lunedì 28 aprile 2014

Il «Canto degli Italiani»: il paradosso di un popolo che non conosce il proprio inno

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 aprile 2014)

Fratelli d'Italia / L'Italia s'è desta
Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria? / Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma / Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo, / Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica / Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme / Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci, / L'unione e l'amore
Rivelano ai popoli / Le vie del Signore.
Giuriamo far libero / Il suolo natio:
Uniti per Dio / Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia, / Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio / Ha il core, ha la mano;
I bimbi d'Italia / Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla / I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano / Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria / Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia, / E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco, / Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.

Prima di iniziare la lettura dell'articolo, immaginate di essere in un'aula di scuola. Chi scrive reciterà il ruolo dell'insegnante, chi legge quello dell'alunno. Argomento della lezione odierna: l'inno nazionale italiano.
Per prima cosa, alzi la mano chi lo conosce per intero. Sapevate, almeno, che consta di cinque strofe, e che la più conosciuta (quella, per intenderci, che cantano i calciatori in televisione) è solo la prima? Già qui vi vedo perplessi: alcuni annuiscono con il braccio alzato, i più guardano per aria smarriti. Pazienza, andiamo oltre.
Ora alzi la mano chi conosce il titolo dell'inno. Ne vedo una, laggiù. Come dici? Fratelli d'Italia? In realtà quello è il primo verso: tutti – è vero – lo chiamano così, ma il titolo nella prima edizione era – non lo sapevate, giusto? – Canto degli Italiani. Proseguiamo.
Ora ditemi, se lo sapete, il nome dell'autore. Oh, finalmente una selva di braccia alzate. Troppo facile, mi rendo conto: stiamo parlando dell'inno di Mameli, mica di una canzonetta del Festivalbar! Uno di voi mi dica soltanto chi era Mameli e quando scrisse l'inno, così passiamo subito a parlare del testo. Coraggio, chi vuole prendere la parola? Nessuno? Caspita, quindi devo dedurre che non sappiate nulla nemmeno di Mameli?
D'accordo, non mi dilungherò. Ma almeno due parole sull'autore del nostro inno nazionale è doveroso spenderle. Goffredo Mameli era un genovese nato nel 1827. A vent'anni, sotto l'influsso degli ideali mazziniani, compose l'inno e, attratto dalla politica a scapito degli studi universitari (che abbandonò prima di conseguire la laurea), prese parte ai moti del 1848 in Lombardia; l'anno seguente combatté al fianco di Garibaldi in difesa della Repubblica romana. Ferito sul Gianicolo, morì, malamente curato, il 6 luglio 1849.
Passiamo ora, finalmente, alla lettura del testo, soffermandoci sui passi che necessitano di un breve chiarimento.
Prima strofa: «Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa». Significa che l'Italia ha indossato l'elmo (ossia è pronta alla guerra) di Scipione Africano, il generale romano che nel 202 a. C. sconfisse Annibale a Zama. Annibale fu il nemico più agguerrito della Roma repubblicana, l'avversario per antonomasia; Scipione è quindi simbolo di vittoria e di riscatto, poiché vinse la Seconda guerra punica dopo la pesante sconfitta di Canne del 216 a. C.
Proseguiamo: «Dov'è la Vittoria? / Le porga la chioma / Ché schiava di Roma / Iddio la creò». La dea Vittoria, in altre parole, si offre all'Italia come sua schiava, così come, in origine, fu creata schiava di Roma (alle schiave, infatti, erano tagliate le chiome per distinguerle dalle donne libere).
Infine, nel ritornello, «Stringiamci a coorte» significa «impugniamo le armi», essendo la coorte un'unità della legione romana.
Procediamo con la seconda strofa. Qui la lettura è più agevole. Basti dire che l'Italia del 1847 era divisa in vari Stati, e Mameli auspicava che quella che egli sentiva, precocemente, come patria si unificasse sotto un'unica bandiera, secondo una speranza («speme») comune e condivisa.
La terza strofa richiede invece maggiore sforzo interpretativo. Essa è una sorta di sintesi del pensiero mazziniano, riassumibile nella celebre formula «Dio e popolo»: i popoli, cioè, erano investiti di una missione subordinata ad un disegno divino, il quale – a parere del fondatore della Giovine Italia – era espressione dello spirito insito nella storia dell'intera umanità. Quindi «L'unione e l'amore / Rivelano ai popoli / Le vie del Signore» significa che l'unificazione dell'Italia doveva necessariamente avvenire in ottemperanza ad un disegno divino, partendo però dal presupposto che l'unione non potesse prescindere dall'amore (ossia da un atto di fede nel riscatto della nazione). Mazzini riassumeva questo concetto con un'altra celebre formula, «Pensiero e azione».
Anche la quarta strofa richiede alcune spiegazioni. «Ovunque è Legnano» è un riferimento alla battaglia di Legnano del 1176, che oppose l'imperatore Federico Barbarossa alla Lega Lombarda, con la vittoria di quest'ultima e il conseguente riconoscimento di alcune importanti concessioni ai Comuni dell'Italia settentrionale.
Proseguiamo: «Ogn'uom di Ferruccio / Ha il core, ha la mano». Qui Mameli allude a Francesco Ferrucci, comandante delle truppe fiorentine che, nel quadro dell'estrema lotta in difesa della Repubblica, nel 1530 assalirono Gavinana, controllata dagli imperiali di Carlo V. In quell'occasione Ferrucci fu fatto prigioniero, per poi cadere trafitto dal pugnale di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura calabrese al servizio dell'imperatore. Da allora, nella lingua italiana «maramaldo» è divenuto sinonimo di persona spregevole, che infierisce sui vinti e sui deboli. Il passo dell'inno vuole quindi evocare un esempio di eroismo, proponendo l'immagine degli italiani come novelli soldati sotto il comando di Ferrucci.
Andiamo oltre: «I bimbi d'Italia / si chiaman Balilla». Il riferimento, in questo caso, è al ragazzo che nel 1746, in segno di ribellione, scagliò un sasso contro un drappello di soldati austriaci che presidiavano Genova. Fu l'atto simbolico con cui ebbe inizio l'insurrezione che cacciò gli asburgici dalla città, nel quadro della guerra di successione austriaca.
Terminiamo, infine, la strofa: «Il suon d'ogni squilla / I Vespri suonò». Mameli allude ai Vespri siciliani, l'insurrezione scoppiata a Palermo nel 1282 (all'ora del vespro del lunedì di Pasqua) contro il malgoverno angioino, a partire dalla quale ebbe inizio la guerra che scacciò i francesi dall'isola, con la successiva attribuzione della corona a Pietro III d'Aragona. Con «ogni squilla» si intendono le campane che chiamarono a raccolta il popolo palermitano per la rivolta. Tutta la quarta strofa evoca quindi episodi di ribellione contro l'occupazione straniera del suolo nazionale italiano.
Per concludere, l'ultima strofa è un duro attacco all'Austria, il nemico che ostacola il Risorgimento della patria. «Son giunchi che piegano / Le spade vendute» significa che i mercenari («spade vendute» allo straniero) sono destinati ad essere piegati dal riscatto della nazione. L'Austria è infatti una potenza in crisi («Già l'Aquila d'Austria / Le penne ha perdute»), tanto che il «Il sangue d'Italia / E il sangue Polacco» (metaforicamente bevuti «col Cosacco», ossia con la Russia, in accordo con la quale nel 1846 era stata repressa l'insurrezione polacca contro l'occupazione straniera) le hanno dilaniato, come un veleno, il cuore. Mameli in sostanza sta pronosticando la vittoria della causa nazionale italiana, che – al pari di quella polacca – sta progressivamente indebolendo l'Austria minacciandola dall'interno come un tumore che, a poco a poco, si ingrossa.
Bene, la lezione volge al termine. Restano solo alcune brevi considerazioni da fare, tralasciando peraltro il paradosso che l'inno di Mameli, formalmente, è ancora provvisorio, dal momento che non è mai stato ufficialmente istituzionalizzato né dalla Costituzione (che non lo nomina), né da un apposito decreto. Ma, ripeto, tralasciamo queste incongruenze, anche perché, se dal 1946 tutti cantano Fratelli d'Italia, significa che, concretamente, possiamo considerare definitiva la scelta del nostro inno nazionale. La prima osservazione è racchiusa in una domanda che è bene porsi, ovvero: nel 2014 gli italiani si sentono davvero rappresentati dalle parole di Mameli? Non credete – siate sinceri – che faccia un po' ridere vedere un ministro dell'attuale governo che si dichiara pronto alla morte? O Buffon e compagni che, mano sul cuore, prima di una partita dei Mondiali urlano a squarciagola che l'Italia s'è desta?
Sì, lo so. Avete ragione: la retorica è presente in tutti gli inni. Ma non pensate che la scelta del nostro inno avrebbe potuto essere diversa? Mameli evoca valori che, oggi, non sono mica poi tanto condivisi. Parla di guerra contro l'invasore, incita all'odio contro il secolare nemico. Nei suoi versi l'eroismo è esclusivamente militare, il che lascia un po' perplessi, visto che gli italiani, storicamente, non sono certo – salvo eccezioni, s'intende – dei soldati modello.
La verità, come sempre scomoda, è che nel 1946 di valori condivisi gli italiani, non ancora del tutto usciti da una terribile guerra civile, ne avevano ben pochi. La Costituzione fu un compromesso tra due partiti estranei alla tradizione risorgimentale (DC e PCI), che si incontrarono, provvisoriamente, sul terreno comune dell'antifascismo. Ma, con tutta evidenza, scegliere all'epoca un inno antifascista sarebbe stata una decisione coerente sì, ma troppo rischiosa. Si optò quindi per un inno di comodo, che lasciava indifferenti e non turbava nessuno. Siccome parlava di una storia vecchia e sepolta, era perfetto per la debole neonata democrazia repubblicana.
Vedo che siete delusi, e mi dispiace. Ma ignorare i problemi non è certo un buon modo per risolverli. Per il bene di Mameli e del suo Canto – che senza dubbio non ha senso, ormai, pensare di sostituire –, è giunta l'ora di aprire gli occhi e iniziare a studiare con lucidità il passato controverso del nostro paese. A meno che non si voglia continuare ad intonare, più che un inno d'Italia, un inno all'italiana.

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mercoledì 23 aprile 2014

Lodovico Antonio Muratori: la vita del grande letterato vignolese (terza parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 aprile 2014)

Negli anni compresi tra il 1717 e il 1723, Muratori si dedicò «al prodotto principale ed imperituro» della sua produzione: ovvero al progetto dei Rerum Italicarum Scriptores, l'opera che avrebbe segnato «il rinnovamento, o più precisamente la fondazione della moderna storiografia basata sulle fonti, ed in particolare la scoperta del Medio Evo» (F. Marri). La decisione di sobbarcarsi un lavoro così impegnativo venne motivata dallo stesso scrittore modenese con queste parole (che risalgono al 1721): «In mia gioventù altro io non aveva in testa che antichità greche e romane. [...] Per lo contrario mi facevano male agli occhi le fatture de' secoli susseguenti, la loro storia, i loro scrittori, riti, costumi e imbrogli, trovando io dappertutto del meschino, del barbaro (e infatti non ne manca), e parendo a me di camminare solamente per orride montagne, per miserabili tuguri e in mezzo a un popolo di fiere. [...] Mi rido ora di me stesso. Anche quel barbaro, anche quell'orrido (me ne avvidi poi tardi) ha il suo bello e il suo dilettevole».
La raccolta dei RIS, 24 volumi di fonti narrative della storia d'Italia dal 500 al 1500, fu compilata tra il 1723 e il 1738 (un ulteriore tomo fu pubblicato postumo nel 1751): per coprire le spese di stampa, precisa Fabio Marri, «era stata fondata a Milano una "Società Palatina" che aveva messo in piedi un imponente lavoro di "sottoscrizioni"». In totale, il Muratori pubblicò 116 fonti edite e oltre 2000 inedite, risultato raggiunto grazie alla determinazione con la quale il vignolese, dopo avere passato al setaccio le biblioteche Ambrosiana ed Estense, «mosse per lettera mezza Italia (e un po' d'Europa), alla ricerca di altri manoscritti medievali». L'idea che stava alla base del progetto era la centralità della fonte, l'unica in grado di offrire «quanto della storia costituisce il nocciolo, cioè una ordinata e chiara esposizione dei fatti».
Più in generale, la grande novità dell'opera era la rivalutazione di quella che, sino ad allora, era stata pressoché universalmente considerata un'età barbarica, indegna di essere accostata al fulgido periodo della classicità. Muratori, beninteso, non arrivava a superare il radicato pregiudizio che vedeva nell'età di mezzo una fase di profonda decadenza della civiltà europea; intuiva però che in quell'epoca così poco conosciuta andavano cercate le radici culturali della società settecentesca. A suo parere, nello specifico, «studiare il Medioevo significava anche esaminare e ripulire la tradizione paleocristiana ricorrendo a quelle conoscenze di patristica, paleografia, archeologia, epigrafia che consentissero di valutare i testi e di riportarli al loro tempo». Il tutto secondo una ben delineata prospettiva nazionale, essendo la nazione «il grande sostrato implicito che si esprimeva nel travaglio durissimo dei secoli oscuri come si era espresso attraverso la civile dominazione di Roma; e come […] si sarebbe dovuto esprimere, nei tempi più sereni che l'umanità del XVIII conosceva, nei termini e nelle forme di un buon governo misurato umano ragionevole» (M. Capucci).
Nella prefazione ai RIS il vignolese dava un'esauriente spiegazione del perché avesse deciso di riesumare i «secoli rozzi e infelici»: «Se dal secolo VI si presenta troppo afflitto e lacerato il volto e il destino d'Italia, [...] ciò non è da tanto che possa o debba distogliere la nostra mente dalla storia di quei tempi. Anche la conoscenza di quelle cose, infatti, è parte non trascurabile della cultura, e se ne siamo privi, facilmente il nostro corredo apparirà manchevole e noi incolti».
Muratori mirava in sostanza a ricostruire, attraverso lo studio del Medioevo, «la storia civile d'Italia» (e non quindi, si badi, una storia della storiografia, dal momento che – ha scritto Martino Capucci – «il suo interesse va ai fatti […], prima che alla resa letteraria dei testi»). In questo senso le successive opere storiche dovevano, nelle sue intenzioni, concentrarsi sull'insieme, ovvero sull'accertamento della verità storica entro una cornice nazionale italiana precocemente avvertita come unificante. Direttamente collegate ai RIS sono pertanto da considerarsi le Antiquitates Italicae Medii Aevi (pubblicate in sei tomi, dedicati a Federico Augusto III di Polonia, tra il 1738 e il 1742), opera nella quale, mettendo a profitto la lezione dei maurini e di Leibniz, Muratori intese «offrire un disegno unitario nel quale siano adeguatamente rappresentate le molte forme in cui si estrinsecò la vita sociale del Medioevo» (M. Capucci). La raccolta fu così presentata dal nipote nella citata Vita del proposto Lodovico: «Era il Muratori ben esercitato nella Critica Diplomatica, e nella conoscenza degli antichi caratteri, per averne fatto un lungo noviziato sopra i Manoscritti dell'Ambrosiana, e negli Archivi della Casa d'Este, e della Cattedrale di Modena; laonde poté arricchir l'Italia di una amplissima Raccolta di Documenti antichi; e questi poi a lui servirono per formar la grande Opera sua […], costituente in settantacinque Dissertazioni intorno i Riti, Costumi, Leggi, Dignità, Giudizi, Milizia, Mercatura, Arti, Contratti, e simili altri argomenti, che tutte insieme formano un'intera dipintura dell'Italia dopo la declinazione del Romano Imperio».
Rigorosamente delimitato cronologicamente a partire dalla disgregazione del mondo romano, conseguenza delle invasioni barbariche, il Medioevo diveniva pertanto per Muratori un imprescindibile punto di partenza non solo per l'approfondimento della storia delle istituzioni (Chiesa, signorie, comuni), ma anche per lo studio dei costumi, delle leggi, della demografia, dell'economia, della religiosità, dell'arte, della lingua e della letteratura. Anche per questa «grande varietà ed oscurità degli argomenti» trattati, le Antiquitates costarono al vignolese «maggior fatica» di tutte le altre opere. «Niun'altra», però – conclude Gian Francesco Soli Muratori –, «diede maggiormente a conoscere, quanto vasta e profonda fosse la sua erudizione [...]; né alcun'altra perciò si vide più di questa applaudita non men dagl'Italiani, che dagli Oltramontani Letterati».
Il successo delle Antiquitates convinse probabilmente il Muratori della necessità di completare «il proprio piano storiografico dandosi a un'opera richiestagli […] da tutta la cultura italiana» (F. Marri). Nacquero così gli Annali d'Italia (pubblicati in nove tomi nel 1744, con l'aggiunta di altri tre nel 1749), che videro la luce con l'intento – precisa Capucci – «di accompagnare alle due grandi raccolte medievali un racconto disteso che lo ordinasse annalisticamente». Il progetto prevedeva inizialmente di prendere in esame il millennio 500-1500, ma fu presto ampliato fino a comprendere il principio dell'era volgare; in seguito, tuttavia, ulteriori appelli spinsero il letterato modenese ad estendere la narrazione sino alla pace di Aquisgrana del 1748, che, giunta al termine della guerra di successione austriaca, parve porre fine a secoli di conflitti e devastazioni.
A caratterizzare l'opera era innanzitutto «il ripudio di tutte le interpretazioni finalistiche o provvidenziali», che emergeva anche da alcuni giudizi particolarmente severi espressi nei confronti della Chiesa di Roma e di alcuni papi, alla cui condotta politica il Muratori imputava la responsabilità dello scisma protestante (F. Marri). Più in generale, come ha notato Furio Diaz, «l'erudizione e il moderato razionalismo di Muratori formulano una serie di revisioni storiografiche, ispirate al ripudio della ragion di Stato secentesca e piene di un umanitarismo avverso alle guerre e alle violenze, sollecito del bene dei popoli anche se piuttosto timido di fronte all'autorità e rispettoso delle complesse esigenze della politica».
Questa impronta culturale moderatamente riformatrice è facilmente riscontrabile nelle opere della maturità del vignolese, specie negli scritti politici e di filosofia morale. A parte il trattato – pubblicato nel 1749 – Della pubblica felicità (che Franco Venturi annovera fra le espressioni più mature «di tutto il pensiero riformatore in Italia durante la guerra di successione austriaca»), due scritti quali la Filosofia morale esposta e proposta ai giovani (1735) e Il cristianesimo felice nelle missioni de' padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai (1743, con un supplemento nel 1749) offrono, seppure da prospettive differenti, una chiara testimonianza dell'attenzione del Muratori per «l'incrocio tra nuova questione sociale e consolidato convincimento assolutistico» (G. Imbruglia). Se nella prima opera infatti l'erudito modenese non mancava di avvertire i governanti che «quanto più in alto seggono, […] tanto più grande è il fascio delle obbligazioni e dei doveri», nella seconda egli riversava «i suoi ideali evangelici e umanitari», individuando «nelle Riduzioni del Paraguay la reincarnazione della società perfetta già attuata dai primi cristiani» (F. Marri).
Gli scritti degli anni Quaranta lasciavano in sostanza trasparire «l'esigenza di istituzioni adatte a un'efficace carità», con il conseguente «appello politico ai principi» affinché adeguassero la legislazione al diffuso disagio sociale (G. Imbruglia). In quest'ottica, la Pubblica felicità, di fatto un articolato trattato sul buon governo, costituisce per Venturi «il testamento e il programma di un uomo e di un'epoca», nel quale Muratori «riprende […] i problemi di riforma che lo hanno appassionato nella sua lunga carriera, dalla letteratura all'economia».
Giunto alle soglie dei 77 anni, il vignolese, ormai infermo, ebbe il tempo di dare alle stampe il De naevis in religionem incurrentibus («difesa – scrive Marri – […] della prassi cattolica nella canonizzazione dei santi, seppure con qualche apertura al protestantesimo») e Dei pregi dell'eloquenza popolare («un'estrema esortazione ai predicatori perché si attenessero alla semplicità espositiva, per rispetto del popolo»). Appena licenziata quest'ultima opera, la malattia lo privò della vista da entrambi gli occhi, finché non sopraggiunse la morte il 23 gennaio 1750.

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martedì 15 aprile 2014

Lodovico Antonio Muratori: la vita del grande letterato vignolese (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 aprile 2014)

Tra Muratori e Leibniz si creò un'autentica «sinergia operativa» in particolare a partire dal 1708, allorché – scrive Fabio Marri – «la rioccupazione militare, ordinata dall'imperatore Giuseppe I, di Comacchio (già feudo estense fino al 1598, e del quale l'impero non aveva mai cessato di rivendicare il possesso, investendone gli Este anche nel Seicento) sollecitò un approfondito vaglio delle carte antiche modenesi da parte dei due storici, che orchestrarono insieme una campagna internazionale di pubblicazioni per mostrare con la forza dei documenti non solo l'appartenenza di Comacchio all'impero, ma più in generale l'infondatezza di tante pretese territoriali pontificie». Risultato delle ricerche fu, da parte del Muratori, la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio (1712), giunta al termine di una prolungata disputa con il suo antagonista di parte papale, l'erudito Giusto Fontanini. L'opera – a prescindere dal fatto che nel 1725 Comacchio sarebbe stata comunque riconsegnata allo Stato pontificio – assume notevole importanza se si considera che lo scrittore modenese, anche se sacerdote, non si faceva scrupolo di osteggiare la Santa Sede sul terreno giurisdizionale: in questo ambito i diritti della Chiesa erano per lui equivalenti a quelli di ogni altro organismo statale.
La vicenda di Comacchio portò il Muratori a riprendere contatto con le carte d'archivio dopo un periodo in cui, forzatamente, aveva dovuto occuparsi d'altro. Durante i primi anni del XVIII secolo, infatti, la guerra di successione spagnola aveva spinto le truppe francesi ad occupare Modena (1702-1707), con il conseguente esilio del duca e la necessità di mettere in salvo numerosi documenti lontano dalla capitale estense. Dalle parole dello stesso letterato modenese apprendiamo come egli impiegasse il suo tempo in quelle condizioni: «Non sapendo io stare colle mani alla cintola presi a trattare della Perfetta poesia italiana, opera in cui spesi non poco studio e molte meditazioni [...]. Credo io che l'erudito abbia da aver sempre in capo varie vedute e varie fila per le mani. Se non può per qualche ostacolo far questa tela, ne lavori un'altra; se non può fabbricar gran palagi, si metta a qualche ameno giardino, adattandosi al luogo, al tempo e alle congiunture e mirando che non gli fugga di mano il tempo che è cosa preziosa».
In sostanza, il Muratori si interrogava su come riportare il buon gusto in una poesia corrotta dalle ampollosità del barocco, «sintomo e effetto della decadenza», come sottolineato da Girolamo Imbruglia. E parve trovare una risposta nel recupero del modello petrarchesco (nel 1711 uscirono infatti a Modena Le rime di Petrarca riscontrate coi testi a penna della libreria Estense e coi frammenti dell'originale di esso poeta).
Per quanto invece riguardava il ruolo delle accademie, i Primi disegni della Repubblica letteraria d'Italia (1703) e le Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708-1715) sollecitarono un più moderno impegno culturale, che andasse al di là delle sterili declamazioni ereditate dalla tradizione seicentesca. Alla base dell'impegno dell'intellettuale stava infatti per il Muratori la revisione critica: il vero studioso non poteva cioè fidarsi delle generalizzazioni senza avere prima sottoposto le stesse ad una sistematica analisi guidata dalla ragione.
Ottenuta nel 1716 la prevostura di Santa Maria della Pomposa, una delle parrocchie più povere della città, il letterato modenese prese ad occuparsi con insistenza anche di alcune questioni di carattere religioso, del resto oggetto dei suoi interessi già negli anni degli studi giovanili. In opere quali De ingeniorum moderatione in religionis negotio (1717), Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), De superstitione vitanda sive censura voti sanguinarii (1740) e Della regolata divozione de' cristiani (1747) Muratori affrontava temi delicati, pronunciandosi a favore «di un ragionevole svecchiamento e razionalizzazione del culto» e «di un forte impulso verso una fede operosa che mettesse in primo piano la carità» (F. Marri). Per assistere i più bisognosi egli fondò inoltre la Compagnia della Carità, i cui membri – precisa Elena Bianchini Braglia – «erano tenuti a impegnarsi nel prestare massiccia opera assistenziale, non solo da un punto di vista materiale ma anche e soprattutto da un punto di vista spirituale e morale». La sua proposta, in sostanza, «era quella di una religione socialmente utile, che potesse alleviare i mali sociali più evidenti», anche se non bisogna commettere l'errore di immaginare un Muratori a tutti gli effetti illuminista. Il vignolese infatti «avrebbe guardato con orrore alla minaccia di un rovesciamento di trono e altare», dal momento che «predicando e praticando la carità e pubblica felicità egli invocava un rinnovamento degli uomini, non delle istituzioni». Solo secondo questa impostazione moderatamente riformista aveva senso parlare di carità, la quale, «necessaria per la salvezza, andava fatta per aiutare non la Chiesa ma i bisognosi, [...] cui si doveva dare non l'elemosina, ma lavoro» (G. Imbruglia).
L'idea che le pratiche esteriori di culto fossero da porre in secondo piano rispetto alle concrete azioni di carità non mancò peraltro di scandalizzare qualche censore del Sant'Uffizio, mentre ricevette numerosi apprezzamenti nel nord Europa. Basti dire che il pastore e teologo di Augsburg Jacob Brucker nei primi due volumi della monumentale Pinacotheca scriptorum nostra aetate literis illustrium inserì, tra gli italiani, solo Muratori e Scipione Maffei, riscontrando nel vignolese le doti del «giudizio accurato e solido, letture vaste e quasi senza fine, ingegno fertile, operosità indefessa e incredibile, animo retto e privo di pregiudizi».
Esempio emblematico di una religiosità che mai trascurò la premura verso i più deboli fu l'aspra battaglia intrapresa, pochi anni prima della morte, per la riduzione delle feste, che sottraevano tempo utile da dedicare al lavoro e limitavano le possibilità di guadagno dei salariati. Come sottolinea Fabio Marri, «chiedendo alle autorità religiose e civili di concordare la soppressione di feste non motivate da particolari ragioni di culto, Muratori voleva da un lato liberare il cattolicesimo da retaggi di superstizioni antiche, ma dall'altro lato, soprattutto, contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno agiate». Miglioramento che, a suo parere, doveva passare anche attraverso una riforma (sollecitata nel Dei difetti della giurisprudenza, opera del 1742 di cui si avverte la chiara influenza nel Codice Estense fatto redigere da Francesco III) che mettesse ordine «nell'infinita congerie di leggi e pareri legali», responsabile di quei fraintendimenti che – come magistralmente avrebbe illustrato il Manzoni a proposito di Renzo e Azzeccagarbugli – finivano per penalizzare sempre e solo la povera gente.
Se la religione doveva quindi necessariamente essere «consacrata al bene del prossimo», anche la politica doveva avere a cuore la pubblica utilità. Al riguardo, un'opera del 1714 merita di essere presa brevemente in considerazione, ovvero Del governo della peste e delle maniere di guardarsene. Essa si occupava con grande concretezza della questione del «governo politico, medico ed ecclesiastico della peste», affrontando il nodo cruciale dei provvedimenti da prendere a livello sanitario, legale e amministrativo per salvaguardare l'incolumità delle popolazioni e impedire il contagio. Il primo accorgimento, a parere del Muratori, era quello di evitare di fomentare paure immotivate, il che era possibile solo distinguendo tra i dati di fatto accertabili razionalmente e le credenze. Queste ultime, in particolare, non potevano essere accettate per il semplice fatto di essere diffuse e condivise dalla maggioranza. Quelle su untori, streghe e «polveri pestifere» erano dicerie che non facevano altro che provocare uno «stravolgimento di fantasmi» potenzialmente anche più pericoloso dell'epidemia, una sorta di «malattia dell'immaginazione» da cui nasceva «un'incredibil miseria di molti, che temono la morte anche dove non l'hanno da temere». Prestando fede alle voci della strada era perciò inevitabile che si giungesse «ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti, ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli». (Continua)

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lunedì 7 aprile 2014

Lodovico Antonio Muratori: la vita del grande letterato vignolese (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 aprile 2014)

Lodovico Antonio Muratori nacque a Vignola il 21 ottobre 1672 da Francesco Antonio e Giovanna Altimani, in una famiglia di modeste, ma non misere, condizioni. Come precisa Fabio Marri, il nome corretto era «Lodovico appunto, e non Ludovico come si dice comunemente (prendendo equivoco dalla forma latina Ludovicus con cui sono firmate le grandi pubblicazioni sul Medio Evo)».
Sin da ragazzo, il futuro letterato mostrò spiccate doti d'ingegno e di memoria, oltre che una sconfinata passione per la lettura. Secondo il nipote Gian Francesco Soli Muratori, che ne scrisse la biografia, amava infatti così tanto i libri «fino a portarli seco a mensa». A Vignola, che pur gli stava stretta culturalmente, Muratori compì i primi studi, acquisendo i rudimenti della lingua latina. La ferrea volontà di imparare di cui dovette dar prova in quegli anni contribuì, probabilmente, a diffondere una curiosa leggenda sul periodo della sua formazione. Il piccolo Lodovico avrebbe cioè assistito "clandestinamente" alle lezioni di latino che si tenevano in una scuola di Vignola, standosene acquattato fuori dall'aula poiché non poteva permettersi quel tipo di istruzione. Scoperto, avrebbe – per la sua tenacia, ma anche per l'ottimo livello di preparazione raggiunto nonostante la travagliata "frequenza" del corso – impressionato a tal punto il maestro da convincerlo ad impartirgli gratuitamente l'insegnamento. 
Nel paese natale Muratori rimase fino al 1685, «tre anni in più di quei che occorrevano», durante i quali – precisa Gian Francesco – fu costretto «ad intisichire, per così dire, nello studio dei precetti grammaticali [...] perché il padre suo non si sentiva di mandarlo e mantenerlo in Città». Fu l'intervento provvidenziale di uno zio (il quale si offrì di aiutarlo con le spese) a consentirgli di recarsi infine a Modena per proseguire gli studi presso i gesuiti: studi che, nelle intenzioni paterne, avrebbero dovuto avviare Lodovico alla professione forense.
La vera passione del Muratori erano però i classici, che egli lesse avidamente attingendo alla Biblioteca dei Padri Minori riformati. Lo studio degli autori antichi fu propiziato anche da numerose frequentazioni di giovani letterati, con i quali Lodovico fu messo in contatto dall'avvocato Antonio Vecchi, dei cui figli era nel frattempo divenuto precettore. Precoce fu poi la sua vocazione al sacerdozio, tanto che – sono sempre parole del nipote – a soli 16 anni «ricevette la prima Tonsura da Monsig. Carlo Molza Vescovo di [Modena], il quale nel giorno appresso gli conferì ancora i due primi Ordini Minori e poscia nell'anno seguente gli altri due».
Iscrittosi all'università, nel 1692 Muratori discusse la tesi di filosofia, dopodiché – precisa Furio Diaz – «prese a seguire i corsi di teologia morale e scolastica e di giurisprudenza, [...] cominciando a frequentare letterati, come il marchese Gianni Rangoni, il marchese Giovanni Gioseffo Orsi, Pietro Antonio Bernardoni, ed eruditi, come Benedetto Bacchini e monsignor Anton Francesco Marsigli». Due anni dopo, promosso diacono, conseguì la laurea in utroque iure (ossia in diritto civile e canonico): più che per gli studi giuridici, tuttavia, il giovane manifestò grande interesse per la poesia, di cui indirettamente si occupò in uno dei suoi primi scritti, risalente al 1693, intitolato De Grecae linguae usu et praestantia, (ovvero un dialogo, sul modello di quelli di Cicerone, tra lo stesso Muratori, il Rangoni e l'Orsi sul tema dell'importanza della lingua greca).
Proseguiva nel frattempo il percorso di erudizione ecclesiastica sotto la guida del Bacchini, abate del monastero di San Pietro, il quale avvicinò il Muratori alla scuola bollandista e alla scienza diplomatistica di Jean Mabillon e – scrive Girolamo Imbruglia – «lo mise in contatto con intellettuali italiani e stranieri», svelandogli «il gusto dell'enciclopedismo scientifico». A questa fase di apprendistato risale la convinzione, ereditata da Blaise Pascal, che fosse necessario «combattere i nemici del cristianesimo non sul loro piano – come volevano i gesuiti – ma tornando alla tradizione evangelica della Chiesa primitiva».
Fatto segno di universale ammirazione per la vastità della sua cultura, nel 1695 lo scrittore modenese, raccomandato ai Borromeo dagli amici Orsi e Marsigli, venne chiamato a Milano in qualità di bibliotecario dell'Ambrosiana. Il prestigioso incarico gli consentì di approfondire gli studi sulla prima età cristiana, il che lo portò a condividere la convinzione dei maurini dell'estraneità della superstizione rispetto al cristianesimo. Frutto di questa riflessione furono nel 1698, in particolare, la dissertazione Disquisitio de reliquiis – nella quale il Muratori, precisa sempre Imbruglia, «esitava a ridurre il numero dei martiri, ma deprecava siffatte venerazioni popolari» – e il Commentario sulla corona ferrea, che confutava la tradizione secondo la quale tale corona doveva contenere uno dei chiodi della croce di Cristo.
Nel frattempo divenuto sacerdote, a Milano il giovane bibliotecario – sottolinea Elena Bianchini Braglia – «ebbe modo di esercitarsi nell'arte politica disquisendo [...] con Carlo Borromeo» e «iniziando una fitta corrispondenza con rinomati studiosi italiani e stranieri». A suo parere, per vincere i mali della decadenza, l'Italia avrebbe dovuto guardare tanto alle nuove prospettive europee, quanto alla propria ricchissima storia culturale. Si spiega così, pertanto, il forte interesse per il passato – mai scevro della ferrea volontà di accertare con precisione i fatti attraverso la scrupolosa analisi dei documenti custoditi negli archivi –, di cui furono precoce espressione i primi due volumi degli Anecdota latina (1697-1698), raccolta di testi di età paleocristiana conservati all'Ambrosiana (altri due volumi uscirono nel 1713, intervallati nel 1709 da uno di Anecdota graeca).
Al periodo del suo servizio presso i Borromeo risale infine la frequentazione del poeta Carlo Maria Maggi (l'inventore del personaggio di Meneghino), per il quale Muratori, come ha notato Martino Capucci, «ebbe una vera venerazione, pubblicandone le rime nel 1700, con una Vita che è la prima delle molte biografie da lui composte» (la Vita e l'antologia poetica intendevano appunto celebrare la memoria del Maggi, morto nel 1699).
La fama guadagnata presso i dotti e il prestigio dell'incarico all'Ambrosiana fecero inevitabilmente risultare sgradito al letterato modenese il richiamo da parte di Rinaldo I d'Este, che nel 1700 volle affidargli la biblioteca ducale, anche al fine di raccogliere documenti a sostegno delle sue mire espansionistiche. Nondimeno, Muratori ubbidì al suo "naturale" sovrano e raggiunse Modena, da dove, salvo che per qualche viaggio imposto dalle ricerche archivistiche, non si sarebbe più allontanato. Da suddito fedele, mostrò subito grande lealtà nei confronti della casa d'Este. Come ha scritto Girolamo Imbruglia, «senza divenire un cortigiano, fu l'intellettuale di fiducia del suo principe. [...] Fedeltà al duca significò per Muratori fedeltà all'Impero e partecipazione alla legittimazione e gestione del potere. In questa condizione maturarono il ghibellinismo e il suo sentimento di identità italiana, che ebbe valore culturale e ideologico (o religioso)».
Spulciando antiche carte negli archivi, Muratori riuscì a trovare un interessante collegamento tra la casa d'Este e quella germanica di Brunswick-Hannover (che tra l'altro, di lì a poco, avrebbe cinto la corona d'Inghilterra con Giorgio I), risalendo sino ai tempi di Alberto Azzo II, «due dei cui figli, Folco e Guelfo, erano divenuti rispettivamente signore d'Este, Rovigo ecc. l'uno, duca di Baviera l'altro» (F. Marri). In tal modo veniva soddisfatta la richiesta del duca Rinaldo, il quale, dopo aver sposato nel 1695 la principessa Carlotta Felicita di Brunswick, aveva commissionato la ricerca al fine di rinsaldare il suo legame con la casata della moglie. Lo studio genealogico consentì a Muratori di gettare le basi dell'ambizioso progetto delle Antichità estensi ed italiane – che sarebbero tuttavia uscite in due volumi tra il 1717 e il 1740 – e, al contempo, di instaurare un proficuo rapporto di collaborazione con lo storico ufficiale degli Hannover, il grande filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz (incaricato a sua volta di ricostruire le origini della casata tedesca). (Continua)

