lunedì 29 settembre 2014

Ungheria 1956: i drammatici giorni della rivoluzione

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 settembre 2014)

14-26 febbraio 1956. Durante il XX congresso del PCUS, Nikita Krusciov, in un rapporto destinato a diventare celebre, pronunciò una durissima requisitoria contro Stalin (morto nel 1953) e i crimini perpetrati dal suo regime. Il significato delle parole del segretario comunista era chiaro: attaccare il dittatore da poco scomparso e il suo esasperato culto della personalità per farne una sorta di capro espiatorio e salvare, al contempo, l’immagine del modello sovietico, che nessun comunista doveva osare mettere in discussione.
A dispetto però delle intenzioni rassicuranti del suo autore, il rapporto Krusciov ebbe effetti traumatizzanti sia per i partiti comunisti occidentali – comprensibilmente spaesati e confusi di fronte ad un’iniziativa che non aveva precedenti –, sia, soprattutto, per i paesi dell’Europa dell’est, dove sorse spontanea l’illusione che la destalinizzazione fosse il preludio ad una progressiva democratizzazione della società. A soffiare sul fuoco di una potenziale (e prematura) rottura con Mosca furono in particolare Polonia e Ungheria. Nel primo caso, gli operai – con l’appoggio di una Chiesa cattolica che aveva saputo resistere alle persecuzioni sovietiche – diedero vita a ripetute agitazioni che culminarono, nel giugno del 1956, nel grande sciopero di Poznan. La repressione non si fece attendere, ma non fu sufficiente a placare la protesta, che sfociò nel cosiddetto ottobre polacco: il risultato fu un ricambio ai vertici del partito e del governo, che favorì l’ascesa al potere di Wladyslaw Gomulka (liberato dal carcere – dove era stato rinchiuso poiché sospettato da Stalin di deviazionismo – proprio in conseguenza della pubblicazione del rapporto Krusciov). Questi promosse una cauta liberalizzazione, ma si impegnò a non rompere l’alleanza con l’URSS e a non mettere in discussione la permanenza della Polonia nel blocco socialista.
Diverso, e ben più drammatico, fu il caso dell’Ungheria. Per tutta l’estate, come in Polonia, si ebbero agitazioni animate prevalentemente da studenti ed intellettuali; poi in ottobre la situazione degenerò, con la protesta che assunse il carattere di un’autentica insurrezione che coinvolse anche un numero ingente di lavoratori.
Centro dell’opposizione antisovietica fu, inizialmente, il circolo Petofi (dal nome del poeta ed eroe nazionale Sandor Petofi, figura chiave della rivoluzione ungherese del 1848), che era divenuto celebre per aver organizzato, il 19 giugno del 1956, una commemorazione di Laslo Rajk – leader comunista condannato a morte nel 1949 con l’accusa di nutrire simpatie titoiste – nella quale era stata chiesta la punizione di uno dei principali accusatori dello stesso Rajk, il primo esponente dell’ala stalinista nonché segretario del partito, Matyas Rakosi. Prontamente, questi reagì facendo espellere dal PCU gli esponenti del circolo più vicini alle posizioni moderate (cioè rivoluzionarie), ma, così facendo, si ritrovò pressoché isolato, tanto che gli stessi sovietici reputarono più conveniente farlo dimettere dalla carica di segretario, che fu assunta da un altro ex stalinista, Erno Gero. Questi, insieme con il presidente del Consiglio Andras Hegedus (anch’egli stalinista), fece qualche concessione formale, ma non riuscì a fermare la protesta popolare, che anzi degenerò in rivolta quando, il 22 ottobre, a Budapest si seppe che Gomulka era stato nominato segretario del Partito comunista polacco.
L’insurrezione, secondo la ricostruzione che ne fa Enzo Bettiza nel volume 1956. Budapest: i giorni della rivoluzione (Mondadori 2006), conobbe cinque fasi.
La prima ha inizio nella prima parte della giornata cruciale del 23 ottobre con una grande manifestazione popolare che si tiene presso il monumento di Petofi a Pest. La gente inneggia apertamente alla Polonia, presagendo un imminente futuro segnato da un progressivo allontanamento dall’orbita di Mosca. La tensione è altissima, come testimoniano le parole scritte dallo storico Francois Fejto a commento di quelle ore: «Nell’Ungheria, che almeno all’apparenza è ancora dominata da un potere comunista, il comunismo in quanto partito, organizzazione, ideologia, è sul punto di essere liquidato e rigettato come un corpo estraneo».
Nella seconda metà di quel fatidico 23 ottobre ha inizio la seconda fase. I dimostranti chiedono la partenza immediata dei militari sovietici e si spingono fino a distruggere l’imponente statua di Stalin nella piazza degli Eroi a Budapest. Inneggiano a Imre Nagy (comunista “liberale” che era stato espulso dal partito dopo avere ricoperto la carica di Primo ministro tra il 1953 e il 1955), ma ricevono in cambio, per tutta risposta, le parole stizzite di Gero, che definisce i ribelli «fascisti» e «terroristi bianchi». È la goccia che fa traboccare il vaso: i manifestanti, inferociti, assediano l’edificio della radio inveendo contro il segretario del PCU, scatenando la reazione della polizia politica. Questa apre il fuoco sulla folla, uccidendo decine di persone. Verso mezzanotte si rende necessario l’intervento delle truppe sovietiche di stanza nel paese. È l’inizio della rivoluzione.
La terza fase è segnata dall’inizio vero e proprio dei combattimenti e dalla proliferazione di «Consigli rivoluzionari» che mobilitano la popolazione contro l’esercito russo. Su pressione degli insorti, a sostituire Gero alla guida del partito è chiamato Janos Kadar, un comunista un tempo vicino a Rakosi, passato anch’egli attraverso la reclusione a causa di presunte simpatie titoiste. Nel frattempo, Nagy ha assunto la presidenza del Consiglio, ma – nota Bettiza – è disorientato e frastornato, consapevole di essere stato tirato in ballo al solo scopo di placare una rivolta che, in realtà, pare di ora in ora sempre meno controllabile. «Non si dimentichi – precisa infatti lo storico originario di Spalato – che Imre Nagy è comunista da trent’anni, è un vecchio kominternista educato alla scuola di Mosca, e che non è facile per lui accettare a cuor leggero le violenze antisovietiche e vedere un nemico assoluto nell’Armata Rossa». Inizialmente il suo governo, un esecutivo moderatamente aperto alle altre forze politiche, si mostra cauto; la sera del 28 ottobre, tuttavia, Nagy rompe gli indugi: viene riconosciuto il carattere nazionale e democratico della rivolta e sono annunciati l’avvio dei negoziati e l’imminente ritiro delle truppe sovietiche. La rivoluzione sembra a un passo dalla vittoria.
La quarta fase è così riassunta da Giuseppe Mammarella nella sua Storia d’Europa dal 1945 a oggi (Laterza 2006): «Il nuovo governo aveva vita breve e il 30 ottobre ne veniva formato un altro, ma questa volta a fianco di Nagy prevalevano elementi anticomunisti e anche nel paese il movimento per un comunismo più democratico e nazionale si trasformava in una rivolta anticomunista. Venivano ricostituiti i vecchi partiti, riemergevano figure del passato regime, veniva liberato il cardinale Mindszenty in carcere da anni, e, il giorno dopo la sua costituzione, il governo decideva di denunciare la partecipazione ungherese al patto di Varsavia e di dichiarare la neutralità». Per Mosca è davvero troppo, tanto più che la crisi di Suez e l’intervento congiunto franco-britannico in Egitto offrono un involontario assist agli uomini del PCUS che, in segreto, già stanno pianificando un risolutivo intervento armato.
Si giunge così alla quinta fase, caratterizzata dal tradimento di Kadar, il quale prima si mostra favorevole ad accogliere le decisioni rivoluzionarie di Nagy, poi – convocato dai russi prima all’ambasciata, successivamente direttamente a Mosca – non ha nulla da obiettare quando i sovietici gli chiedono (gli impongono?) di collaborare con il PCUS per pianificare l’intervento militare in Ungheria. All’alba del 4 novembre i carri armati sovietici irrompono nel paese, stroncando ogni resistenza in appena quattro giorni. Al loro ritiro, Kadar assume la guida del governo, mentre Nagy viene catturato: processato, sarà impiccato nel giugno del 1958.
Finiva così, nel sangue e sotto l’urto dei cingolati sovietici, la rivoluzione di un popolo che, in nome della democrazia, aveva osato ribellarsi al più longevo dei totalitarismi novecenteschi. Oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, quegli eventi fanno ancora rumore, se non altro per le ambigue reazioni che suscitarono nel panorama politico nostrano. Eminenti personaggi dell’Italia di allora si espressero in quei giorni con parole di fuoco, facendo eco a Togliatti che sull’«Unità» giunse a evocare concetti quali «terrore bianco», «banditismo», «teppismo horthista» e «controrivoluzione». Tra gli epigoni del Migliore, uno su tutti lascia tuttora interdetti, se si pensa che occupa da anni la poltrona di Capo dello Stato. Così si espresse, infatti, Giorgio Napolitano a proposito dei cosiddetti «fatti d’Ungheria»: «L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo». Parole che si commentano da sé, e per le quali Napolitano, in un recente libro autobiografico, ha chiesto scusa, giustificandole con ragioni quali «un certo zelo conformistico», «la preoccupazione [...] dell’unità del partito», e l’impossibilità – e questo, a ben vedere, è il punto cruciale – di «concepire il ruolo e l’azione del Partito comunista in Italia come inseparabili dalle sorti del “campo socialista” guidato dall’URSS». Il che lo porta poco dopo ad affermare che «di fatto non esistevano allora le condizioni per una scelta diversa da parte del partito». Che dire? Viva la sincerità, signor Presidente! 

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martedì 23 settembre 2014

«Assassinio di un filosofo»: la morte «imbarazzante» di Giovanni Gentile

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 settembre 2014)

«L’assassinio di Giovanni Gentile è la pagina più nera della storia della resistenza italiana». A scriverlo non è, come si potrebbe pensare, un “revisionista” alla Giampaolo Pansa o un fascista alla Giorgio Pisanò, bensì uno stimato docente universitario, uno – giusto per rendere l’idea – che collabora abitualmente con la trasmissione televisiva Il tempo e la storia, in onda tutti i giorni sulla “rossa” Raitre. Il suo nome è Francesco Perfetti, romano nato nella capitale nel 1943, ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma. A Gentile, il filosofo del regime (quello della celebre riforma della scuola datata 1923), Perfetti ha dedicato diversi studi, tra cui quello da cui è tratta la provocatoria citazione posta in apertura di questo articolo. Il libro in questione si intitola Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, pubblicato da Le Lettere esattamente dieci anni fa (e quindi nel sessantesimo anniversario della morte del padre dell’attualismo).
La tesi di Perfetti è che l’eliminazione di Gentile non faccia per nulla onore alla Resistenza, intesa quale movimento politico che, per legittimarsi nei confronti delle generazioni vissute nel dopoguerra, non può permettersi alcuna giustificazione di certe azioni, compiute nel suo nome, contrarie ai più elementari principi della moralità pubblica. Scrive infatti lo storico a proposito dell’assassinio di Gentile: «Avvenimento che non trovava giustificazione di alcun genere – né militare né politica, essendo il filosofo uomo che non ricopriva cariche pubbliche se non di natura esclusivamente culturale e che, ben conosciuto per la sua mitezza e il suo disinteresse, si adoperava per la conciliazione degli italiani – questo omicidio continua a imbarazzare – che lo vogliano ammettere oppure no – i comunisti (e i loro eredi postcomunisti) i quali ne furono, a livelli diversi, i mandanti e gli esecutori materiali. Esso pesa come un macigno sulla loro coscienza politica, ammesso che si possa parlare di coscienza per chi, come tanti personaggi coinvolti nella vicenda, misero la propria intelligenza e la propria indipendenza al servizio della ragion di partito».
Ma allora, il 15 aprile 1944 cosa spinse un commando di quattro gappisti fiorentini a far fuoco su un uomo di cultura, su un filosofo che certo era ed era stato fascista, ma che nella RSI non ricopriva alcun incarico politico ed anzi si prodigava per preservare il supremo valore, insidiato da più parti, della concordia nazionale? Se è vero – come in parte è vero, non c’è dubbio – che la Resistenza fu un movimento per la libertà, per quale motivo si giunse a condannare un uomo per le sue idee? È lecito, cioè, far fuori un intellettuale solo perché il suo pensiero – e non certo le sue azioni – è giudicato una minaccia? E infine: cosa conteneva la riflessione (politica e filosofica) di Gentile di così pericoloso?
Per rispondere, occorre innanzitutto tenere presente che quando si parla di Resistenza non si deve commettere l’errore di fare riferimento a un movimento omogeneo, in marcia compatto contro la dittatura. La Resistenza, infatti, ebbe diverse anime, tenute insieme dal collante dell’antifascismo più che dall’impegno comune in favore della democrazia. Per il PCI la collaborazione con le forze liberali era strumentale e finalizzata, nell’immediato, al definitivo abbattimento del regime di Mussolini; e non era certo un’alleanza del tutto trasparente, giacché i comunisti dipendevano da Mosca e avevano il fin troppo evidente obiettivo di instaurare, prima o poi, la cosiddetta dittatura del proletariato. Con ciò s’intende dire che, innegabilmente, se c’era una forza politica in grado di trarre giovamento dal clima di guerra civile che permeava la lotta di Liberazione, quella era senz’altro il PCI. I fascisti, infatti – e quelli più accorti se ne avvidero –, perché mai avrebbero dovuto soffiare sul fuoco delle contrapposizioni ideologiche proprio mentre un esercito pressoché inarrestabile stava risalendo la penisola? Non era più logico, dal loro punto di vista di sconfitti quasi certi, richiamarsi alla concordia nazionale per evitare inutili spargimenti di sangue? Al contrario, è del tutto evidente che per una forza rivoluzionaria come quella di cui i comunisti erano espressione, una forza cioè che ambiva a farsi egemone nel paese, la contrapposizione tra due blocchi divenuti inconciliabili era la conditio sine qua non di un’eventuale presa del potere. Il PCI, in altre parole, aveva bisogno che tutti facessero una scelta, che tutti si schierassero, che tutti prendessero posizione pro o contro il fascismo, con l’implicita premessa che una condanna del comunismo sarebbe stata interpretata dagli uomini di Togliatti come un atto intrinsecamente fascista. Vele la pena, dunque, ripetere la domanda: perché uccidere Gentile? E, provocatoriamente, porre un ulteriore interrogativo: a chi poteva nuocere il suo appello alla conciliazione?
Le parole di Togliatti a commento dell’assassinio aiutano a rispondere a queste domande. All’indomani dell’omicidio, il Migliore elogiò infatti apertamente i carnefici e definì il filosofo «bandito politico», nonché «camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana». Ed è interessante l’uso di questo aggettivo: «corruttore». A Gentile, cioè, non si perdonava la presunta volontà di fare un uso strumentale del richiamo alla pacificazione al solo scopo di risparmiare ai fascisti l’inevitabile resa dei conti. Sotto accusa, in particolare, era finito il Discorso agli Italiani pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, nel quale il filosofo aveva parlato – rivolgendosi «a tutti gli Italiani, fascisti o non fascisti» – della necessità di continuare a credere in una vittoria essenzialmente morale, «tenendo sempre alta [...] la bandiera della Patria»; e, ancor di più, il discorso pronunciato a Firenze il 19 marzo 1944 (quindi in piena RSI), in occasione della prima manifestazione pubblica della nuova Accademia d’Italia, di cui Gentile aveva assunto la presidenza. Significativamente, esso conteneva un chiaro appello alla concordia nazionale, condannava la guerra fratricida e deprecava la distruzione dei simboli della cultura e della religione.
Quello che Gentile cercava di ottenere – in assoluta buona fede, secondo l’opinione di Perfetti – era il riconoscimento del supremo valore della cultura quale collante in grado di unire gli italiani (l’Accademia, nelle sue intenzioni, doveva assolvere la missione della «custodia del fuoco sacro della Patria»). Ma l’obiettivo del filosofo era proprio ciò che i comunisti non potevano permettere, come emerge chiaramente da una nota pubblicata dal giornale clandestino «La Nostra Lotta» subito dopo il discorso del 19 marzo, che suona evidentemente come un’inappellabile sentenza di morte: «Quanti oggi invitano alla concordia, sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti oggi invitano alla tregua vogliono disarmare i Patrioti e rifocillare gli assassini nazisti e fascisti perché indisturbati consumino i loro crimini. La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, finché l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!».
Queste righe furono vergate da Girolamo Li Causi (responsabile della stampa e della propaganda nella direzione del PCI in Alta Italia), sulla base di un precedente intervento apparso sul quotidiano socialista di Lugano «Libera Stampa» a firma del noto latinista Concetto Marchesi. Quest’ultimo, in particolare, aveva preso posizione contro un articolo di Gentile pubblicato dal «Corriere della Sera» il 28 dicembre 1943, nel quale il filosofo, tra le altre cose, aveva scritto: «Colpire dunque il meno possibile; andare incontro alle masse per conquistarne la fiducia e richiamarle alla coscienza del comune dovere. Non insistere sempre sui tradimenti, che disonorano la Nazione e non soltanto i colpevoli, se questi erano a capo della Nazione. Non perseguitare pel gusto di una giustizia che si compia anche a danno del Paese; sentire una volta la nausea degli scandali, che era logico fossero inscenati quando si trattava di preparare l’obbrobrio dell’8 settembre e prostrare il Paese; ma non possono entrare nel programma della ricostruzione, che richiede rinnovata e salda fiducia del Paese nelle sue forze morali».
Come bene spiega lo storico comunista Roberto Battaglia, l’assassinio di Gentile era una conseguenza della presa di coscienza da parte del PCI della «necessità di colpire più a fondo, fino alle radici», al fine di instaurare una nuova egemonia culturale. I comunisti, conclude Perfetti, giacché non guardavano alla democrazia parlamentare come a un traguardo, avevano assoluto bisogno di conquistare «un ruolo di preminenza e in un certo senso di guida all’interno della coalizione antifascista, e ciò sarebbe stato possibile soltanto mettendo in difficoltà la componente più forte, quanto meno dal punto di vista intellettuale, della coalizione, ossia quella azionista di cui la maggior parte degli esponenti era di formazione gentiliana. Si comprende, quindi, perché l’uccisione di Gentile non potesse che essere funzionale al disegno rivoluzionario ed egemonico del Pci quale era stato concepito da Togliatti».

