sabato 20 luglio 2013

Processo a Rainaldo Bonacolsi, il “Duca” Passerino



(articolo apparso su Prima Pagina del 14 luglio 2013)

 
Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano


Il nome di Rainaldo Bonacolsi, detto Passerino per via della corporatura minuta, è indissolubilmente legato a quello della località di Zappolino, teatro dell'epica battaglia datata 15 novembre 1325 nella quale i modenesi, membri di un'ampia coalizione ghibellina, sbaragliarono i guelfi bolognesi, conquistando il simbolico trofeo della Secchia Rapita reso celebre dai versi in rima del Tassoni. Passerino – che come vicario imperiale di Mantova aveva ottenuto la signoria di Modena nel 1312 –, quale capitano della pars imperii ebbe un ruolo decisivo nello scontro, ma non seppe gestire le fasi successive di un trionfo militare che, se rappresentò l'acme della sua parabola politica, segnò anche l'inizio di un inesorabile declino. Cosa accadde dunque all'indomani di quel giorno di novembre di 688 anni fa?
Tra le colline bolognesi di Zappolino si fronteggiarono due eserciti piuttosto imponenti per i canoni dell'epoca. I ghibellini, i cui capi più potenti – il Bonacolsi, Cangrande Della Scala, Galeazzo Visconti, Castruccio Castracani e Rinaldo d'Este – si erano uniti in una lega, potevano schierare tra i 5.000 e gli 8.000 fanti e circa 2.500 cavalieri; più o meno equivalente nella cavalleria, l'armata guelfa era invece nettamente superiore nella fanteria, che contava ben 30.000 unità. Alla clamorosa vittoria la compagine filo-imperiale giunse compensando l'inferiorità numerica con la superiore abilità nel manovrare in un campo di battaglia impervio, chiuso su tre lati dalla cornice dell'Appennino. La portata del successo fu tale da far presumere agli sconfitti che Bologna sarebbe facilmente caduta nelle mani dei ghibellini. Il che, però, non avvenne, anche perché questi ultimi – inspiegabilmente, secondo il giudizio riportato da diverse cronache – non cinsero d'assedio la città rivale, limitandosi a correre alcuni palii presso le mura come gesto di scherno.
In realtà, in epoca medievale l'assedio di una città non era affatto impresa semplice e si trattava, nel caso in questione, di un'azione militare non alla portata dell'esercito ghibellino, vista l'inutilità degli assalti della cavalleria – suo punto di forza – in questo tipo di operazioni. Ciò che tuttavia desta polemiche ancora oggi è il trattato di pace stipulato da Passerino il 28 gennaio 1326. Esso infatti non fu per nulla penalizzante per Bologna, prevedendo al contrario clausole di per sé inconcepibili se si tiene conto esclusivamente di quanto accaduto sui colli di Zappolino. Come ha scritto Vittorio Lenzi, autore di uno studio sulla battaglia, «non è facile spiegare come i Bolognesi, a soli due mesi dalla disfatta, abbiano potuto ottenere la restituzione di tutti i castelli che avevano perduto e di tutti i prigionieri ancora non riscattati».
L'ipotesi che ha goduto, negli anni, di maggior credito è che il Bonacolsi si sia fatto corrompere. Non è però da escludere che Passerino abbia optato per un compromesso che gli garantisse una tregua col fronte guelfo (pur sempre agguerrito nonostante la batosta) e, al contempo, la possibilità di rinsaldare un potere personale che gli scricchiolii dell'alleanza ghibellina rischiavano di mettere a repentaglio. Certo è che, specie se si pensa alla tragica morte occorsa a nemmeno tre anni di distanza dai fatti di Zappolino, la sua figura resta controversa.


L'accusa di Gabriele Sorrentino


Il 15 novembre 1325 una coalizione ghibellina guidata dal mantovano Rainaldo “Passerino” Bonacolsi sconfisse duramente i guelfi, comandati da Malatestino Malatesta e dal capitano bolognese Fulcieri da Calboli, a Zappolino. Passerino era “signore” di Modena dal 1312 e tra i ghibellini militavano anche Azzone Visconti e Rinaldo d’Este, mentre Cangrande della Scala aveva abbandonato il campo per dissapori con gli alleati. Le cronache raccontano di una astuta manovra di cavalleria che portò alla rotta catastrofica i guelfi. Fu una grande mattanza che durò sino alla notte, quando i superstiti poterono rifugiarsi nei castelli di Zappolino, Bazzano e Piumazzo, mentre Crespellano il 16 novembre venne conquistata dai modenesi.
Bologna tremava perché non c’era più un esercito guelfo a difenderla. Eppure, quando i vincitori giunsero sotto le mura petroniane – era il 17 novembre – non assediarono la città. Si limitarono a sbeffeggiare i difensori, a correre tre corse – una in onore di Azzone Visconti, una di Passerino, una di Rinaldo d’Este – e a saccheggiare il territorio. Tra i trofei ci fu la famosa secchia rapita, rubata probabilmente da qualche pozzo fuori delle mura bolognesi. Il 24 novembre anche Bazzano si arrese ai modenesi, ma i ghibellini non diedero il colpo di grazia a Bologna.
In realtà non era facile, nel Trecento, assediare una città d’inverno, soprattutto quando da Piacenza stava scendendo un esercito guelfo in aiuto della città. La scelta di abbandonare il campo, quindi, era logica e non è per questa decisione che va condannato Passerino. Diversa, però, è la situazione legata al trattato di pace che il Bonacolsi, il 28 gennaio 1326, firmò con l’odiata rivale. L’accordo lasciò ai bolognesi tutti i territori contesi – Monteveglio, Savignano e Bazzano – in cambio della sola promessa di restituzione di Nonantola, occupata nel 1306. Il Frignano venne assegnato a Guidinello III da Montecuccoli che, pur ghibellino, era nemico di Rainaldo. Come è possibile che un condottiero vittorioso abbia ceduto a un accordo così sfavorevole?
Certo, per Passerino possiamo invocare alcune attenuanti generiche. La coalizione ghibellina stava sfaldandosi, dopo la rottura con Cangrande; Azzo Visconti e Rinaldo d’Este si erano presto defilati, tentando un accordo col Papa, il primo oppresso dalla scomunica, il secondo desideroso di vedersi confermata Ferrara. Il trattato, letto in volgare nella Cattedrale, è sfacciatamente favorevole agli sconfitti, anche se conteneva clausole che perdonavano i saccheggi e le violenze della guerra e che, tra l’altro, permisero alla secchia rapita di rimanere a Modena. Passerino aveva dimostrato di non essere uno stolto, non avrebbe potuto cadere in un simile tranello. Per questo molti storici sono convinti che si fece comprare dall’oro bolognese e così facendo tradì i modenesi, i quali nel 1327 lo cacciarono dalla città.