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giovedì 3 aprile 2014

Giampaolo Pansa: un giornalista vittima del proprio successo

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 marzo 2014)

Anche se sono passati undici anni dall'uscita del volume nelle librerie, Il sangue dei vinti – bestseller di Giampaolo Pansa – continua a suscitare polemiche infuocate. Non si contano, in questo ormai lungo arco di tempo, gli epiteti offensivi rivolti al giornalista di Casale Monferrato: «fascista», «revisionista», «voltagabbana», «servo di Berlusconi». E l'elenco potrebbe proseguire.
A dispetto però della valanga di insulti che riceve ogni giorno, Pansa continua a vendere moltissime copie, con Il sangue dei vinti (di cui nel 2013 è uscita l'ultima edizione, con una nuova introduzione dell'autore), ma non solo: quello con i libri della battagliera penna piemontese sembra diventato, ormai, un immancabile appuntamento annuale. E, a ben vedere, il motivo delle contestazioni sta tutto lì: Pansa vende, e molto. Il che significa che le sue idee hanno trovato terreno fertile in un pubblico costantemente in espansione, evidentemente stimolato proprio dalle polemiche, anche se niente affatto disposto a dar loro credito.
Cerchiamo ora, dopo undici anni, di trarre un bilancio. E proviamo a farlo andando a rileggere le invettive di tre illustri detrattori del Pansa storico.
Partiamo con Giorgio Bocca, noto giornalista ex-partigiano scomparso nel dicembre del 2011 all'età di novantuno anni. All'uscita de Il sangue dei vinti, definì il volume «un libro vergognoso», con il quale «Pansa si è voluto mettere in sintonia con gli istinti più bassi di una opinione pubblica ottimamente rappresentata dal Cavalier Berlusconi e con quanti come lui vogliono continuare a fare indisturbati i propri loschi affari con questo alibi: siamo scampati ai comunisti, dobbiamo costruire un regime anti-comunista». In sostanza, avendo rinnegato il proprio passato di uomo di sinistra per compiacere il folto pubblico di lettori berlusconiani, Pansa non è altro che un «voltagabbana», reo, quando parla di ventimila morti per «la resa dei conti» post-25 aprile, di avere scopiazzato «il fascistissimo Giorgio Pisanò».
Proseguiamo con Sergio Luzzatto, docente di Storia moderna all'Università di Torino. Da storico di professione, egli puntò il dito contro «la concorrenza di giornalisti, o comunque di opinion-makers che il sistema dell'informazione tende ad accreditare come ferrati in materia di storia, e che il pubblico è indotto a riconoscere come tali». A ognuno, quindi – protestava Luzzatto –, il proprio mestiere, come dire che la Storia (quella con la S maiuscola) non è roba per giornalisti. Ma non è tutto: non solo Pansa invade il terreno altrui, ma, rispetto agli storici (quelli veri, s'intende), si comporta come uno stupido pappagallo: «Il libro ripete cose che si sanno. Che sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate – con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa – da tutti i migliori studiosi della guerra civile e dell'immediato dopoguerra».
Terminiamo, infine, con Gad Lerner, noto giornalista e conduttore televisivo. Ma, in questo caso, non ci occupiamo direttamente di Pansa, bensì ancora di Luzzatto, questa volta lui nella veste di autore contestato. La vicenda risale all'anno scorso. Nei primi mesi del 2013 il docente torinese dava alle stampe Partigia. Una storia della Resistenza, volume che ripercorre le vicende della banda «ribelle» di Primo Levi e getta luce su quello che lo stesso autore di Se questo è un uomo definì il «segreto brutto» della sua militanza partigiana: la fucilazione «col metodo sovietico» (ossia «improvvisamente, e senza che se ne accorgessero fino all'ultimo momento») di due giovani membri della banda, condannati sbrigativamente a morte in quanto sbandati che si erano resi, col loro comportamento, incompatibili con le leggi della guerriglia partigiana. Puntuali, pochi giorni dopo l'uscita del libro, gli anatemi di coloro che scorsero in esso una potenziale minaccia revisionista, con Lerner in prima fila tra i propinatori di filippiche e Luzzatto – ironica nemesi? – costretto a difendersi dalle stesse accuse che egli per primo aveva rivolto all'autore de Il sangue dei vinti. In effetti, su Repubblica il conduttore sembrò ispirarsi proprio al Luzzatto censore di Pansa: a suo parere, infatti, Partigia «non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento».