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giovedì 18 settembre 2014

«Berlinguer deve morire»: nel 1973 i servizi segreti bulgari attentarono alla vita del segretario del PCI?

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 settembre 2014)

Un recente libro dall’eloquente titolo Berlinguer deve morire (scritto a quattro mani dai giornalisti Giovanni Fasanella e Corrado Incerti per i tipi di Sperling & Kupfer) enuncia una tesi sconvolgente: il 3 ottobre 1973, durante il viaggio in automobile che doveva condurlo all’aeroporto di Sofia, da dove sarebbe ripartito per l’Italia, il segretario del PCI Enrico Berlinguer fu vittima di un terribile incidente stradale che, con ogni probabilità, fu tutto fuorché accidentale. Diversi indizi – seppur in assenza di prove certe – lasciano credere infatti che il leader del principale partito comunista occidentale fosse finito nel mirino dei servizi segreti bulgari, intenzionati – d’accordo con Mosca – a far fuori un personaggio che stava diventando sempre più scomodo per via delle sue posizioni “eretiche” antisovietiche.
La dinamica dell’incidente, in effetti, fu piuttosto anomala, e allo stesso Berlinguer fece pensare ad una messinscena. Il segretario del PCI viaggiava su una Chaika (un’auto di rappresentanza) nera, preceduto da una vettura con la scorta di polizia e seguito, a chiusura del corteo, da altre tre auto con dirigenti comunisti italiani e bulgari. Accanto a lui sedevano un interprete e due alti funzionari del PCB (Partito comunista bulgaro), oltre, naturalmente, all’autista. Improvvisamente, percorrendo un cavalcavia, la macchina con la scorta accelerò: di colpo, al suo posto sbucò un camion carico di pietre, che andò a schiantarsi contro l’auto di Berlinguer, scaraventandola contro un palo della luce. L’impatto fu tremendo: l’interprete perse la vita, mentre Berlinguer, l’autista e i due dirigenti bulgari se la cavarono miracolosamente. Con ogni probabilità, se il palo non avesse arrestato la corsa verso il baratro della Chiaka nera, i passeggeri sarebbero tutti morti.
Ma, al di là delle congetture, come fanno Fasanella e Incerti a parlare di attentato? Alla base della loro inchiesta è un’intervista rilasciata nell’ottobre del 1991 a Panorama da Emanuele Macaluso, nella quale l’ormai ex dirigente comunista (da poche settimane al PCI era subentrato il PDS) sosteneva la tesi che l’incidente occorso a Berlinguer nel 1973 fosse stato deliberatamente provocato. Macaluso aggiunse poi che era stato lo stesso segretario del PCI a confidargli, subito dopo il suo rientro in Italia, di sospettare di essere stato vittima di un attentato. Nessuno però – si era raccomandato in quell’occasione il leader comunista – avrebbe dovuto parlarne, giacché una tale rivelazione avrebbe compromesso la stabilità del partito. Con il risultato che il segreto era stato mantenuto per ben diciotto anni.
Le parole di Macaluso scatenarono, com’era prevedibile, un’ondata di proteste. In molti fecero notare che nell’auto di Berlinguer sedeva anche Boris Velchev – in pratica il numero due del PCB –, il che doveva essere prova sufficiente ad escludere l’ipotesi dell’attentato. Altri commentarono l’intervista uscita su Panorama con ironia: «A Est si guida da cani», fu una delle versioni più pungenti e sbrigative. In poche parole, tutti gli ex comunisti smentivano. E, con ogni probabilità, la vicenda si sarebbe chiusa lì, se a dare manforte a Macaluso non fosse intervenuta la vedova di Berlinguer, Letizia Laurenti. «Enrico sospettava che quello in Bulgaria non fosse un incidente», disse in un’intervista rilasciata all’Unità e pubblicata il 28 ottobre 1991. E aggiunse: «Ora mi rendo conto, da quanto hanno detto finora tutti coloro che in questi giorni hanno parlato, che lui non aveva confidato questo sospetto a nessuno. Ma a me raccontò di questa sua ipotesi appena tornò a casa da Sofia. [...] Da quanto mi risulta, non mise più piede in Bulgaria. [...] È chiaro che la cosa non poteva essere provata e lui non ne parlò assolutamente in giro. Del resto, Enrico non era uomo tale da mettersi a dire cose non suffragate dai fatti».
Dunque, se si presta fede alla vedova di Berlinguer, il segretario del PCI era convinto che in Bulgaria i vertici del regime avessero tentato di eliminarlo. Ma perché avrebbero dovuto farlo?
Motivi di frizione tra il PCI e il blocco sovietico non mancavano di certo in quegli anni, soprattutto dopo che i comunisti italiani avevano in larga parte condannato la repressione della Primavera di Praga nel 1968. Ma, nel caso specifico dell’incidente di Sofia, sono più che altro alcune evidenti anomalie a lasciare perplessi e a non consentire di scartare l’ipotesi del complotto.
