio, i manuali scolastici trascurano alcune vicende? Perché a scuola si leggono più o meno sempre gli stessi libri? Per quale ragione alcune giornate della memoria sono sempre in prima pagina, mentre altre non fanno notizia? Queste sono le domande da porre. Il resto è un finto e pretestuoso problema.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia