mercoledì 26 febbraio 2014

Il pontificato di Benedetto XV e la nascita del Partito popolare di don Sturzo

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 febbraio 2014)

Nell'agosto del 1914, poche settimane dopo lo scoppio della Grande Guerra, Pio X morì. Gli successe Benedetto XV, il cui pontificato fu in gran parte condizionato dalle vicende legate al conflitto mondiale. Sin da subito il Vaticano assunse una netta posizione pacifista e neutrale, che non in pochi giudicarono – a torto – come favore agli Imperi centrali. Tra i cattolici prevalse la prudenza, anche se le varie posizioni ideologiche spesso assunsero connotazioni assai diverse tra loro. Guido Miglioli si oppose alla partecipazione dell'Italia ad una guerra che avrebbe recato grave danno alle classi contadine, a vantaggio della borghesia; Filippo Meda si schierò sostanzialmente con Giolitti, il quale riteneva che il conflitto avrebbe nuociuto all'economia del paese e che si sarebbero potuti tutelare gli interessi nazionali tramite un'accorta azione diplomatica; don Luigi Sturzo vide con favore l'entrata in guerra dell'Italia a fianco delle potenze dell'Intesa, convinto che andasse colta l'occasione per realizzare un netto cambiamento da un punto di vista sociale. Nel complesso, nonostante il generale desiderio di pace, i cattolici affrontarono con impegno e patriottismo la dura prova del campo di battaglia. Un ruolo importante ricoprirono i cappellani militari e i circa 20.000 sacerdoti richiamati come soldati semplici: essi rappresentarono un fondamentale punto di riferimento per migliaia di analfabeti che erano stati mandati al fronte senza alcuna preparazione.
Nel giugno del 1916 il governo Salandra cadde e venne sostituito da un governo di unità nazionale guidato da Paolo Boselli. Filippo Meda vi entrò come ministro delle Finanze, il primo ministro cattolico dalla nascita del Regno d'Italia. Il suo incarico fu difficile da gestire. Attraverso le pagine dell'«Osservatore Romano» la Santa Sede precisò che Meda rappresentava soltanto se stesso e negò un concreto appoggio politico. Quando poi nell'estate del 1917 il papa rese pubblica una Nota ai capi dei popoli belligeranti – che invitava i governi in guerra ad accordarsi su alcuni punti per consentire la cessazione dell'«inutile strage» – e il governo italiano, fraintendendo il reale significato del documento, accusò la Santa Sede di essersi fatta ispirare dalla Germania, il ministro milanese si trovò in grande imbarazzo. Egli meditò di dare le dimissioni, ma, temendo che il suo gesto in un momento così delicato potesse far ricadere sui cattolici l'accusa di scarsa sensibilità, abbandonò il proposito. Nel frattempo lo scoppio della rivoluzione russa nel novembre del 1917 allarmò il Vaticano, accrescendo le preoccupazioni che la Grande Guerra – ha scritto Giorgio Candeloro – «potesse concludersi con una rivoluzione sociale di portata incalcolabile». Il ritorno alla pace apparve allora più che mai un'esigenza assoluta.
Il pontificato di Benedetto XV consentì ai cattolici di ritagliarsi uno spazio autonomo per lo svolgimento dell'azione politica ed economica. Il tacito assenso che accompagnò l'attività ministeriale di Filippo Meda, nonché il favore con cui fu visto l'esperimento della CIL (Confederazione Italiana dei Lavoratori, il sindacato cattolico sorto nel 1918 allo scopo di creare un coordinamento tra i vari organi esistenti a livello nazionale), furono la prova che la Santa Sede aveva mutato atteggiamento nei confronti del movimento cattolico organizzato. In particolare si rese indispensabile un migliore coordinamento delle associazioni che operavano in campo formativo e sociale. Sin dal 1915 il pontefice si era preoccupato di ripristinare un centro di unificazione delle organizzazioni cattoliche, siccome, in seguito allo scioglimento dell'Opera dei congressi nel 1904, si era palesata la necessità di trovare un nuovo punto di riferimento. Fu pertanto approvata una riforma che stabiliva l'obbligatorietà dell'iscrizione all'Unione popolare per tutte le persone che svolgevano attività collegate al movimento cattolico e venne istituita la Giunta centrale per l'Azione cattolica (eletta all'interno del consiglio direttivo dell'Unione popolare), «con il compito – rileva Alfredo Canavero – di dare ai cattolici italiani un indirizzo programmatico unitario».
La «grande levatrice», come venne definita la Grande Guerra, entro certi limiti compattò il movimento cattolico: le velleità temporalistiche divennero, salvo rare eccezioni, un ricordo del passato, mentre i rapporti con lo Stato italiano sembrarono tutto sommato migliorare. I tempi erano quindi maturi per la nascita di un vero e proprio partito politico. Principale sostenitore del progetto fu don Sturzo, il quale in una conferenza tenuta a Milano nel novembre del 1918 espose un ampio programma di riforme per contrastare le difficoltà del dopoguerra, concludendo che era giunta l'ora, per i cattolici, di «contribuire in ogni campo». Pochi giorni dopo il sacerdote siciliano riunì a Roma, nella sede dell'Unione romana, un gruppo di personalità cattoliche, allo scopo di tracciare le linee guida per la fondazione di un partito. Seguì la convocazione della «piccola costituente», che a sua volta nominò una commissione esecutiva, con il compito di redigere un appello «a tutti gli uomini liberi e forti» e il programma (entrambi resi noti, tramite la stampa, il 18 gennaio 1919). Il programma, in particolare, rifletteva la dura realtà del dopoguerra e in dodici punti prevedeva: difesa della famiglia; libertà di insegnamento; libertà di organizzazione di classe; legislazione sociale a tutela del diritto del lavoro; organizzazione delle capacità produttive della nazione, con particolare attenzione alle problematiche legate al Mezzogiorno; autonomia degli enti pubblici locali; introduzione di più efficaci forme di previdenza sociale; libertà e indipendenza della Chiesa; riforma tributaria; riforma elettorale in senso proporzionale con estensione del voto alle donne; tutela dell'emigrazione e sviluppo di un'accorta politica coloniale; rispetto della Società delle Nazioni in campo internazionale.
Il nuovo partito assunse il nome di Partito popolare italiano: non comparve l'aggettivo cattolico, per rendere evidente la laicità e l'autonomia dalla Santa Sede. Il consenso iniziale fu notevole (specialmente nelle zone rurali), anche perché sul piano organizzativo don Sturzo poté contare su una base di massa – costituita da una fitta rete di associazioni, dalla CIL, dalle cooperative, dalle leghe contadine – che aveva radici profonde nel tessuto sociale italiano di quegli anni.
La fondazione del partito provocò, nel febbraio del 1919, lo scioglimento dell'Unione elettorale, cui seguì quello dell'Unione economico-sociale, i cui compiti divennero pertinenza della CIL. Rimase invece attiva come centro di coordinamento generale l'Unione popolare, con l'obiettivo di agire al di sopra delle parti ed intensificare l'attività religiosa. Fu questo il momento in cui nacque l'Azione cattolica in senso stretto. «Solo ora difatti – scrive Renato Moro – veniva dichiaratamente realizzata per la prima volta la differenziazione tra una organizzazione strettamente politica, composta di cattolici, ma indipendente ufficialmente dal Vaticano e dall'episcopato (il PPI) e un'organizzazione con finalità di apostolato, e quindi religiose, sociali e culturali, direttamente dipendente dal Vaticano e dall'episcopato (l'AC)». Nel 1922 venne poi definitivamente soppressa anche l'Unione popolare.
Dal 14 al 16 giugno del 1919 si tenne a Bologna il primo congresso del PPI. I principali argomenti di discussione furono il principio di aconfessionalità, l'attenzione alla questione sociale e il rifiuto di presentare liste d'intesa con altre forze politiche. Tra i partecipanti prevalse la linea di don Sturzo, leader della corrente centrista e sempre più indiscusso punto di riferimento all'interno del partito. Egli si mostrò, in particolare, intransigente rispetto alla possibilità di costituire alleanze in vista delle elezioni che si sarebbero tenute il 16 novembre del 1919 con il sistema proporzionale. Era tempo – scrisse il sacerdote siciliano – che tutti comprendessero «la responsabilità del partito, […] unica nella nazione, come quella di un vero corpo vivente». L'esito del voto, in vista del quale la Chiesa aveva revocato il non expedit, fu un vero successo per il PPI, che tra l'altro aveva dovuto subire in campagna elettorale numerose violenze da parte dei socialisti. Con 1.167.374 preferenze, pari al 20,5% del totale, i popolari conquistarono 100 seggi alla Camera ed entrarono di prepotenza nel novero di quelle forze politiche che non sarebbe più stato possibile escludere dalla gestione del potere.

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giovedì 20 febbraio 2014

I cattolici italiani nel primo Novecento

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 febbraio 2014)

Il clima di tensione conseguente alla rivolta popolare per il caroviveri (1898) e all'assassinio di Umberto I (1900) vide profondamente coinvolto il movimento cattolico, all'interno del quale alcuni esponenti assunsero posizioni nettamente antigovernative. «Siete schifosi!», era giunto a scrivere don Davide Albertario sull'«Osservatore cattolico» all'indomani delle cannonate di Bava Beccaris, puntando il dito contro il generale che aveva dato «piombo ai miseri» senza comprendere che la protesta era stata provocata dalla fame e dalla miseria insostenibili.
Il presidente del Consiglio Antonio di Rudinì, dopo che fu sedata la rivolta nel paese, rivolse le sue attenzioni ai cattolici intransigenti, ritenuti colpevoli di aver fomentato la protesta attraverso una continua propaganda sovversiva. In realtà, come rileva Giorgio Candeloro, «la paura dissennata, che in quel momento pervadeva i gruppi dominanti italiani, contribuì non poco a determinare una sopravvalutazione del pericolo clericale. Ma a spingere le autorità a provvedimenti repressivi contro i clericali contribuì probabilmente anche il desiderio di trovare un diversivo per tentare di distrarre l'attenzione della parte più democratica, ed anticlericale, della borghesia dalle persecuzioni contro i socialisti. Coinvolgendo i clericali nella persecuzione il governo poteva sperare per un momento di far apparire quelle agitazioni come risultato di un tenebroso complotto, ordito dai nemici dell'unità nazionale, per rovesciare lo Stato unitario nato dal Risorgimento».
L'episodio più eclatante fu l'arresto e la condanna a tre anni di reclusione di don Albertario, logica conseguenza del giro di vite nei confronti della stampa che aveva portato alla soppressione dell'«Osservatore cattolico» di Milano e, poco dopo, dell'«Unità cattolica» di Firenze. Seguì lo scioglimento di tutte le associazioni dipendenti dall'Opera dei congressi, per un totale di 4 comitati regionali, 70 comitati diocesani, 2.500 comitati parrocchiali, 5 circoli universitari e 3.000 associazioni cattoliche di vario genere. Il risultato fu che il movimento cattolico organizzato dovette fare chiarezza al suo interno, e assumere in sostanza un atteggiamento più costruttivo e responsabile nei confronti dello Stato e del governo italiano.
«La persecuzione anticattolica dei liberali – rileva a questo proposito Alfredo Canavero – non si era sviluppata alla cieca, ma secondo un ben preciso disegno, volto a scompaginare l'ala sociale dell'intransigentismo cattolico e a costringere l'ala conservatrice a rientrare nei ranghi dello Stato liberale». La conseguenza fu che «l'unità dell'intransigentismo […] si ruppe, separando l'ala conservatrice da quella sociale, i vecchi dai giovani». Se da un lato infatti alcuni dirigenti dell'Opera dei congressi reagirono alle violenze invocando un ritorno ai passati metodi autoritari di governo, dall'altro venne intrapreso un lento cammino in direzione delle classi deboli, con l'obiettivo di avvicinare la Chiesa ai problemi più urgenti della società. La strada da seguire era quella che, negli ultimi decenni dell'Ottocento, aveva portato alla nascita di società di mutuo soccorso, cooperative, casse rurali, giornali e scuole. Tanto più che i cattolici cosiddetti «giovani», che non avevano vissuto le vicende della presa di Roma e che pertanto consideravano lo Stato italiano una realtà di fatto, si segnalarono all'alba del nuovo secolo per una sempre più decisa volontà d'azione. Essi furono in qualche modo incoraggiati da Leone XIII, che nell'enciclica Graves de communi, pur negandole valore politico, giunse addirittura ad approvare la «democrazia cristiana», una nuova tendenza politica che mirava a conciliare la dottrina cattolica con l'impegno sociale.
La tolleranza di Leone XIII, unita alla stima che egli nutrì nei confronti di don Romolo Murri, leader del movimento democratico-cristiano, non venne però condivisa dal successore Pio X, salito al soglio pontificio nell'agosto del 1903. Attraverso il motu proprio del 18 dicembre di quello stesso anno, il nuovo papa precisò infatti che «la Democrazia Cristiana ha obbligo strettissimo di dipendere dall'Autorità Ecclesiastica» e condannò l'azione sociale di quei cattolici che agivano senza tener conto delle direttive della Santa Sede. Nel 1904, temendo che si schierasse completamente dalla parte dei «giovani», egli sciolse infine l'Opera dei Congressi, sostituendola successivamente con tre organizzazioni distinte, tutte poste sotto il rigido controllo dell'autorità ecclesiastica: l'Unione popolare, l'Unione economico sociale e l'Unione elettorale. Romolo Murri, che respinse le direttive del pontefice, fu sospeso a divinis nel 1907 con l'accusa di modernismo; due anni dopo, a causa dell'elezione a deputato, fu scomunicato.
La condanna del sacerdote marchigiano non intralciò peraltro lo sviluppo del movimento cattolico, che penetrò con sempre maggiore efficienza nel tessuto sociale. Si affermarono in quegli anni, specialmente nel nord Italia, numerose leghe bianche, in grado di contrastare le organizzazioni socialiste sul terreno dell'assistenza alle classi più deboli. Dal punto di vista numerico le associazioni cattoliche, tra leghe operaie e contadine, cooperative, società di mutuo soccorso e casse rurali, arrivarono a contare circa 400.000 aderenti. Al contempo, per carisma e capacità si segnalarono alcune personalità di grande valore. Nel sud della penisola, in Sicilia, il movimento contadino cattolico poté contare sulla determinazione di don Luigi Sturzo, che fu tra i primi a richiamare l'attenzione sulle condizioni del Mezzogiorno; nel Cremonese si distinse Guido Miglioli, abile organizzatore di leghe bianche; a Milano dalle pagine dell'«Osservatore cattolico» Filippo Meda si mise in evidenza per la tenacia con la quale tentava di smuovere l'immobilismo dei «vecchi». E pure a livello politico, nonostante la prudenza e i timori della Santa Sede, i cattolici andavano guadagnandosi un peso consistente.
Questo aspetto non sfuggì a Giovanni Giolitti, che intravide la possibilità di sfruttare il movimento cattolico in chiave antisocialista. Lo statista piemontese, pur non illudendosi di risolvere l'intricata «questione romana», aveva in mente una società nella quale – come scrisse Giovanni Spadolini – «i cattolici cominciavano a sentirsi cittadini» e «i cittadini potevano riavvicinarsi al cattolicesimo». Di fronte a una classe politica che nei primi anni del secolo tendeva a sbilanciarsi a sinistra, un'attenuazione del non expedit in funzione di un accordo clerico-moderato parve una buona soluzione. Per le elezioni del 1904 Pio X accettò in parte il compromesso: suggerendo di comportarsi secondo coscienza, consentì che venissero presentate candidature dichiaratamente cattoliche e determinò così un afflusso di voti cattolici in quei collegi in cui occorreva sconfiggere candidati anticlericali. Successivamente, nell'enciclica Il fermo proposito formalizzò il principio secondo cui nei «casi particolari» era possibile dispensare dal non expedit: sarebbero stati i vescovi a richiedere alla Santa Sede una deroga per i collegi più delicati.
Alle successive elezioni del 1909 l'alleanza clerico-moderata era, quindi, ormai collaudata. I cattolici, ottenuta caso per caso l'autorizzazione dei vescovi, appoggiarono quei candidati che si impegnarono pubblicamente a combattere proposte di legge incompatibili con i principi cristiani. Come nel 1904, furono presentate candidature cattoliche, che portarono all'elezione di 28 deputati. Questi ultimi erano peraltro da considerarsi, come precisò la Santa Sede, «cattolici deputati», non «deputati cattolici». Significava – ha notato Maria Serena Piretti – che «l'elettorato cattolico doveva […] essere portato in campo solo se la sua azione poteva essere dispiegata in forza di un contratto con le file dei moderato-conservatori, l'unico gruppo politico che dava solide garanzie contro il lento scivolare delle maggioranze parlamentari verso sinistra».
L'intesa tra liberali e cattolici venne consacrata in vista delle elezioni del 1913, le prime che si tennero con il suffragio pressoché universale maschile. L'allargamento dell'elettorato a circa otto milioni di cittadini destò non poche preoccupazioni nella classe dirigente moderata, che temeva una clamorosa affermazione dei socialisti. Siccome nel 1909 alcuni vescovi con scarsa esperienza politica avevano concesso con superficialità la sospensione del non expedit in favore di candidati liberali, l'Unione elettorale – allo scopo di fare chiarezza – emanò una circolare contenente sette punti che i candidati desiderosi di accaparrarsi il voto cattolico avrebbero dovuto rispettare. Il cosiddetto «eptalogo» prevedeva: la difesa dello Statuto e delle norme che garantivano la libertà di coscienza e di associazione; la tutela dell'insegnamento privato; il favore all'insegnamento religioso nella scuola elementare; l'opposizione al divorzio; il riconoscimento del diritto delle organizzazioni cattoliche di essere rappresentate negli organismi dello Stato; l'approvazione di una riforma tributaria che rispettasse i principi di giustizia sociale; il sostegno nei confronti di una politica tesa ad aumentare l'influenza italiana nel mondo. L'accordo che così venne definito prese il nome di «Patto Gentiloni», dal nome del presidente dell'Unione elettorale. Nel complesso risultarono 258 i candidati eletti con il sostegno dei cattolici. Fu una prova di forza innegabile, anche se – come ha osservato Gabriele De Rosa – «l'introduzione del suffragio universale sollevava il problema di un'organizzazione politica unitaria dei cattolici». Per non disperdere le preferenze, per evitare che il voto cattolico fosse «prostituito» – come aveva rimarcato don Sturzo in occasione delle elezioni del 1904 – in favore dei conservatori, si fece strada l'idea di costituire un partito autonomo. Il principale sostenitore del progetto fu il sacerdote siciliano, che tuttavia dovette attendere la conclusione della Grande Guerra per vedere realizzati i propri progetti politici.