La difesa di Matteo Maria Bonghi

 
Dopo Zappolino, a Passerino vengono imputate due colpe: non aver approfittato dello sbandamento dei guelfi per conquistare Bologna; aver firmato una pace rinunciataria, “vergognosa” secondo alcuni cronisti.
Confutare la prima accusa è facile. Basta consultare un manuale militare per capire che all’epoca vincere una battaglia campale e conquistare una città erano due cose molto diverse. Per un esercito del Trecento espugnare una città era un’impresa non facile. Richiedeva tempo e dispendio di mezzi e uomini. E Passerino non aveva né l’uno, né gli altri. Le sue truppe erano scarse di fanti e la vittoria era stata ottenuta grazie alla cavalleria. Ma la cavalleria era di poca utilità nell’assalto a una città cinta di mura. Inoltre la via di un lungo assedio invernale, mentre alle spalle gli equilibri politici e le alleanze venivano ridefinite, era impercorribile. Per questa imputazione Passerino verrebbe assolto da qualsiasi giuria.
Più complessa è la seconda questione. Poco dopo il trionfo sui bolognesi, con fretta sospetta Passerino firmò un trattato di pace molto penalizzante per i vincitori. Restituì le rocche conquistate chiedendo, in cambio, solo che entro cinque anni Bologna consegnasse Nonantola, benché nulla garantisse che i felsinei avrebbero rispettato l’accordo.
Perché Passerino si comportò in questa maniera? Molti cronisti parlano di corruzione. Passerino si sarebbe fatto comprare dall’oro.
Secondo il sottoscritto invece i motivi di questa incomprensibile pace sono da ricercare in logiche tutt’altro che irrazionali e al contempo molto attuali. Chiunque abbia un minimo di esperienza di vita politica sa che il nemico si trova sempre nel proprio schieramento e quasi mai in quello opposto. Dall’altra parte c’è l’avversario, che è cosa ben diversa, con il quale ci si confronta più o meno lealmente ma sempre da posizioni distinte. Invece la coltellata alla schiena, quella più temuta, viene sempre dalle proprie fila, dal seguito.
La spiegazione può venire da qui. Il Bonacolsi guidava uno schieramento tutt’altro che solido. E dopo la vittoria gli scricchiolii si erano fatti assordanti. Aveva quindi bisogno di concludere in fretta la pace con l’avversario per non rischiare di trovarsi stritolato tra i guelfi, ancora forti e potenti, e gli inaffidabili alleati.
Basti pensare che il crollo del potere bonacolsiano si sarebbe avuto pochi anni dopo proprio a causa del tradimento dei “fedelissimi” Gonzaga, che alla prima occasione affondarono il coltello nella schiena del loro protettore.
A ben guardare poi, dopo la battaglia di Zappolino, una delle più sanguinose dell’epoca, Modena ottenne due risultati di lungo periodo: guadagnò il controllo su entrambe le sponde del Panaro, garanzia di confini sicuri; provocò se non il declino di Bologna, la fine della sua capacità espansiva. Dopo questa sconfitta Bologna, allora quinta città d’Europa, non sarebbe più stata quella di prima.
Quindi ci sentiamo di poter chiedere l’assoluzione anche per questa seconda imputazione, benché un po’ di rimpianto per questa “vittoria mutilata” rimanga in fondo a ogni modenese.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia



«Anarchici a Modena»: la «dimensione umana» di una raccolta di biografie

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 luglio 2013)

Studiando il passato sui manuali scolastici non è infrequente commettere l'errore di accontentarsi di alcune definizioni onnicomprensive che, se hanno il pregio di condensare in poche righe i risultati di anni di ricerca, inevitabilmente trascurano, per dovere di sintesi, le esperienze individuali di coloro che, con le proprie scelte di vita, hanno rappresentato i singoli tasselli del complesso mosaico della storia. Concetti come quello di rivoluzione, risorgimento o resistenza, per esempio, possono risultare fuorvianti se non osservati attraverso una lente di ingrandimento in grado di far emergere dallo sfondo i protagonisti che hanno incanalato gli avvenimenti in modo tale da farli confluire in uno dei tanti recipienti virtuali – si passi il termine – di cui non si può fare a meno in sede di ricostruzione storiografica. E se questa procede per categorie (frutto dello sforzo interpretativo degli studiosi), ciò non significa che sia lecito pretendere di capire il passato senza avere fatto i conti con un numero sufficiente di profili biografici. In sostanza, non si può scrivere la macrostoria senza passare per la microstoria: perché la rivoluzione, il risorgimento o la resistenza contengono prima di tutto storie di uomini.
L'operazione portata a termine da Andrea Pirondini nel suo ultimo libro (Anarchici a Modena. Dizionario biografico, Zero in condotta, 2012) risponde proprio all'esigenza di dare un volto a tante persone dimenticate, schiacciate sotto il peso di un'ideologia – peraltro difficilmente classificabile come atteggiamento politico ben definibile – che alla fine ha prevalso sugli individui. A ciò si aggiunga che l’anarchismo, tra le molteplici correnti di pensiero del mondo contemporaneo, è stato vittima di un pregiudizio piuttosto diffuso tra gli storici della seconda metà del Novecento, i quali – ha scritto Gaetano Manfredonia – hanno spesso commesso l’errore di «vedere nelle idee e nei movimenti libertari del loro tempo la semplice sopravvivenza di un passato definitivamente condannato dall’evoluzione del mondo moderno», relegato in un «ghetto intellettuale» tanto dai marxisti quanto dai liberali, sbrigativamente interpretato come una serie di «forme “primitive” di rivolta preindustriale». Di fatto, all’anarchismo uno studente mediamente preparato è presumibilmente in grado di associare il nome di Bakunin (ma già su Kropotkin, per esempio, incontrerebbe grosse difficoltà) e, forse, una stringata definizione non molto più articolata di quella che è possibile ricavare sfogliando il Vocabolario Treccani: «Dottrina storico-politica che propugna l’abolizione di ogni governo sull’individuo e, soprattutto, l’abolizione dello stato, da attuare eliminando o riducendo al minimo il potere centrale dell’autorità […] [e attraverso] un estremo decentramento dei poteri amministrativi della società, affinché i lavoratori possano organizzare da sé la proprietà e l’amministrazione dei mezzi di produzione».
Lungi da chi scrive l’intento di screditare il Vocabolario Treccani, è tuttavia difficile non concordare con Pirondini quando, nelle pagine di introduzione, rivendica la «dimensione umana» del suo libro, che è prima di tutto storia di individui. Egli implicitamente raccomanda che le domande «Cos’è stato l’anarchismo?» e «Chi sono stati gli anarchici?» a più riprese si intreccino, perché non è possibile affrontare la prima senza avere precedentemente risposto alla seconda. Anche per questo, quindi, il volume si divide in due parti, una «tematica» ed una, la principale, «biografica». Nella prima «sono descritte in modo dettagliato le organizzazioni, i giornali ed alcuni momenti salienti legati alla storia degli anarchici modenesi»; nella seconda, «arricchita da un importante apporto fotografico, troviamo le biografie dei nomi più conosciuti e in vista dell’anarchismo modenese affiancate, per la prima volta, dai tanti ‘militanti di base’, che rappresentano il tessuto connettivo, il vero nerbo del movimento». In totale, quasi 300 profili.