Innanzitutto, recatisi in Bulgaria nel 1991, Fasanella e Incerti scoprirono che negli archivi ufficiali non c’era traccia dello schianto della Chaika nera di Berlinguer, con la sola eccezione di alcune fotografie (di per sé, peraltro, innocue). Ma un documento importante i due giornalisti riuscirono comunque a scovarlo: si trattava del verbale stenografico dell’incontro tra Berlinguer e il segretario del PCB Todor Zhivkov, avvenuto il 1° ottobre 1973. Leggendolo, Fasanella e Incerti si resero immediatamente conto che i colloqui ufficiali tra i due leader si erano svolti in un «clima incandescente».
«Noi pensiamo – disse Berlinguer – che in Italia una delle strade per evitare la spaccatura del Paese [...] sia quella di unire il proletariato con il ceto medio, di creare legami con altre forze politiche democratiche». Quello che il segretario del PCI stava delineando di fronte al suo interlocutore era in sostanza il progetto del «compromesso storico»: un progetto che Zhivkov mostrò apertamente di non condividere. «Che cosa significa questa nostra via democratica per il socialismo?», replicò infatti stizzito, mettendo bene in risalto, con l’aggettivo «nostra», che i partiti comunisti dovevano seguire una linea condivisa (cioè quella imposta da Mosca). Poi aggiunse: «Noi non puntiamo su un cammino pacifico. Anzi, affrontiamo la contrapposizione [altra parola chiave] prendendo in considerazione le due strade, armata e pacifica».
Zhivkov proseguì lanciando anatemi contro quei paesi, come la Cina, la Jugoslavia e la Romania, che intendevano seguire una linea autonoma da quella sovietica, giungendo infine alla conclusione che occorresse rafforzare «la linea comunista» attraverso una conferenza internazionale dei partiti. Ma anche su questo punto Berlinguer dissentì: «In linea di principio, noi siamo contro una nuova conferenza. Sulla situazione attuale dei partiti comunisti noi usiamo questa espressione: unità nella diversità». Parole, queste, che alle orecchie del leader bulgaro dovettero suonare pericolosamente eretiche.
Lo scontro decisivo si ebbe però sui fatti di Praga di cinque anni prima. «Devo dire molto apertamente che sinora non abbiamo motivi per rivedere la posizione da noi già espressa nel 1968», affermò risoluto, senza troppi preamboli, Berlinguer. E fu a quel punto che Zhivkov si lasciò sfuggire una nemmeno troppo velata minaccia. Rispose infatti di essere stato lui stesso ad informare Mosca che a Praga «la situazione era pesante, che stavamo per perdere la Cecoslovacchia, che le conseguenze sarebbero state gravissime e che si doveva fare qualcosa». Quindi concluse: «Se bisogna condannare qualcuno per la nostra “invasione”, bisogna condannare noi, e personalmente me. Compagno Berlinguer, per la Cecoslovacchia, dovete portare me in tribunale».
Un secondo incontro tra i due leader comunisti, il 3 ottobre, ebbe nuovamente esito negativo. A darne notizia ai giornalisti fu il capo dei servizi segreti in persona, generale Iljia Kashev: «I colloqui vanno male, il programma iniziale è cambiato. L’ospite parte immediatamente». Poco dopo Berlinguer ebbe l’incidente. Indubbiamente, si trattava di una coincidenza inquietante. E non fu l’unica. L’inchiesta di Fasanella e Incerti fece infatti emergere altre informazioni rilevanti, come il fatto che l’autista del camion – secondo l’autorevole testimonianza di Konstantin Tellalov, alto dirigente bulgaro che quel 3 ottobre 1973 sedeva nella Chaika di Berlinguer – fosse un militare; o come il fatto che il segretario del PCI rifiutò le cure e pretese di partire il giorno dopo l’incidente con un aereo-ambulanza messo a disposizione dall’ambasciata italiana.
Non meno sconvolgente fu poi la testimonianza di Velchev (la cui presenza nell’auto di Berlinguer sembrava, come detto, escludere l’ipotesi dell’attentato), il quale confidò ai due giornalisti italiani che nel 1973 egli era in rotta con Zhivkov per via delle sue critiche rivolte contro la politica repressiva del regime. Il che, a suo parere, significava una cosa ben precisa: «Se era stato organizzato un attentato contro Berlinguer, la mia presenza e quella di Tellalov sull’auto non sarebbero state certo di ostacolo. Come si dice da voi, in Italia? Due piccioni con una fava?».
Possibile dunque che i vertici del blocco sovietico volessero Berlinguer morto? Di certo non c’è nulla, ma – come riconosce Walter Veltroni nella prefazione al libro di Fasanella e Incerti – «la bilancia non può che pendere dalla parte dell’attentato». Di sicuro, infatti, Mosca mal digeriva che il segretario del principale partito comunista occidentale rivendicasse l’autonomia del PCI e progettasse di approdare ad una linea di azione politica più marcatamente democratica. Eurocomunismo e compromesso storico furono i segni tangibili di quello «strappo» con l’URSS che si sarebbe concretizzato negli anni successivi all’incidente di Sofia. Strappo che, addirittura, portò Berlinguer ad affermare – in un’intervista a Giampaolo Pansa del 1976 – che si sentiva più «sicuro» all’interno del Patto Atlantico e – in una tribuna politica del 1981 – che «la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi». Mica male per un compagno!

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giovedì 11 settembre 2014

Il massacro di Katyn: storia di un eccidio negato per cinquant’anni

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 settembre 2014)

Tra l’aprile e il maggio del 1940 gli agenti del Nkvd (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, il padre del più celebre Kgb) sterminarono 25.000 cittadini polacchi – in prevalenza ufficiali dell’esercito, ma anche diverse altre categorie di prigionieri – caduti in mano sovietica durante l’occupazione della Polonia orientale, precedentemente concordata con la Germania nazista attraverso il patto Molotov-Ribbentrop. L’eccidio è ricordato come massacro di Katyn dal nome della località situata presso la città di Smolensk (sede di uno dei campi di concentramento riservati agli internati polacchi), dove nel 1943 furono rinvenute le fosse comuni scavate dai russi per occultare i corpi delle vittime.
Katyn, a prescindere dalla drammaticità dell’evento, è realmente un caso singolare. Per decenni la macchina propagandistica sovietica ha addossato ai nazisti la responsabilità della strage e, complice la sconcertante arrendevolezza delle potenze occidentali, è riuscita a tenere più o meno nascoste le colpe del regime staliniano. Solo durante il periodo della perestrojka Gorbaciov – che pure si mostrò eccessivamente prudente e reticente – consentì che alcuni documenti chiave venissero alla luce, rompendo un silenzio che durava ormai da cinquant’anni. Infine, fu il crollo dell’URSS a fugare gli ultimi dubbi, permettendo che fossero resi noti i nomi dei responsabili e degli esecutori materiali dell’eccidio.
Come anticipato, le origini e le ragioni del massacro vanno ricercate nel patto Molotov-Ribbentrop, di fatto il compimento della politica di avvicinamento reciproco tra i totalitarismi tedesco e russo promossa da Hitler e da Stalin a partire dai primi mesi del 1939. L’alleanza tra Berlino e Mosca era funzionale alla spartizione dell’Europa in due sfere di influenza, come l’occupazione “congiunta” della Polonia (invasa dalle truppe naziste il 1° settembre 1939 e dall’Armata Rossa due settimane dopo) si incaricò, di lì a poco, di dimostrare. Nell’architettare il piano d’azione sovietica, Stalin diede prova di grande cinismo, progettando di trarre beneficio da una guerra che, nelle sue previsioni, avrebbe inferto un colpo mortale al capitalismo occidentale. Quanto poi alla Polonia, vittima sacrificale destinata ad essere fagocitata dall’imperialismo russo-tedesco, la sua posizione – stando a quanto riportato sul suo diario dal segretario generale del Comintern Georgij Dimitrov – era chiara: «È uno stato fascista, opprime gli ucraini, i bielorussi ecc. Nella situazione attuale la distruzione di questo stato significherebbe uno stato borghese fascista di meno! Che cosa ci sarebbe di male se, come effetto della sconfitta della Polonia, noi estendessimo il sistema socialista a nuovi territori e popolazioni?».
La Russia, ad ogni modo, aggredì la Polonia senza dichiarazione formale di guerra, tentando di presentare l’invasione come «una mano fraterna» tesa al popolo polacco per impedire l’ingresso delle truppe tedesche nelle regioni orientali in cui vivevano ucraini e bielorussi. La guerra fu brevissima – per via della schiacciante superiorità russo-tedesca – e fruttò ai sovietici il 52% del territorio polacco e circa 250.000 prigionieri. Di questi, oltre 25.000 scomparvero, di lì a poco, nel nulla. Una lettera di Berija a Stalin del 5 marzo 1940 consente di fare chiarezza sull’accaduto. In essa, infatti, il capo del Nkvd suggeriva al dittatore di sottoporre al Commissariato del Popolo «1) i casi relativi ai 14.700 detenuti che si trovano nei campi per prigionieri di guerra: ex ufficiali polacchi, funzionari, proprietari terrieri, agenti di polizia e dei servizi segreti, gendarmi e guardie carcerarie, 2) e parimenti i casi relativi ai circa 11 mila detenuti che si trovano nelle prigioni delle regioni occidentali di Ucraina e Bielorussia: membri di diverse organizzazioni spionistiche e sabotatrici, ex proprietari terrieri, imprenditori, ex ufficiali polacchi, funzionari e traditori». Trattandosi – argomentava Berija – di «nemici inveterati e incorreggibili del potere sovietico», la lettera consigliava di «esaminare i casi secondo una procedura speciale, applicando nei confronti dei detenuti la più alta misura punitiva: la fucilazione».
Le richieste di Berija furono prontamente accolte dal Politburo (l’ufficio politico del Partito comunista sovietico), che non esitò ad autorizzare una «procedura speciale» per l’immediata esecuzione dei prigionieri, ovvero – sono sempre parole del capo del Nkvd – «senza mandare i detenuti a processo, senza elevare a loro carico capi di imputazione, senza documentare la chiusura dell’istruttoria e senza formulare accuse». In sostanza, il regime comunista decideva di sbarazzarsi di 25.000 uomini considerati nemici di classe in quanto – ha scritto Victor Zaslavsky – «membri della nazione polacca che nel futuro avrebbero potuto guidare una lotta per la sua rinascita».
Ma cosa accadde in seguito? Nel giugno del 1941 le armate hitleriane invasero l’URSS, sottraendo ai russi i territori in cui si trovavano i campi che erano stati riservati ai detenuti polacchi. Meno di due anni dopo, precisamente il 13 aprile 1943, i tedeschi annunciarono di avere scoperto le fosse comuni di Katyn, dove – dissero – erano stati rinvenuti i corpi di migliaia di ufficiali polacchi fucilati dagli agenti del Nkvd. Immediatamente, per alimentare la propaganda antisovietica, fu istituita una Commissione medica internazionale d’inchiesta, incaricata di documentare scientificamente il massacro. La conclusione di quest’ultima fu che i cadaveri risalivano alla primavera del 1940: una data che accusava in maniera incontrovertibile i sovietici e che fu confermata anche da una Commissione tecnica della Croce Rossa polacca (che annoverava, all’insaputa dei tedeschi, alcuni membri della resistenza e che, per non favorire la propaganda nazista, preferì non pubblicare le proprie conclusioni, affidandole in gran segreto al governo britannico).
In seguito, quando l’Armata Rossa in avanzamento verso ovest recuperò Katyn, i sovietici si affrettarono ad istituire una propria Commissione per confutare i risultati dell’inchiesta internazionale. La nuova versione, scontata, addossava ai nazisti la responsabilità dell’eccidio, collocabile cronologicamente nell’agosto-settembre del 1941. In questa sede, per questioni di spazio, non è possibile entrare nel merito delle opposte conclusioni delle due Commissioni: basti dire, però, che i corrispondenti occidentali – appositamente invitati per accreditare la nuova inchiesta – notarono che i cadaveri degli ufficiali polacchi indossavano abiti invernali, di fatto costringendo – non senza imbarazzo – i sovietici a rettificare la data dei decessi e ad inserire questi ultimi in un arco temporale compreso «tra l’agosto e il dicembre del 1941».
La versione sovietica – sfacciatamente manipolata – fu ad ogni modo “protetta” dalla complicità occidentale, considerata la necessità, nell’immediato, di concentrare gli sforzi per annientare definitivamente la Germania nazista. Churchill, al riguardo, fu piuttosto esplicito, e al capo del governo polacco in esilio, Sikorski, che chiedeva spiegazioni su Katyn, rispose cinicamente: «Se sono morti non c’è niente che possa riportarli indietro. […] Dobbiamo sconfiggere Hitler e questo non è il momento per litigi e accuse». Posizione, quella inglese, che se era comprensibile in tempo di guerra, certo divenne ingiustificabile dopo il 1945, quando prevalse la volontà di evitare lo scontro diplomatico con una grande potenza (e di non compromettere vantaggiosi rapporti economici).
Anche Roosevelt, piuttosto indifferente rispetto al destino dell’Europa orientale, preferì non inimicarsi Stalin più del dovuto; il che contribuì a rafforzare la menzogna sovietica, che già aveva tratto credibilità dall’inconcludenza dei giudici alleati del processo di Norimberga, i quali, pilatescamente, avevano sorvolato sui fatti di Katyn. Di fatto, l’arrendevolezza occidentale convinse i russi a tenere duro. Scrive al riguardo Zaslavsky: «I servizi segreti sovietici approfittarono di questo clima di complicità e indifferenza per organizzare una campagna internazionale tesa a gettare discredito e costringere a tacere le persone che conoscevano il caso Katyn per esperienza diretta, in particolare quei membri della Commissione medica internazionale che vivevano nei paesi fuori del raggio d’azione immediata degli uomini di Berija. La loro sorveglianza fu affidata ai partiti comunisti locali».
Anche il membro italiano della Commissione, professor Vincenzo Palmieri, fu tenuto sotto stretta sorveglianza da parte del PCI e sottoposto a pesanti attacchi intimidatori, dal momento che non accettava di ritrattare la sua versione su Katyn. L’accanimento nei suoi confronti fu tale da spingere il corpo docente dell’Università di Napoli a chiederne l’allontanamento dall’insegnamento, il che non avvenne solo grazie all’intervento diretto del rettore Adolfo Omodeo. Era infatti il clima stesso della guerra fredda ad impedire che il PCI ammettesse le responsabilità sovietiche e accettasse che la verità prendesse il sopravvento sull’ideologia. Ancora nel 1990, giusto per fare un esempio, nella Storia dell’Unione Sovietica del comunista Giuseppe Boffa si leggeva che «la verità sulla tragedia di Katyn non potrà mai essere stabilita in modo oggettivo». Oggi, fortunatamente, dopo il crollo dell’URSS e l’apertura degli archivi sovietici, simili menzogne non sono più sostenibili. Resta però da chiedersi: quanti studenti, anche di livello universitario, attualmente conoscono questa pagina drammatica della storia contemporanea?