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domenica 9 febbraio 2014

Il pontificato di Pio IX e la nascita del Regno d'Italia (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 febbraio 2014)
 
Il 6 giugno 1861, dopo che un improvviso malore lo aveva colto la sera del 29 maggio, Cavour si spense. La sua morte segnò la fine di un'epoca nei rapporti tra Stato e Chiesa. Al senso diplomatico del conte i successori opposero un'asprezza e una mancanza di rispetto che portarono il pontefice su posizioni sempre più intransigenti. La Chiesa fu additata come nemica della patria e sottoposta al vigile controllo degli organi di polizia. I cattolici liberali, appoggiati dalle autorità civili, trovarono terreno fertile per la diffusione delle loro idee. Furono pubblicati diversi periodici, come «Il Conciliatore» a Milano e «Il Mediatore» a Torino, e sorsero le prime società ecclesiastiche di mutuo soccorso. Frequenti risultarono poi i casi di ecclesiastici che, disobbedendo a una precisa indicazione del papa, non esitarono a instaurare rapporti con le autorità civili. L'episodio più grave agli occhi della Santa Sede fu l'iniziativa di Carlo Passaglia, un ex-gesuita convertitosi alla causa del cattolicesimo liberale, che nel 1862 aveva steso un Indirizzo del clero italiano a Pio IX nel quale invitava il papa a cedere Roma. In favore dell'appello firmarono circa 9.000 ecclesiastici.
Lo scontro ebbe il suo culmine nel 1864, quando il pontefice emanò l'enciclica Quanta cura, nella quale venivano condannate in maniera netta le dottrine professate dal liberalismo, dal laicismo, dal cattolicesimo liberale, dal socialismo, e con esse tutte quelle correnti di pensiero favorevoli alla concessione della libertà di espressione, di stampa e di culto. All'enciclica fu allegato un elenco degli «errori del secolo», il Sillabo, che indicava come erronee ottanta tesi. Sostanzialmente, veniva respinto in blocco tutto quanto la Rivoluzione francese aveva lasciato in eredità.
Arroccandosi su posizioni intransigenti, insensibile rispetto al desiderio di molti cattolici di raggiungere un'intesa tra Santa Sede e Regno d'Italia, Pio IX rese molto più profondo il solco che divideva la Chiesa dal mondo moderno. Non giovò neppure, al fine di una completa comprensione del documento, l'estrema sintesi del Sillabo, che – spiega con chiarezza Andrea Tornielli – «spaziava su materie vastissime passando dalla storicità dei Vangeli al potere temporale, dalla libertà di coscienza al panteismo», offrendo il destro «alle critiche più accese di quanti lo considerano un monumento di intransigenza, l'ottusa difesa di un mondo che non esiste più». 
La pubblicazione del Sillabo destò scalpore in tutta Europa. Persino Napoleone III, da sempre fedele alleato del pontefice, ne proibì la diffusione in Francia per evitare di turbare i rapporti tra Stato e Chiesa. La politica intransigente della Santa Sede rischiava di diventare un ostacolo per la serenità della vita di molti cattolici e Pio IX, ormai sempre più prigioniero di se stesso, pareva non accorgersene. Prostrato dalle difficoltà che aveva dovuto affrontare (e subire), il papa visse gli ultimi anni animato da una forte esigenza di raccoglimento interiore, dalla volontà di contrapporre l'affermazione della fede alle sconfitte terrene.
La frattura con il mondo moderno si allargò ulteriormente nell'estate del 1870, quando, nel corso del Concilio Vaticano I, venne proclamato il dogma dell'infallibilità del pontefice in materia di fede. Giovanni Spadolini scrisse che «il dogma dell'infallibilità pontificale» sancì «la solitudine del Papa, la sua netta e totale separazione dalle cose del mondo, dal corso della civiltà laica e liberale». In quella stessa estate l'equilibrio europeo venne profondamente messo in discussione dalla dichiarazione di guerra della Francia alla Prussia. Napoleone III fu costretto a richiamare le truppe che presidiavano Roma, ma prima volle, e ottenne, la rassicurazione di Emilio Visconti Venosta, ministro degli Esteri italiano, che la Convenzione di settembre (trattato stipulato nel 1864 tra il governo Minghetti e Napoleone III, con il quale si stabiliva che le truppe francesi di stanza a Roma si sarebbero progressivamente ritirate in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere i territori pontifici) non sarebbe stata violata. Il 2 settembre i prussiani trionfarono a Sedan: l'imperatore francese cadde prigioniero e a Parigi venne proclamata la Repubblica. La sconfitta di Napoleone di fatto svincolava il governo italiano dagli accordi precedenti e lasciava mano libera per la conquista di Roma. Vittorio Emanuele II tentò di raggiungere un accordo con il pontefice, e il 10 settembre lo invitò con una missiva a liberare Roma, per restituire «la pace alla Chiesa» e mostrare «all'Europa spaventata dagli orrori della guerra come si possano vincere grandi battaglie […] con un atto di giustizia». Ricevuto in risposta un risentito rifiuto, al re non restò che autorizzare l'ingresso delle sue truppe nello Stato pontificio. Il 20 settembre, dopo aver aperto una breccia nella cinta muraria presso porta Pia, l'esercito italiano entrò in Roma, incontrando una resistenza simbolica, che doveva dimostrare che Pio IX cedeva alla violenza. Contrariamente a quanto era accaduto all'epoca della Repubblica romana, nessuna potenza straniera si mosse per salvare il potere temporale del papa.