In questa sede, per carenza di spazio, non è possibile soffermarsi su tutti i nomi: si è costretti a fare una scelta. Si potrebbe offrire al lettore un quadro generale del movimento anarchico modenese, dal sorgere delle prime organizzazioni di stampo socialista nella seconda metà dell’Ottocento fino al più recente secondo dopoguerra; oppure si potrebbe descrivere nel dettaglio un episodio significativo come l’eccidio di Piazza Grande del 7 aprile 1920, quando i carabinieri aprirono il fuoco in direzione di una nutrita folla di manifestanti – che scioperava per protestare contro precedenti episodi di violenza –, lasciando sul terreno 4 morti e ferendo una trentina di persone (una delle quali sarebbe in seguito deceduta in ospedale). Ma, anche per non cadere in contraddizione rispetto alla premessa di questa recensione, è opinione di chi scrive che sia preferibile raccontare brevemente la storia di alcuni esponenti del movimento anarchico modenese, con la consapevolezza che, inevitabilmente, la maggior parte di essi non potrà essere citata. Come fare, quindi, per scegliere i nomi? Un percorso praticabile potrebbe essere quello di seguire l’indicazione indirettamente fornita dallo stesso Pirondini, il quale, dovendo a sua volta operare una scelta, ha selezionato cinque fotografie per la copertina del libro. Fotografie che ritraggono i fratelli Lusvardi, tutti – il che è senza dubbio curioso – militanti anarchici durante il Ventennio fascista.
Il primo che si incontra è Aldebrando, nato nel 1902, che all’età di 22 anni aderisce al Gruppo libertario giovanile della Madonnina con la mansione di cassiere. Subito segnalato e schedato dalla questura quale «accanito avversario del Regime fascista», è più volte arrestato per attività sovversiva, finché, «dopo la fuoriuscita o l’arresto dei più attivi militanti anarchici modenesi», non decide di avvicinarsi ad alcuni esponenti comunisti. Scelta che tuttavia gli costa una denuncia al Tribunale speciale per «intensa attività comunista» e che, di fatto, lo costringe ad espatriare in Francia nel 1930. L’anno seguente la polizia lo annovera tra i fuoriusciti favorevoli «a combattere il regime con azioni violente», cosa che in effetti si verificherà durante il periodo della Resistenza. «Non si conosce con precisione – conclude Pirondini – il luogo della morte che pare sia avvenuta nel giugno 1986».
Più vecchio di Aldebrando di sei anni è Alfredo, anch’egli membro in gioventù del Circolo della Madonnina. Indiziato, insieme col fratello Filippo, dell’omicidio del fascista Mario Ruini (21 gennaio 1921), è rilasciato per mancanza di prove, anche se la questura lo definisce «anarchico pericoloso e capace». Nel 1922 si stabilisce in Francia, trovando impiego come muratore a Parigi. Anarchico convinto, è arrestato dalla polizia tedesca nel 1940: passa attraverso il carcere, il campo di concentramento e il confino, finché, rilasciato, non giunge a Modena nell’agosto del 1943, partecipando marginalmente alla Resistenza. Finita la guerra torna in Francia, dove muore nel 1986.
Il terzo Lusvardi è Bruno (nato nel 1904), come i fratelli precoce antifascista. Più volte arrestato tra gli anni Venti e Trenta, entra a far parte del gruppo Italia Libera – Ciro Menotti e, una volta fuoriusciti i più attivi militanti anarchici, prende contatto con la struttura clandestina comunista. I nuovi compagni, racconterà in seguito, mostrano tuttavia una certa diffidenza nei suoi confronti, giungendo persino ad accusarlo di fare il doppio gioco. Dopo l’8 settembre 1943 si arma per andare in montagna coi partigiani e aderisce infine al Partito d’Azione, di cui diviene rappresentante in seno al CLN. A guerra finita è attivo nella Federazione Comunista Libertaria di Modena, città dove muore nel 1987.
Proseguendo la lettura si incontra Filippo, che nel 1918, a soli 19 anni, è condannato a sette anni di reclusione dal Tribunale militare di Cuneo per diserzione (pena poi sospesa). Aderisce in seguito al gruppo anarchico della Madonnina ed è accusato, come detto, dell’omicidio di Ruini. Scagionato, nel 1922 decide di espatriare, trascorrendo due anni in Algeria prima di stabilirsi a Parigi, dove aderisce al Movimento anarchico fuoriuscito. Combatte in Spagna durante la guerra civile. Rientrato in Francia, è arrestato dalla polizia tedesca nel 1940 e, come Alfredo, passa dal carcere al confino, finché, con l’8 settembre, non fa rientro a Modena. Dopo aver preso parte alla Resistenza, a guerra finita rientra in Francia, dove muore nel 1991.
L’ultimo Lusvardi è Medardo, il più anziano (nasce nel 1897), che, secondo la questura, «gode di un certo ascendente sulle masse e di ciò si serve per far propaganda». Bastonato dai fascisti durante uno scontro nel 1921, diventa presto oggetto di ripetute aggressioni. Nella sua bottega di calzolaio si riuniscono alcuni giovani anarchici, che non mancano di attirare i sospetti della questura. Costantemente sorvegliato e più volte arrestato nel corso del Ventennio, durante il periodo della Resistenza perde il figlio Bruno, fucilato per rappresaglia dai nazisti. Nel dopoguerra è eletto membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Muore a Modena nel 1963.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