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L'eccidio di Porzus: il martirio dei partigiani bianchi della «Osoppo»

(articolo apparso su Prima Pagina del 31 agosto 2014)

Il 7 febbraio 1945, guidato da Mario Toffanin detto «Giacca», un commando dei GAP comunisti di Udine attaccò presso le Malghe di Porzus il comando delle formazioni partigiane «Osoppo» – di orientamento cattolico e azionista –, accusato di tradimento e collaborazione col nemico (in particolare a causa di alcuni contatti con la X MAS in funzione antislava). Quattro persone (il comandante, il commissario politico, un giovane volontario e una ragazza) furono fucilate immediatamente dopo il disarmo, mentre per i restanti osovani (diciassette) il destino si compì nei giorni successivi. «Costretti a scendere a valle e caricati su dei camion – scrive Elena Aga-Rossi –, furono portati nella zona del Bosco Romagno (Cividale del Friuli), dove furono trucidati a piccoli gruppi. Solo due partigiani, che accettarono di passare nelle fila garibaldine, furono risparmiati». Tra le vittime di quello che da allora è ricordato come l'eccidio di Porzus figuravano anche Francesco De Gregori (comandante della «Osoppo», zio dell'omonimo cantautore) e il fratello minore di Pier Paolo Pasolini, Guido, appena diciannovenne.
Ma come si arrivò a quella carneficina? Per prima cosa, occorre considerare che il comune denominatore dell'antifascismo non impediva ad osovani e comunisti di dividersi in modo radicale su una questione fondamentale: l'italianità del Friuli orientale e della Venezia Giulia, difesa con determinazione dai primi e, al contrario, avversata dai secondi per tenere fede all'alleanza – di natura ideologica – con i partigiani sloveni. I propositi di questi ultimi erano chiari. Come scrisse il leader comunista sloveno Edvard Kardelj in una lettera del 9 settembre 1944, tra le formazioni della Resistenza italiana occorreva «fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti»; il che, tradotto, significava che le forze di Tito non avrebbero dovuto «lasciare su questi territori nemmeno una unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici».
A fronte di questa aggressività slava, il PCI si mostrò opportunisticamente arrendevole. Il 17 ottobre 1944 Togliatti incontrò a Roma Kardelj, il quale in seguito commentò il colloquio col «Migliore» con queste parole: «Egli non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia, tuttavia ci raccomanda di applicare una politica nazionale atta a soddisfare gli italiani». A conferma di questa versione è sufficiente citare la missiva che lo stesso Togliatti, pochi giorni dopo l'incontro con Kardelj, inviò a Vincenzo Bianco, alto dirigente e rappresentante del PCI nella Venezia Giulia: nella lettera veniva impartita la direttiva di favorire con ogni mezzo «l'occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito» e di «prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dell'imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli». Superfluo sottolineare che i membri della «Osoppo» rientravano in questa categoria, anche perché – come ha scritto Tommaso Piffer – «erano [...] gli stessi comunisti a imporre i prerequisiti necessari per far parte del campo antifascista, tacciando di filofascismo ogni divergenza tattica o pregiudiziale anticomunista».
Le direttive di Togliatti furono presto accolte. In novembre le formazioni comuniste passarono infatti sotto il controllo di quelle slovene, che diedero inizio ad una violenta opera di propaganda antitaliana (fatta di minacce e di intimidazioni). Di fatto, come ricorda un garibaldino amico di alcuni esponenti osovani, gli sloveni pianificarono una slavizzazione forzata dei territori da loro occupati «con plebisciti, chiusura di scuole italiane, imposizioni della lingua slovena, il reclutamento coatto dei giovani». In pratica, a difendere la causa nazionale italiana rimasero le sole formazioni della «Osoppo», un serio ostacolo che si frapponeva tra le forze titine e la realizzazione dei loro piani annessionistici.
A questo proposito, giova citare un documento rinvenuto negli archivi di Stato inglesi e pubblicato nel 2008. A rilevarne l'importanza è ancora Elena Aga-Rossi: «Si tratta del resoconto di un incontro avvenuto in Val Resia il 1° gennaio 1945 tra un comandante di una brigata “Osoppo” operante in quella zona, Romano Zoffo, e gli sloveni. L'intenzione di questi ultimi, esplicitamente dichiarata nel corso del colloquio, era quella di ottenere il completo controllo militare della zona, per poi annetterla attraverso un plebiscito da tenere sotto la minaccia delle armi. La presenza di forze partigiane italiane autonome era evidentemente un ostacolo per la realizzazione di questo piano. Nel corso del colloquio gli sloveni intimarono il passaggio sotto il loro comando della formazione “Osoppo”, con la minaccia di procedere, in caso contrario, al disarmo delle forze osovane. La proposta fu seccamente respinta, e “Livio”, questo il nome di battaglia del partigiano, dichiarò che il destino della Val Resia sarebbe stato deciso dal trattato di pace. Questo scontro verbale non ebbe effetti immediati, ma suona come il prologo di una tragedia annunciata, che si sarebbe compiuta un mese dopo a Porzus».
Come è facile intuire, i punti centrali della questione sono essenzialmente due. Da un lato, l'apparente paradosso di un clamoroso ed efferato fatto di sangue che ha coinvolto due formazioni partigiane che, in teoria, avrebbero dovuto avere come primario obiettivo la comune lotta contro il nemico nazifascista; dall'altro, l'ambigua politica di un PCI che si presta al doppio gioco con Mosca, sacrificando la causa nazionale sull'altare dell'ideologia. A questo proposito è bene ricordare che già nel 1941 Stalin, in occasione di una visita a Mosca del ministro degli Esteri britannico Anthony Eden, aveva proposto una riorganizzazione dei confini europei per il dopoguerra che prevedeva che «la Jugoslavia dovrebbe essere ricostituita nei suoi vecchi confini e un po' ampliata a spese dell'Italia (Trieste, Fiume, le isole nell'Adriatico ecc.)». La strategia sovietica, del resto, era chiara: estendere il più possibile il territorio posto sotto il controllo delle formazioni comuniste, al fine di poterlo poi rivendicare, a guerra conclusa, nei confronti delle potenze occidentali (individuate come nemici in quella guerra fredda di cui già si avvertivano le avvisaglie). L'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia era dunque funzionale a questo intento, come prova, tra le altre cose, un telegramma datato 15 aprile 1944 inviato da Stalin e Molotov a Tito, nel quale il leader sovietico e il suo ministro degli Esteri dichiaravano di considerare la Jugoslavia «il nostro principale baluardo nell'Europa orientale meridionale».
Alla luce di queste considerazioni, non sorprende che il tema dell'eccidio di Porzus sia tuttora piuttosto delicato. In gioco entra infatti la credibilità del PCI quale partito nazionale, accusato di tradimento per aver operato a danno degli interessi italiani nelle regioni del confine orientale. Da questa accusa i responsabili dell'eccidio di Porzus furono assolti al processo di Lucca del 1952 (che pure inflisse 800 anni complessivi di reclusione a 33 imputati detenuti a ad altri latitanti) e, nuovamente, a quello di Firenze del 1954, anche se in quel caso si stabilì che gli imputati avevano compiuto la strage reputandola «utile e necessaria per conseguire lo scopo di distaccare dallo Stato Italiano parte del suo territorio» (l'assoluzione fu motivata dalla constatazione che, al di là dell'intenzione, occorreva che sussistesse un concreto pericolo di aggressione al suolo nazionale; questa interpretazione fu poi contestata dalla Corte di Cassazione, ma tutto si risolse nel nulla per l'intervenuta amnistia del 1958).
Ancora oggi, dopo settant'anni di controversie politiche e storiografiche, risulta complicato giungere ad una memoria condivisa dei fatti di Porzus, a causa soprattutto dell'ostinato rifiuto da parte dell'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sin da subito organizzatasi sotto l'egida del PCI) di riconoscere le responsabilità – morali e strategiche – del Partito comunista. Solo nel 2001 Giovanni Padoan (commissario politico garibaldino) e don Redento Bello (cappellano delle «Osoppo») si incontrarono alle Malghe per un tentativo di riconciliazione, che tuttavia non ebbe seguito. In quell'occasione, Padoan lesse un'importantissima dichiarazione, nella quale, tra le altre cose, si diceva: «L'eccidio di Porzus e del Bosco Romagno [...] è stato un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione. [...] Benché il mandante dell'eccidio sia stato il Comando sloveno del IX Korpus, gli esecutori, però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione del PCI di Udine, i cui dirigenti si resero complici del barbaro misfatto; e siccome i GAP erano formazioni garibaldine, anche se personalmente non sono stato coinvolto nell'eccidio, quale dirigente del PCI d'allora e come ultimo membro del Comando Raggruppamento divisioni “Garibaldi-Friuli”, assumo la responsabilità oggettiva [...]. E chiedo formalmente perdono e scusa agli eredi delle vittime».
Il perdono, infatti, è ciò che manca per porre davvero fine all'intera vicenda. Le ferite della Seconda guerra mondiale faticano a rimarginarsi proprio perché l'odio ideologico impedisce, ancora oggi, di trovare un punto d'incontro sulle responsabilità. L'eccidio di Porzus, del resto, lascia ben pochi dubbi su chi siano state le vittime e chi i carnefici. Commemorando il fratello pochi mesi dopo la sua morte, Pasolini lo disse chiaramente: «Essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler combattere per l'Italia e la libertà; non per Tito e il comunismo. Così sono stati ammazzati tutti, barbaramente».

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