L'annessione di Roma al Regno d'Italia e la cocente sconfitta subita non indussero il pontefice a modificare il proprio modo di operare: come già aveva fatto altre volte in passato, egli si affidò ad un'enciclica (Respicientes) per esprimere la propria indignazione e non esitò ad infliggere la scomunica a tutti coloro che avevano preso parte alla spedizione nello Stato pontificio. Il governo italiano, preso atto dell'ostinazione con la quale il papa si rifiutava di accettare il fatto compiuto, decise di regolare in modo unilaterale i rapporti con la Santa Sede. Il 13 maggio 1871 fu approvata la legge delle guarentigie, con la quale, tra le altre cose, venivano riconosciuti al pontefice onori sovrani, il diritto di disporre di un presidio armato a difesa dei palazzi Vaticano, Laterano, Cancelleria e villa di Castel Gandolfo (immobili sottoposti a regime di extraterritorialità) e una rendita annua come risarcimento per le perdite subite. Era anche previsto, previa approvazione di una legge per il riordinamento della proprietà ecclesiastica, che fossero aboliti l'exequatur e il placet, ossia l'assenso regio alla pubblicazione di atti dell'autorità ecclesiastica riguardanti la destinazione dei beni ecclesiastici. Siccome, però, la legge sul riordinamento della proprietà non fu mai varata, l'exequatur e il placet rimasero vincolanti per l'assegnazione ai vescovi e ai parroci rispettivamente dei beni associati all'esercizio episcopale e delle rendite parrocchiali. Nel suo Il movimento cattolico in Italia Giorgio Candeloro argomenta che «la legge delle guarentigie fu il punto di arrivo del cattolicesimo liberale del Risorgimento», poiché intendeva «mostrare a tutti che la presa di Roma, anziché aprire un periodo di aspre lotte religiose, aveva aperto per la Chiesa cattolica un periodo di libertà».
Pio IX, profondamente turbato da avvenimenti che reputava inconcepibili, non volle sentir ragioni. Con l'enciclica Ubi nos (15 maggio 1871) si dichiarò «prigioniero in Vaticano» e respinse l'offerta delle guarentigie. Ai vescovi che nominò tra il 1871 e il 1873 raccomandò di non richiedere l'exequatur, impedendo loro in questo modo di godere di qualunque beneficio temporale e privando di validità civile i loro atti. Molti palazzi vescovili rimasero per diverso tempo in stato di abbandono.
Il braccio di ferro con il governo terminò nel 1876, quando il papa, probabilmente per l'impossibilità di sostenere l'enorme spesa che il mantenimento dei vescovi comportava, consentì che venisse richiesto l'exequatur. Lo Stato italiano poté così contare su un efficace strumento di controllo, anche se l'uso che ne fu fatto si limitò a pochi casi particolari.
La presa di Roma e gli atti governativi che, dall'Unità in poi, furono improntati ad un malcelato giurisdizionalismo (si pensi, oltre alla soppressione di molti enti ecclesiastici, alla legge che obbligava i chierici a prestare il servizio militare (1869), o a quella che escludeva l'insegnamento religioso dalle materie obbligatorie nella scuola elementare (1877)) rinforzarono la corrente intransigente. I cattolici furono più volte ammoniti di non collaborare, per quanto possibile, con lo Stato italiano. Per quanto riguardava, però, la partecipazione alle elezioni politiche, la questione si faceva più complicata. Sin dal 1861 don Giacomo Margotti aveva lanciato la parola d'ordine «né eletti, né elettori», sostenendo che un cattolico non avrebbe potuto avere preferenze tra candidati che, indipendentemente dalle correnti politiche di appartenenza, costituivano dei nemici per la Chiesa. La Santa Sede fu per diversi anni incerta ed esitò ad assumere posizioni precise, invitando all'astensionismo in modo non chiaro, poco convincente. Si rese necessaria, pertanto, una presa di posizione netta. Alla vigilia delle elezioni generali del 1874 il Vaticano sciolse ogni dubbio: non era conveniente (non expedit) che i cattolici vi partecipassero, che prendessero parte alla vita politica di uno Stato usurpatore. Il Regno d'Italia, a poco più di un decennio dalla sua fondazione, si trovava costretto ad affrontare una dura opposizione interna: la polemica sul Risorgimento, in seno al movimento cattolico, si sarebbe protratta per anni.

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domenica 2 febbraio 2014

Il pontificato di Pio IX e la nascita del Regno d’Italia (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 febbraio 2014)
 
Il 6 giugno 1846 fu eletto dal conclave Giovanni Maria Mastai, che assunse il nome di Pio IX. Animato da una profonda fede religiosa, il papa inizialmente subì l'influenza dell'opinione pubblica italiana, che andava sempre più reclamando un'evoluzione in senso liberale. In breve tempo concesse un'amnistia per i reati politici, approvò la realizzazione di un tratto ferroviario e introdusse l'illuminazione a gas nella città di Roma. Successivamente, confortato dal consenso e dall'entusiasmo che accompagnavano la sua politica, autorizzò una controllata libertà di stampa, la costituzione di una Guardia Civica e di una Consulta di Stato.
Le riforme di Pio IX (in particolare l'amnistia) alimentarono un clima di forte eccitazione collettiva: in tutta la penisola si tennero manifestazioni in onore del «papa liberale» che assunsero frequentemente chiare connotazioni politiche. Seguirono altri provvedimenti clamorosi, come la pubblicazione di un proclama – che terminava con la frase «Benedite gran Dio l'Italia» – che fu interpretato in senso patriottico, la concessione della costituzione a Roma e il permesso accordato all'esercito pontificio di partecipare alla guerra di Carlo Alberto contro l'Austria. Il sentimento religioso parve finalmente trovare un punto d'incontro con le aspettative di riscatto nazionale.
Grande successo ebbero in questa fase le idee di Vincenzo Gioberti, sacerdote piemontese che nel 1843 aveva pubblicato un'opera dal titolo Del primato morale e civile degli italiani. La tesi di fondo era che il risorgimento italiano avrebbe dovuto avere come base la religione cattolica e come guida, come punto di riferimento, il pontefice. La formula politica ideale per il futuro Stato italiano veniva indicata in una confederazione, la cui presidenza sarebbe spettata al papa. Come bene spiega Alfredo Canavero, la proposta di Gioberti faceva fronte al primo grande problema della questione italiana: quello di salvaguardare il potere temporale del pontefice. Il secondo aspetto – indurre l'Austria a rivolgere le proprie mire a oriente, rinunciando al ruolo di potenza egemone nella penisola – fu affrontato da Cesare Balbo nelle Speranze d'Italia (1844). Con l'elezione di Pio IX, l'euforia per il «papa liberale» si conciliò politicamente con l'affermazione del neoguelfismo. Molti cattolici, i quali avevano mostrato di non gradire le soluzioni di sapore laicista avanzate fino a quel momento, trovarono quindi nel Primato le motivazioni per aderire alla causa italiana.
Con queste premesse esaltanti, a buona parte dell'opinione pubblica italiana parve assurda l'allocuzione Non semel del 29 aprile 1848, con la quale Pio IX affermava di non poter dichiarare guerra all'Austria, una nazione dalle radicate tradizioni cattoliche. All'origine di questo dietrofront ci furono probabilmente le notizie allarmanti che giungevano da Vienna, dove si minacciava addirittura uno scisma per protestare contro l'appoggio che il pontefice sembrava voler prestare ai ribelli nel nord Italia. L'equivoco del «papa liberale» venne finalmente alla luce. All'entusiasmo dei mesi precedenti seguì l'indignazione nei confronti di quello che veniva valutato come un vero e proprio tradimento. Nel novembre dello stesso anno una Roma in rivolta costrinse il papa ad abbandonare il Quirinale per stabilirsi a Gaeta, che sarebbe stata la sua residenza sino al crollo della Repubblica romana, caduta in seguito all'invasione delle truppe francesi. L'idillio che pareva avere unito patriottismo e religione fu drasticamente interrotto. Il pontefice, attraverso la fuga, mostrò di non voler legare le sorti del papato a quelle del risorgimento, ribadendo che la sua missione religiosa era al di sopra degli interessi particolari. Falliva così la proposta neoguelfa, e con essa morivano le speranze di quanti avevano confidato di ottenere il riscatto nazionale in accordo con la Chiesa.
Falliti i moti del 1848, Pio IX fece ritorno a Roma profondamente scottato dall'esperienza dell'esilio e ormai convinto che le aspirazioni moderne verso la libertà costituissero una minaccia per il benessere sociale. Per i successivi trent'anni, fino alla morte avvenuta nel 1878, si mostrò allineato su posizioni intransigenti, preoccupato di difendere la più rigida ortodossia dottrinaria e inamovibile nel rifiuto di qualunque limitazione del suo potere temporale.
Una questione delicata fu quella dei rapporti con lo Stato sabaudo, l'unico della penisola che avesse confermato la costituzione concessa nel 1848. In Piemonte non erano mai stati negati gli antichi privilegi della Chiesa, contrariamente a quanto si era verificato in altri paesi ad opera di alcuni sovrani illuminati. L'incompatibilità con lo Statuto Albertino era palese. Nel 1850 furono così approvate le leggi Siccardi, che prevedevano l'abolizione del foro ecclesiastico, del diritto di asilo e delle pene civili per l'inosservanza delle festività religiose; divenne inoltre necessaria l'approvazione del governo per l'acquisto di beni immobili da parte della Chiesa. Seguì un periodo di forte tensione, che raggiunse l'acme con la proposta di legge per l'introduzione del matrimonio civile e soprattutto con l'approvazione, nel 1855, di un provvedimento di confisca dei beni di diversi ordini religiosi mendicanti, allo scopo di creare una cassa per finanziare i parroci più poveri.  Pio IX reagì con fermezza, e nell'allocuzione Cum saepe inflisse la scomunica a quanti avevano collaborato per l'approvazione della legge.
Nel biennio 1859-1860 la situazione precipitò. Cavour, che con l'invio nel 1855 di circa 18.000 soldati in Crimea si era assicurato l'appoggio di Inghilterra e Francia in funzione anti-austriaca, aveva ormai pianificato le tappe per giungere all'unificazione nazionale. Scoppiata la guerra con l'Austria (aprile 1859), Pio IX cadde in preda allo sconforto: «I Potenti della terra – scrisse in una lettera al fratello Gabriele – sono diventati adulatori della rivoluzione, diventata ormai la potenza più grande del mondo». Nel frattempo l'esercito piemontese ottenne le prime vittorie, cui seguirono le insurrezioni nel nord della penisola e la spedizione dei Mille: il 17 marzo 1861 l'Italia unita, con l'eccezione di una parte di quello che costituiva lo Stato pontificio, del Veneto e del Trentino, era un dato di fatto. Quel giorno il primo Parlamento nazionale proclamava Vittorio Emanuele II re d'Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione».
La Chiesa cattolica, che già aveva dovuto subire l'affronto dell'espropriazione di molti suoi beni in Piemonte, non poteva accettare che il re sabaudo si fosse impadronito anche di alcuni territori nel nord dello Stato pontificio (furono inglobate nel nuovo Regno d'Italia Bologna e parte dell'Emilia, la Romagna, le Marche e l'Umbria, mentre sotto il diretto governo del papa rimase una regione corrispondente all'incirca all'attuale Lazio). Essa reagì pertanto con la scomunica di tutti coloro che avevano di fatto sancito la fine del potere temporale, rifiutandosi categoricamente di riconoscere il nuovo Stato sorto con la rivoluzione. Dal canto suo Cavour, che peraltro intuiva la necessità di una separazione tra Stato e Chiesa, pose all'ordine del giorno la questione della capitale del Regno, che – riteneva – non poteva che essere Roma. In una discussione parlamentare del 27 marzo 1861 – poi divenuta celebre per l'introduzione della formula «libera Chiesa in libero Stato» – egli sostenne che «la riunione di Roma all'Italia non reca pregiudizio di sorta all'indipendenza della Chiesa» e, rivolgendosi direttamente al pontefice, dichiarò che, in cambio di una spontanea rinuncia al potere temporale, lo Stato gli avrebbe garantito quella libertà che in passato gli Stati assoluti avevano concesso al solo scopo di ottenere privilegi e giustificare ingerenze nella vita stessa della Chiesa.
Pio IX respinse senza esitazioni le proposte del governo italiano. I motivi del suo rifiuto erano da individuare nelle ingiustizie commesse da uno Stato che – come riportato nell'allocuzione Jamdudum cernimus del 18 marzo 1861 – «spoglia la Chiesa delle giustissime sue possessioni, ed usa ogni consiglio ed ogni arte per diminuire l'efficacia salutare della stessa Chiesa». La lungimiranza di Cavour, che aveva inteso prima di molti altri che la rinuncia al potere temporale avrebbe consentito alla Chiesa di conquistare una concreta libertà d'azione – dal momento che una Chiesa privata del suo potere temporale avrebbe cessato di fare concorrenza allo Stato, ottenendo in cambio la cessazione delle continue ingerenze dell'autorità civile nelle questioni più importanti della vita religiosa della comunità –, non era condivisa dal pontefice. Questi era convinto che il liberalismo e il laicismo su cui si fondava lo Stato italiano avrebbero provocato un distacco della Chiesa dalla società, privando milioni di uomini dell'unica autentica guida spirituale. A suo parere, il potere temporale non poteva in alcun modo essere messo in discussione. (Continua)

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La Chiesa e la minaccia del liberalismo: dal pontificato di Pio VII a quello di Gregorio XVI

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 gennaio 2014)
 
La Rivoluzione francese del 1789 ebbe conseguenze non solo sul piano politico: la società, la concezione dell'autorità e dello Stato, il comune modo di pensare furono sottoposti a un cambiamento irreversibile. Dinanzi al nuovo mondo che stava nascendo, di fronte alla lotta serrata che contrapponeva antico e moderno, la reazione dei cattolici non fu uniforme. Sorsero sostanzialmente due correnti: da un lato gli intransigenti, dall'altra i cattolici liberali.
La rivoluzione «ha fatto nel politico e nel morale ciò che fece il diluvio nel fisico, cambiando del tutto la faccia della terra». Con queste parole il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato di Pio VII, interpretò lo stato d'animo di sconforto che permeava buona parte del mondo cattolico all'indomani dell'affermazione giacobina. Il tradizionalismo religioso che caratterizzava la corrente intransigente portò ad una totale condanna dei principi egualitari e democratici emersi alla fine del XVIII secolo; nel processo rivoluzionario si individuava il male assoluto, il caos che avrebbe stravolto un ordine sociale in piedi da secoli. La libertà, nei costumi così come in politica, avrebbe aperto la via al peccato, negando quei valori di obbedienza e disciplina sui quali la società cristiana aveva sempre fatto affidamento. Quanto all'utilizzo della stampa come mezzo privilegiato per diffondere le nuove idee, fu lo stesso Pio VII, nell'enciclica Diu Satis (1800), ad augurarsi di riuscire a reprimere la «grande libertà di pensiero e di parola, di leggere e di scrivere».
Del liberalismo gli intransigenti non riuscivano a vedere che il lato negativo. Furono addirittura guardate con diffidenza alcune innovazioni che certo giovarono all'arretrata società di inizio ‘800. Gregorio XVI evitò di introdurre nello Stato Pontificio la ferrovia (probabilmente temendo che questa potesse agevolare l'incontro delle persone e, di conseguenza, delle idee) e si oppose all'uso dell'illuminazione a gas, che avrebbe potuto facilitare i tanto temuti convegni notturni. Il progresso sociale delle classi meno abbienti, così come i principi di uguaglianza e la diffusione dell'istruzione non erano ammissibili per questi cattolici, che avevano ben chiara nella mente un'idea di società immobile, all'interno della quale ogni cosa doveva seguire un ordine prestabilito. Alle masse spettava il lavoro; a pochi privilegiati la guida della società e la possibilità di emergere dalla mediocrità attraverso lo studio. Per i più deboli, la rassegnazione, il rispetto e il timore erano considerati valori assoluti.
Il liberalismo non era conciliabile con il tradizionalismo intransigente anche per questioni di puro principio. Aveva elevato la ragione umana – scrive Giacomo Martina – a «criterio unico di verità» e «proclamava un indifferentismo sistematico che metteva l'ateismo e tutte le religioni sullo stesso piano»; relegava inoltre, per così dire, la religione in un angolo, concedendole di occuparsi esclusivamente di questioni dogmatiche o legate all'intimo della coscienza umana. Dinanzi a questo tentativo di laicizzazione gli intransigenti reagirono con fermezza, difendendo le prerogative della Chiesa e quelle che essi consideravano le basi della fede. Con l'obiettivo di proteggere la società cristiana e la dimensione religiosa della vita quotidiana, questi cattolici finirono per adottare strategie che si sarebbero rivelate storicamente in contrasto con l'inevitabile evoluzione politica e sociale di quegli anni. L'errore fu quello di ritenere l'ancien régime l'unica forma possibile di società cristiana; fu quello di escludere qualunque tipo di conciliazione con un progresso che, di lì a poco, si sarebbe rivelato inarrestabile.
Con il Congresso di Vienna e l'inizio dell'età della Restaurazione la Chiesa poté illudersi di aver recuperato le posizioni e i privilegi di cui aveva goduto nei tempi passati. Il trionfo degli ideali romantici e la conseguente esaltazione dell'aspetto irrazionale dell'animo umano portarono al recupero del mito del Medioevo, di un'epoca caratterizzata da una maggiore sintonia tra società e religione cristiana. Come sottolinea Alfredo Canavero, «in una società che l'individualismo degli illuministi e l'anarchia dei rivoluzionari aveva disgregato, la religione apparve ai pensatori romantici come l'unica possibilità di dare fondamento e contenuto ai concetti di dovere morale e comportamento politico». Con queste premesse, si giunse in breve tempo ad una secca equiparazione, quantomeno sul piano delle conseguenze materiali, di rivoluzione e barbarie. Il ritorno al passato costituiva l'unica reazione possibile di fronte all'avanzata del liberalismo e del principio di laicizzazione che questo portava con sé.
La Restaurazione non fu tuttavia in grado di ripristinare completamente il mondo pre-rivoluzionario. Le ingerenze della Chiesa nella vita civile non potevano più essere tollerate come un tempo, ferma restando la necessità di un accordo (che spesso assunse la natura del concordato) per fronteggiare il comune nemico, il liberalismo. Pio VII era consapevole della necessità di fare alcune concessioni rispetto alle novità introdotte durante il periodo rivoluzionario e napoleonico: egli intuì che solo attraverso una politica di comuni intenti e di accordi con l'autorità statale la Chiesa avrebbe potuto mantenere il suo ruolo di indiscussa guida spirituale.
Alla morte di Pio VII, avvenuta nel 1823, gli intransigenti ottennero due importanti successi: le elezioni rispettivamente di Leone XII e Gregorio XVI (con in mezzo la breve parentesi del pontificato del più moderato Pio VIII). Gregorio XVI (1831 – 1846), in particolare, si distinse per il rigore dottrinale e politico. Questo suo atteggiamento è da ricondurre allo sdegno che i moti insurrezionali del 1830 avevano suscitato negli ambienti conservatori.
L'irrigidimento del pontefice, che nel successo delle idee liberali scorgeva una minaccia alla stabilità del potere temporale, provocò, per reazione, lo sviluppo di correnti moderate in seno al movimento cattolico. In disaccordo con gli intransigenti, che andavano assumendo posizioni sempre più dure nei confronti degli ideali moderni, cominciarono a far sentire la propria voce i cattolici liberali. Essi ritenevano che i fatti dell'89 non potessero essere cancellati con un secco colpo di spugna, e che al contrario fosse indispensabile accettare il nuovo rapporto tra società religiosa e società civile che la rivoluzione aveva determinato. La rivendicazione dei diritti del cittadino, la lotta al privilegio, la conquista della libertà di espressione, di associazione e di stampa, la partecipazione dei cattolici alla vita politica: questi erano i valori da cui partire per costruire il futuro delle nascenti entità statali in Europa. Il fatto che la Chiesa fosse aspramente combattuta in molti paesi costituzionali era da addebitare – secondo l'opinione dei cattolici liberali – non tanto al cinismo dei governi, quanto piuttosto all'incapacità di molti cattolici di accettare i nuovi regimi politici, in difesa del vecchio assolutismo.
Un ruolo importante assunse in quegli anni il sacerdote francese Félicité Robert de Lamennais. Egli era convinto che la Chiesa necessitasse al più presto di una forte azione rinnovatrice che le consentisse di tenere il passo con il progresso sociale. L'alleanza con i regimi assoluti era da considerarsi sinonimo di debolezza e nel tempo avrebbe portato ad un progressivo distacco dalla società.  Occorreva pertanto un impulso forte che conducesse ad una vera e propria svolta. E siccome le Chiese locali erano troppo compromesse con i regimi assoluti, il papa stesso avrebbe dovuto guidare e appoggiare questo progetto. Lamennais affidò al giornale «L'Avenir» la diffusione delle proprie idee liberali.
Anche se il laicismo dell'abate francese non aveva come obiettivo la completa separazione tra Stato e Chiesa (per i cattolici liberali lo Stato doveva rispettare i diritti della Chiesa e mantenere un carattere cristiano nella sua legislazione, pur nel rispetto delle altre confessioni religiose), la condanna di Gregorio XVI non si fece attendere. Nel 1832 il pontefice, attraverso l'enciclica Mirari Vos, criticò duramente ogni forma di apertura liberale, definendo, tra l'altro, «pessima né mai abbastanza esecrata ed aborrita» la libertà di stampa. La Chiesa – precisò con decisione il papa –, in quanto istituita da Gesù Cristo, era perfetta e non necessitava di alcuna riforma.
L'opera del Lamennais non mancò tuttavia di attrarre consensi. Uomini di cultura e prestigio del calibro di Alessandro Manzoni, Nicolò Tommaseo, Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti si schierarono apertamente su posizioni liberali, contribuendo con i propri scritti a diffondere le speranze di rinnovamento di una parte importante del movimento cattolico italiano. È comunque importante sottolineare che il cattolicesimo liberale fu sostanzialmente espressione di una minoranza colta, la cui influenza, rispetto a quella degli ecclesiastici che realmente potevano condizionare l'atteggiamento generale della Chiesa, non va ingigantita. Di fatto gli intransigenti mostrarono una maggiore compattezza e riuscirono per parecchio tempo a far prevalere le loro idee.

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