lunedì 8 luglio 2013

Il Modenese tra fine Ottocento e primo Novecento: profilo socio-economico

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 giugno 2013)
 
La società modenese di fine XIX secolo – ha scritto Luigi Paganelli – si presentava «come una realtà chiusa e prevalentemente statica, più legata alla tradizione che aperta alle novità indotte dal compimento del processo unitario nazionale e dall'affermarsi della rivoluzione borghese in Italia, scarsamente consapevole, nella sua ristretta cultura, anche di quegli elementi di novità e di quelle potenzialità che pur vi si possono riscontrare». Questi limiti, uniti alla miseria delle classi lavoratrici e a un'economia pressoché completamente agricola, rallentavano lo sviluppo di una provincia in cui povertà e indigenza costituivano un'autentica piaga sociale.
Le cattive condizioni di vita bloccarono per l'intero trentennio postunitario la crescita demografica. Sul finire del secolo il Comune di Modena contava meno di 60 mila abitanti, e comprendendo l'intera provincia non si superavano le 300 mila unità.
Nel 1884 l'Inchiesta agraria Jacini dipingeva per Modena un quadro sconcertante, giungendo persino ad affermare che «gli animali godono miglior salute che gli uomini». Circa un terzo della popolazione viveva di stenti e la situazione sanitaria era disastrosa. Le epidemie, tutt'altro che infrequenti, provocavano ingenti perdite. I casi più significativi si ebbero tra il 1883 e il 1887, quando colera e vaiolo, comparsi in rapida successione, causarono centinaia di vittime. Ancora nel 1905 i decessi per malattia ammontarono a 2.905, circa un terzo per colera. Desolante, di conseguenza, pure il dato della mortalità infantile: nel 1910 appena 72 neonati su 100 arrivavano all'anno di vita. Un ruolo decisivo era giocato certamente dalle pessime condizioni igieniche: «Non esistevano – scrive Giuliano Muzzioli – impianti per la potabilizzazione dell'acqua che, anzi, in molti casi veniva prelevata dai pozzi adiacenti a gabinetti o a canali di scolo; le strade erano ripulite più dalla pioggia che dall'uomo e le fogne erano quasi sempre a cielo aperto».
Incapace di resistere in condizioni simili, spesso priva di un posto di lavoro sicuro, molta povera gente optò per l'emigrazione, che raggiunse il suo acme nel primo ventennio del Novecento (nel triennio 1906-1908 la media per la provincia di Modena – 2123 partenze ogni 100.000 abitanti – superò quella nazionale – 2.032 su 100.000 – e, in generale, dal 1900 alla Prima guerra mondiale le partenze superarono costantemente le 4.000 unità annue). Ad essere maggiormente colpite furono le zone appenniniche e della Bassa: nel 1921, su 4.600 modenesi emigrati all'estero, ben 4.000 erano montanari. Le autorità, se inizialmente tentarono di opporsi a quello che appariva un doloroso esodo provocato dalla disoccupazione, col tempo presero a considerare l'abbandono delle terre natali un'efficace valvola di sfogo dinanzi alla minacciosa avanzata del movimento socialista. Il giornale di orientamento liberale «Il Panaro» nel 1899 ne sottolineò addirittura i vantaggi economici, argomentando che, nel caso dell'emigrazione temporanea, «si tratta di fior di quattrini guadagnati all'estero e spesi in patria con vantaggio della produzione nazionale».
La disoccupazione, ha scritto Pietro Alberghi, era «un flagello cronico»: «I braccianti lavoravano in media sei mesi all'anno, da aprile ad ottobre. Nel lungo periodo di forzata inattività riuscivano a sopravvivere grazie ai pochi risparmi accumulati nei mesi di lavoro e alla pubblica beneficenza. Essi costituivano però un incombente pericolo per l'ordine pubblico. Per questo i prefetti non si stancavano di raccomandare, nel periodo di stasi delle operazioni agricole, al ministro dei Lavori pubblici e alle amministrazioni comunali e provinciali il finanziamento di opere pubbliche straordinarie».
Per tutto il cinquantennio postunitario Modena rimase una provincia essenzialmente agricola. Luigi Paganelli sottolinea che nel 1911 «l'80 per cento delle 2.560 imprese "industriali" censite ha meno di 5 addetti» e che, su 30.000 lavoratori dipendenti del settore, «ci sono 13.000 artigiani e lavoratori a domicilio [...] a definire una situazione tipica di un regime pre-industriale». Una tale arretratezza economica fu alla base del costante aumento della percentuale di popolazione impiegata nei campi (nel 1861 gli agricoltori erano il 57%; a fine secolo la percentuale raggiunse il 60%, fino al picco del 1921, quando il valore salì al 65%), a fronte del quale non si registrarono peraltro significativi miglioramenti dal punto di vista della gestione dei terreni, della coltivazione e delle tecniche. Vi fu, al contrario, una diminuzione del numero dei lavoratori autonomi (piccoli proprietari, affittuari e mezzadri) a favore dei braccianti, con la conseguente proletarizzazione di buona parte del settore agricolo. La mezzadria rimaneva comunque il principale rapporto di produzione ed era regolata spesso in maniera iniqua a favore dei proprietari. La tradizionale durata annuale dei contratti costituiva poi un limite evidente, dal momento che rendeva poco convenienti gli investimenti per apportare migliorie.
Lievi progressi si riscontrarono solo agli inizi del XX secolo, quando furono introdotti nuovi sistemi di rotazione, si procedette all'estensione delle superfici destinate alle colture intensive e vennero sfruttati in maggior quantità i concimi chimici, migliorando sensibilmente le rese. La modernizzazione delle tecniche riguardò però solamente la pianura: in montagna, infatti, le avversità climatiche, l'arretratezza dei metodi e l'eccessivo frazionamento della proprietà rendevano pressoché impossibile un incremento sensibile della produttività.
L'attività industriale aveva scarso peso nell'economia modenese. Le imprese, dislocate in gran parte in periferia, erano per lo più manifatture che davano lavoro ad artigiani e apprendisti. Si trattava prevalentemente di botteghe e mestieri tradizionali (falegname, sarto, fabbro, orefice, ecc.), che solo a fine secolo cominciarono a servirsi con continuità di forza motrice idraulica o a vapore; oppure, data la natura essenzialmente agricola dell'economia modenese, di industrie che si occupavano della lavorazione delle derrate alimentari. Una discreta produttività era garantita dai settori tessile e della ceramica, così come una buona efficienza fu raggiunta tra fine Ottocento e primi Novecento dall'industria del truciolo. Un'eccezione era infine la Manifattura Tabacchi, che a fine secolo giunse a dare lavoro a circa 1.000 dipendenti (per il 90% donne), confermandosi come l'attività con il maggior numero di addetti. In generale, comunque – scrive Muzzioli –, «l'assenza di una convinta e diffusa coscienza industriale fu senz'altro uno dei limiti dell'industria modenese; i capitali [...] vi vennero indirizzati con molta parsimonia, preferendo impiegarli nell'agricoltura, nel commercio o, più tranquillamente, depositarli in banca». Tra le province d'Italia, Modena occupava a fine Ottocento il 43° posto per consistenza industriale.
Arretratezza economica, disoccupazione e miseria erano accompagnate da un elevato tasso di analfabetismo, che a inizio Novecento superava il 50% (rispetto al 66% del 1861). Il sistema scolastico, anche dopo che la legge Coppino del 1877 ebbe ribadito – portandola fino a nove anni – l'obbligatorietà dell'istruzione elementare, non poteva di certo dirsi efficiente. I genitori, bisognosi di braccia, spesso preferivano far lavorare i figli nei campi piuttosto che mandarli a scuola; i fondi non erano sufficienti né per le strutture né per la remunerazione degli insegnanti, dipendenti pubblici tra i peggio retribuiti; infine l'Università, ridotta da una legge nazionale al rango di ateneo minore fino al 1887, vide diminuire il numero di iscritti da 476 di media all'anno (anni 1859-1864) a 460 (anni 1909-1915). Qualche piccolo progresso, soprattutto con la fondazione di scuole elementari in diversi comuni della provincia, si ebbe ad opera dei socialisti, che vedevano nell'istruzione un aspetto indispensabile per l'emancipazione delle masse. Ma, nel complesso, i risultati furono modesti.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

Raimondo Montecuccoli, perché un gigante del passato è caduto nell'oblio

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 giugno 2013)