Cerchiamo ora di fare un po' di chiarezza, entrando nel merito delle diverse accuse rivolte a Pansa. Giorgio Bocca, forse dimentico dei propri trascorsi fascisti, lo definì un «voltagabbana». Ma, per la verità, Pansa non ha mai rinnegato le proprie convinzioni antifasciste. Anzi, nella breve premessa a La grande bugia, ci tiene a precisare che «la Resistenza è, da sempre, la mia patria morale». Frase, si converrà, un po' stonata per un fascista. Ma allora qual è il problema? Si sarebbe tentati di pensare alle cifre: possibile che Pansa abbia dato i numeri, quantificando in ventimila i morti del dopoguerra? Anche qui, però, lo stesso Bocca si tirò la zappa sui piedi. Nel suo La repubblica di Mussolini (un classico della storiografia sulla RSI) stimava infatti in 12.000-15.000 i «fascisti fucilati nei giorni dell'aprile»: una cifra, che non si discosta granché da quella di Pansa, confermata anche da insigni studiosi quali Paul Ginsborg e Claudio Pavone (di certo non ascrivibili al berlusconismo). Ammettendo pure che Pansa – il quale cita comunque altri autori – abbia approssimato un po' troppo per eccesso, resta il problema di giustificare migliaia di morti in quella che fu una sanguinosa guerra civile. Del resto, gli eccidi del dopoguerra non li ha certo raccontati per primo Il sangue dei vinti. Si legga, per esempio, questo breve passo tratto da Storia del Novecento italiano (libro uscito nel 2000, tre anni prima, quindi, dello scoppio del caso-Pansa) di Simona Colarizi (docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma): «[Nel Nord Italia] le condanne sono state già pronunciate fuori dalle aule dei tribunali e le esecuzioni si fanno per le strade, nei viottoli delle campagne, sotto i cavalcavia e nei fossati in piena notte, con un colpo alla nuca. Per tre mesi nelle province rosse, in particolare l'Emilia Romagna, i partigiani si scatenano. Alla fine del giugno 1945 i dati raccolti dal Comando generale dei carabinieri sono impressionanti: sono 270 le persone giustiziate a Bologna, 117 a Ferrara, 120 a Ravenna, 110 a Reggio Emilia, per dare solo le cifre più significative. E non viene neppure risparmiato chi è in carcere in attesa di processo: a Cesena, a Ferrara, a Carpi si dà l'assalto alle prigioni per impadronirsi degli imputati che sono passati per le armi davanti alla folla. È una pagina di vergogna».
Nessuno insorse per queste frasi della Colarizi (una storica di professione, collega di Luzzatto...). Ma veniamo proprio alle accuse di quest'ultimo: a suo parere Pansa, abbiamo visto, dovrebbe occuparsi di cronaca e lasciare la storia ai professionisti. Ora, a parte il fatto che questo discorso dovrebbe valere per tutti i giornalisti che si sono divertiti a scrivere del passato (e quindi anche per quelli "ortodossi" – un nome su tutti: Enzo Biagi), è evidente che questo è un finto, e pretestuoso, problema. Il punto è: il libro, a prescindere dall'autore, è valido o no? Dice falsità o è documentato? Perché delle due l'una: o il libro è scritto con rigore, e quindi merita di essere letto; o, all'opposto, è scadente. E, se è scadente, compito degli storici sarebbe quello di correggerlo, punto per punto, passo per passo. Dalla penna di Luzzatto dovrebbero uscire frasi del tipo «Qui Pansa sbaglia», «Qui scrive un'inesattezza», «Qui esagera», e non generiche invettive che puzzano un tantino di invidia per le copie vendute da un giornalista che gli ha "rubato" il mestiere.
C'è poi la questione del Pansa (e poi del Luzzatto "pansizzato") che ricorre al banale copia e incolla. Anche qui è lecito rimanere un po' perplessi. Innanzitutto, non ce ne voglia Gad Lerner, condannare un libro per il semplice fatto che non aggiunge «nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica» significa, implicitamente, dare credito a ciò che viene ripetuto. Ragionando in questi termini, mica si afferma che il già detto non sia credibile! Si dice solo che ripetere è peccato, come se i libri di storia potessero avere tutti la pretesa di affrontare argomenti trascurati o poco noti. E poi, siamo seri: davvero si può credere che Pansa (e poi Luzzatto con Partigia) non abbia niente di nuovo da dire? Vogliamo sostenere che sui fatti raccontati ne Il sangue dei vinti gli italiani fossero ferrati già prima dell'uscita del libro? Non scherziamo. Perché, in definitiva, è proprio questo il merito di Pansa: aver acceso l'interesse su un argomento poco dibattuto. Anziché protestare, gli storici di professione dovrebbero essergli grati, dal momento che Il sangue dei vinti – anche volendo considerarlo un libraccio – ha fornito l'occasione per un proficuo dibattito storiografico, che sarebbe compito dei professionisti gestire con scrupolo. Per quale motivo, infatti, deve essere scavato un solco incolmabile tra saggistica e divulgazione?
Per finire, una piccola provocazione. Quando uscì Il Codice da Vinci di Dan Brown, lo studioso statunitense Ehrman Bart pubblicò un volumetto intitolato La verità sul Codice da Vinci, nel quale confutava molte delle tesi contenute nel fortunato bestseller. Ora, immaginiamo che uno storico di professione dia alle stampe un ipotetico La verità sul Sangue dei vinti: facile prevedere che sarebbe un successo. Se è vero che Pansa è niente più che un volgare mistificatore, cosa aspettano i suoi detrattori a prendere in mano carta e penna?

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