A proposito di Raimondo Montecuccoli, nel 1988 il grande storico Raimondo Luraghi scrisse che «la semplice enunciazione dei suoi titoli e delle sue funzioni storiche basta per evocare dalle ombre del passato una personalità enorme; un gigante del pensiero e dell'azione come ben pochi altri; un uomo la cui vita sfida le vicende fantastiche e gloriose di quella di Napoleone I». Al momento della morte, sopraggiunta il 16 ottobre 1680, il condottiero originario del Frignano era infatti «principe del Sacro Romano Impero germanico, luogotenente generale e feldmaresciallo degli eserciti imperiali, presidente del supremo consiglio aulico di guerra, consigliere segreto dell'imperatore, gran maestro dell'artiglieria e fortificazioni, camerlengo e cavaliere del Toson d'Oro, governatore dell'Ungheria, signore di Hohenegg, Osterburg, Gleis e Haindorf». Ma soprattutto, al di là dei titoli e delle prestigiose onorificenze, Montecuccoli era stato l'artefice del capolavoro militare della battaglia di Mogersdorf, presso il fiume Raab, dove il 1° agosto 1664, a capo di 30.000 europei, aveva clamorosamente sconfitto un esercito musulmano tre volte superiore, arrestando la minacciosa avanzata ottomana verso Vienna.
Ebbene, pur potendo vantare un siffatto curriculum, Montecuccoli è oggi un personaggio pressoché sconosciuto, ignorato da molti manuali scolastici e universitari, trascurato persino nella "sua" Modena. La reale portata di questa ingratitudine storiografica è del resto facilmente verificabile. È sufficiente, infatti, consultare il catalogo on line del Servizio Bibliotecario Nazionale per constatare che i risultati della "Ricerca base" della voce "Raimondo Montecuccoli" ammontano a 117 titoli, 9 in meno di quelli ottenuti per la voce "Turenne" (il maresciallo francese avversario del condottiero modenese). Giusto per avere un più significativo termine di paragone, la distanza da Napoleone (6229 titoli) è quasi umiliante. E l'esito è solo in parte condizionato dal fatto di avere confrontato un nome singolo con uno composto: se si ripete l'esperimento utilizzando le voci "Montecuccoli" e "Napoleone Bonaparte", il generale corso resta saldamente in vantaggio 430 a 241.
Come spiegare, dunque, questo disinteresse per la figura di Montecuccoli?
La prima e più convincente motivazione è anche la più ovvia. A parere di Luraghi, a «denigrare la memoria» di Montecuccoli furono i Padri del Risorgimento, dai quali il generale del Frignano era «visto come un italiano che aveva posto il suo ingegno e la sua spada al servizio dello "straniero": e di quale straniero!».
Tuttavia è probabile che a «gettare nell'oblio» la figura di Montecuccoli abbiano contribuito anche altri fattori, riconducibili, più che a collaudati calcoli politici, ad alcune naturali disposizioni dell'animo umano. È per esempio un dato di fatto che lo studio del passato abbia quasi sempre privilegiato gli sconfitti,  soprattutto se coinvolti in episodi tragici. Al riguardo, merita di essere citata un'acuta riflessione dello storico Basil Liddell Hart: «Il balenare di una meteora colpisce l'immaginazione umana con forza ben maggiore di quella prodotta dal remoto splendore di una stella, luce fissa e immutabile nell'alto dei cieli. [...] Allo stesso modo, nella storia, i più grandiosi fallimenti, purché posseggano una nota drammatica nella parabola finale riescono a eclissare il fascino dei successi ininterrotti».
A pensarci bene, d'altra parte, le biografie storiche (e non si dimentichi che è principalmente attraverso di esse che lo studio del passato riesce a trasformarsi in divulgazione) risultano più affascinanti se raccontano le vicende di un Annibale, di un Napoleone, di un Lee – tutti egualmente sconfitti –, piuttosto che quelle di uno Scipione Africano (il generale romano che nel 202 a. C. sconfisse i cartaginesi a Zama), di un Wellington (il vincitore di Waterloo) o di un Grant (comandante degli eserciti dell'Unione durante la guerra civile americana). Lo stesso Lincoln, probabilmente, non avrebbe avuto uguale fama se non fosse stato assassinato. E che dire, passando allo sport, del rapporto tra Dorando Pietri e Johnny Hayes, il primo – sconfitto – divenuto leggenda e il secondo – primo classificato di quella storica maratona ai giochi olimpici di Londra nel 1908 – pressoché dimenticato?
Certo, sarebbe un errore generalizzare. Però innegabilmente le parole di Liddell Hart non sono campate in aria. Come sosteneva Reinhart Koselleck, «essere sconfitti sembra essere una fonte inesauribile di progresso intellettuale». E chissà quindi cosa si scriverebbe oggi di Montecuccoli se la palla di cannone che nel 1675 uccise il Turenne nei pressi di Sassbach avesse invece colpito il generale frignanese!
Potrebbe dunque sembrare assurdo, ma probabilmente la brillante carriera militare di Montecuccoli, mai battuto come comandante dell'esercito imperiale, ha contribuito a renderne meno affascinante l'epopea. E, a proposito di fascino, è bene ricordare che il trionfatore di Mogersdorf, combattendo al servizio degli Asburgo, non sguainò mai la spada per diffondere (o difendere) quegli ideali rivoluzionari che, al contrario, avrebbero favorito – a mo' di «formidabile propellente», come scrisse Luraghi – l'ascesa di un Robespierre o di un Napoleone.
Un ultimo ragionamento sulle disavventure storiografiche del Montecuccoli può comunque estendersi a due ulteriori considerazioni. In primis, occorre sottolineare che nelle celebrazioni storiche i modenesi privilegiano i miti collettivi (come il Risorgimento, la Repubblica e, soprattutto, la Resistenza) rispetto a quelli individuali. L'odonomastica cittadina, per esempio, trascura completamente tutti i duchi estensi. A nessuno di essi è intitolata una via – nemmeno una secondaria –, mentre spicca, proprio di fronte al Palazzo ducale, il monumento a Ciro Menotti, archetipo del patriota che ha avuto l'ardire di sfidare il potere assolutistico. Ma anche in questo caso fu probabilmente la forca di Francesco IV a consacrare nel mito l'immagine di Menotti, la quale, di fatto, rispecchia valori che – pur con evidenti forzature – si prestano facilmente ad essere posti in antitesi rispetto a quelli per i quali combatté Montecuccoli.
La precoce fortuna del socialismo nel Modenese ebbe un ruolo determinante nella diffusione dei miti collettivi a scapito di quelli individuali. Un partito, come il PSI, che annoverava tra le proprie parole d'ordine lo slogan turatiano «Guerra al regno della guerra» difficilmente avrebbe potuto celebrare un militare. A ciò si aggiunga la proverbiale natura diffidente dei modenesi, che Adamo Pedrazzi, archivista del Comune autore di una Cronaca dell'occupazione nazi-fascista di Modena, oltre sessant'anni fa descrisse con poche ma significative parole: «I modenesi sono per loro natura apatici, un pochino diffidenti, poco credono a chi parla troppo per farsi udire, salvo in cuor loro maturare, a lungo andare, un giudizio che è sempre frutto di ponderazione, e, se volete, diciamolo pure, di calcolo. Hanno l'anima sorniona, diranno i più, dalla quale ben difficilmente si cava qualcosa a tutta prima». Un giudizio, questo, che – se preso per buono – aiuterebbe a spiegare come mai a Modena nemmeno il fascismo sia riuscito ad esprimere leader indiscussi,  contrariamente a quanto si verificò con i ras bolognesi Grandi e Arpinati o con il ferrarese Balbo.
Concludendo, rimane spazio per un'ultima riflessione. Montecuccoli visse in un'epoca che la storiografia tradizionale ha a lungo considerato di crisi. Tra le disastrose epidemie di peste e le devastazioni della guerra dei Trent'anni, il Seicento ha infatti subito più o meno la stessa sorte dell'età medievale, vittima di un pregiudizio che ha inteso farne un secolo di transizione tra il Cinquecento della Riforma, di Carlo V e dei nuovi orizzonti geografici e il Settecento dei Lumi e delle grandi rivoluzioni americana e francese. Pertanto, se il Montecuccoli fosse vissuto cent'anni prima o cent'anni dopo, forse le sue imprese avrebbero ricevuto maggiore considerazione sui libri di scuola. Ovviamente si tratta solo di una congettura (e non mancano certo – si pensi al Re Sole – significative "eccezioni"), ma sarebbe un errore ignorare l'eredità storica di quello che Umberto Eco ha definito «un secolo di disordine e di instabilità, di guerre e di rivoluzioni, di assolutismo e di eversione».
Bistrattato dai Padri del Risorgimento, "noiosamente" sempre vincitore, incarnazione di un mito poco "modenese" e per di più vissuto in un'epoca colpita da pregiudizi storiografici, Raimondo Montecuccoli merita oggi un convinto sforzo divulgativo. Almeno due recenti studi (il primo di Berardo Rossi – Raimondo Montecuccoli. Un cittadino dell'Europa del Seicento, Edizioni Digi Graf 2002 – il secondo di Carlo Previdi – Raimondo Montecuccoli. Un eroe di montagna, Edizioni TeI 2013) rispondono all'esigenza di colmare una così poco comprensibile lacuna: agli autori, costretti a districarsi tra l'indifferenza generale per tutto ciò che è passato e la sconcertante iniquità di certi giudizi storici consolidati, è doveroso indirizzare un sincero plauso.


Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

«Viaggio sentimentale nella Bassa»: la pianura emiliana tra storia, arte e tradizioni

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 giugno 2013)
 
«Le Alpi, si sa, sono un muro di sasso, una diga confusa, fanno tabula rasa di noi che qui sotto, lontano, più in basso, abbiamo la casa; la casa ed i piedi in questa spianata di sole che strozza la gola alle rane, di nebbia compatta, scabrosa, stirata che sembra di pane. Ed una strada antica come l'uomo, marcata ai bordi dalle fantasie di un duomo; e fiumi, falsi avventurieri che trasformano i padani in marinai non veri».
Quando Francesco Guccini, in una celebre canzone (Emilia) dell'ormai lontano 1990, rendeva omaggio con queste parole alle vaste distese della pianura padana, compiva, in sostanza, un viaggio sentimentale nella Bassa che oggi, ad un anno dal disastroso terremoto del 20-29 maggio 2012, non può non risultare commovente per chi ha familiarità con quelle terre. Un viaggio sentimentale che gli effetti catastrofici del sisma (che ha ridotto in macerie edifici  secolari) rendono ora più che mai necessario, se non si vuole correre il rischio di smarrire, oltre alla parte del patrimonio storico-artistico che non potrà essere recuperata, anche l'identità, frutto del legame col passato, di intere comunità.
In sintonia con i versi di Guccini pare porsi, a oltre vent'anni di distanza, il libro che Mario Lùgari ha da poco dato alle stampe (Viaggio sentimentale nella Bassa. Itinerari nella Pianura Emiliana tra Enza e Reno, Il Fiorino, 2013), uno «scrigno della memoria» che intende condurre il lettore attraverso suggestivi itinerari nel cuore della Bassa emiliana. Una terra che, a parere dell'autore, «non è soltanto un luogo geografico, dove la nebbia, da ottobre a marzo, e l'afa, da luglio a settembre, la fanno da padroni», bensì «un mito, [...] un posto dove non si vorrebbe stare per via del clima uggioso e delle zanzare, e dove, tuttavia, gli abitanti [...] hanno imparato a vivere senza tristezza».
Il volume di Lùgari può considerarsi diviso in due parti. La prima costituisce un vivace affresco del paesaggio della Bassa, arricchito da note storiche e di folklore; la seconda intende invece condurre il lettore lungo cinque differenti itinerari, e rappresenta un'ideale passeggiata mano nella mano con lo scrittore alla scoperta dei paesi e dei luoghi della pianura emiliana. Il percorso prende avvio dalla riva sinistra del Panaro (itinerario 1), per poi addentrarsi «nelle terre della Partecipanza Agraria» (itinerario 2), esplorare la sponda destra del Po (itinerario 3), soffermarsi brevemente sulla città di Modena – e da lì proseguire lungo un tracciato che si sviluppa sulla strada "Romana" e sulla Via del "Canaletto" (itinerario 4) – e infine andare alla scoperta della Bassa reggiana (itinerario 5). Il tutto corredato da un ricco e suggestivo apparato fotografico.
Paese dopo paese, da Navicello nel Modenese fino alla "guareschiana" Brescello nel Reggiano, Lùgari descrive pazientemente palazzi e monumenti, ricostruendo per sommi capi la storia delle località e facendo menzione di numerose interessanti curiosità (quanti sanno, per esempio, che secondo la leggenda nel 1084 Matilde di Canossa sconfisse a Sorbara i soldati del rivale Enrico IV «dopo averli sorpresi all'alba ancora in preda ai fumi del Lambrusco»?). Più che sui singoli Comuni, tuttavia – dal momento che in questa sede sarebbe impossibile ricordarli tutti –, vale la pena soffermarsi sulla Bassa nel suo complesso, sul suo passato e sulle sue tradizioni.
La vasta pianura emiliana, si diceva poc'anzi, è dunque un mito, una terra che, dalla politica alla letteratura, ha spesso acquisito precise connotazioni simboliche. Innanzi tutto, la Bassa – scrive Lùgari – «è un mito anche per ciò che rappresenta nella storia della sinistra». Dall'esperienza di Camillo Prampolini a quella di Gregorio Agnini, in Emilia il socialismo ottenne sul finire dell'Ottocento significativi successi, dando impulso a quella attività cooperativistica e sindacale che avrebbe conosciuto durante il secolo successivo un consistente quanto rapido sviluppo. Il che si spiega soprattutto col fatto che nell'area gravitante intorno a Modena e Reggio «il socialismo – stando a quanto ha affermato lo storico Maurizio Degl'Innocenti – nasceva e prorompeva, spesso impetuosamente, dalla campagna, comunque dalla Bassa, intorno al rapporto uomo-terra».
Le lotte contadine ispirarono nel corso del Novecento artisti e scrittori di grande notorietà. Basti pensare al famoso dipinto in cui Pellizza da Volpedo ritrae un Quarto Stato in marcia verso le conquiste sociali; ma anche alla celeberrima saga di don Camillo e Peppone, nella quale i protagonisti del suddetto quadro sembrano prendere vita, animati dalla sferzante ironia di Guareschi. E tanto il pittore quanto il romanziere ambientano la propria opera nella pianura padana, in quella Bassa dove il caldo – come potrebbe testimoniare l'indimenticabile Fernandel – «è una roba che si vede e si tocca», quasi «un gran velo ondeggiante di vetro bollente».
A rileggere nelle parole di Guareschi lo sfogo di un don Camillo stremato dalla calura estiva, la mente riproduce, quasi in automatico, l'immagine del parroco di Brescello che cede alla tentazione di spogliarsi dell'abito talare per trovare refrigerio nelle placide acque del Po. Nell'architettura narrativa dei racconti guareschiani, il fiume costituisce un elemento tutt'altro che secondario, un autentico protagonista capace di dettare i ritmi di vita delle comunità della Bassa emiliana. E di questo è ovviamente consapevole anche Lùgari, che infatti precisa che «non si contano le esondazioni che il grande fiume e i suoi affluenti hanno provocato nel corso dei secoli». Conseguenza dello stretto rapporto che necessariamente si è creato tra uomo e fiume sono stati pertanto i continui lavori per controllare il flusso delle acque, dalle centuriazioni romane fino ai più recenti consorzi di bonifica, passando attraverso le opere di regimazione idraulica realizzate «nel XVI e XVII secolo dai Bentivoglio e dai Gonzaga».
Se le condizioni naturali del territorio hanno stimolato negli anni la proverbiale laboriosità degli abitanti della Bassa, questo però non significa che la pianura sulla riva destra del Po non offra altro che terra fertile da coltivare. Guccini canta di un'Emilia «sognante fra l'oggi e il domani, di cibo, motori, di lusso e balere»; e di nuovo Lùgari gli fa eco ricordando i «primi piatti eccellenti a base di tortellini, cappelletti, lasagne, tortelli di ricotta e di zucca», la mitica "salama da sugo", il "bensone", spesso accompagnati, «in ogni sagra paesana che si rispetti», dal tradizionale "ballo liscio", diffusissimo «intrattenimento ludico-musicale di forte valenza aggregativa» che, a torto, è spesso considerato di provenienza romagnola pur essendo nato in Emilia. Il tutto senza dimenticare l'apprezzatissimo Lambrusco, «il cui profumo di viola [...] conquistò financo un intenditore sopraffino come il Carducci», il quale, «se non fosse stato per la sua cattedra di letteratura all'Università di Bologna, ben volentieri si sarebbe trasferito» in quel di Sorbara.
Pure «sotto l'aspetto architettonico e paesaggistico» la Bassa è in grado di dire la sua. Le "modenesi" Carpi, Mirandola e Finale Emilia sono solo alcune delle numerose città d'arte di questa porzione di territorio padano, la cui «caratteristica unificante», per quanto concerne i centri storici, sono i portici, «vere e proprie strade pedonali coperte». Non mancano poi pregevoli esempi di edifici storici, ville, chiese e palazzi, che fanno della pianura emiliana un'area di indubbio interesse culturale, benché non sempre adeguatamente valorizzata. E dice bene Lùgari quando scrive che «nella sua apparente uniformità, il paesaggio della Bassa è vario e imprevedibile», al punto che, attraversandolo, «si ha l'impressione, talora, di viaggiare per una landa», fino a che non «si profila, all'improvviso, un alto filare di pioppi cipressini, oppure un folto giardino, una villa del Sei-Sette-Ottocento o una svettante torre medioevale che fa da guardia a un'antica corte rurale». Una di esse, la cosiddetta "Torre dei Modenesi", eretta nel 1213 a Finale Emilia per il controllo della terra di confine fra il Modenese e il Ferrarese, è stata spazzata via dal terremoto dello scorso anno. Ma siccome «i simboli, diversamente dai sogni, non muoiono all'alba», chiunque intendesse compiere in futuro un viaggio sentimentale nella Bassa ne ritroverà una traccia indelebile nella memoria collettiva.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia