lunedì 17 giugno 2013

Il generale Enrico Cialdini: una figura controversa del Risorgimento

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 giugno 2013)
 
Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Se per studiare il fenomeno del cosiddetto brigantaggio meridionale si facesse esclusivo affidamento sui manuali universitari, del generale Enrico Cialdini – uno dei principali artefici della dura repressione dei moti antisabaudi nel Mezzogiorno – si conoscerebbe, forse, a malapena il nome. Una semplice verifica, del resto, è sufficiente per constatare questa discutibile omissione. Chi scrive, infatti, ha provato a consultare l'indice dei nomi di tre testi piuttosto diffusi tra gli studenti (Storia contemporanea di T. Detti e G. Gozzini, Storia contemporanea di G. Sabbatucci e V. Vidotto e L'età contemporanea di A. M. Banti); e il risultato è stato pressoché il medesimo: Cialdini non è mai citato nei primi due volumi, mentre nel terzo è menzionato una sola volta in riferimento alla guerra d'indipendenza del 1866. In sostanza, solo ai lettori di Banti è dato sapere quantomeno dell'esistenza di Cialdini, mentre alla campagna contro il brigantaggio il suo nome non è mai accostato.
Eppure il generale originario di Castelvetro non fu certo uomo di poco conto, considerato che, all'indomani dell'Unità d'Italia, ricevette pieni poteri civili e militari in qualità di luogotenente dell'ex Regno delle Due Sicilie. Suo compito era quello di soffocare le rivolte dei ribelli e dei legittimisti che "infestavano" il Meridione e mettevano a repentaglio la sicurezza interna del nuovo e ingrandito Stato sabaudo. Compito che egli assolse col massimo zelo, senza preoccuparsi dei costi umani di quella che alcuni recenti studi definiscono la prima guerra civile italiana. Cialdini stesso, del resto, dopo aver duramente represso i "briganti" insorti nel Napoletano, non solo non nascose il prezzo di sangue pagato dalle popolazioni locali, ma anzi, nel comunicare a Torino i risultati conseguiti, lasciò trasparire dalla meticolosa precisione dei suoi dati un evidente compiacimento: «8968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7112 prigionieri; 918 case e 6 paesi interamente bruciati; 2905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13.629 deportati; 1428 comuni messi in stato d'assedio» (citato in G. B. Guerri, Il sangue del Sud).
Che giudizio merita, quindi, il generale Cialdini? Può essere assolto per i suoi crimini di guerra adducendo come attenuante la "giusta" causa nazionale per la quale ha combattuto, nella convinzione di compiere il suo dovere di soldato? Oppure, come ha sostenuto nel 2011 il sindaco di Pontelandolfo (paese del Beneventano che il 14 agosto 1861 fu vittima di un feroce eccidio), «tutte le onorificenze e le medaglie generosamente conferitegli [dovrebbero essere] rimosse»?

 

L'accusa di Elena Bianchini Braglia

 

A Castelvetro di Modena l’8 agosto 1811 nasce Enrico Cialdini, passato alla storia come grande generale e padre della patria. Con l’assedio di Gaeta che chiude la storia del Regno delle Due Sicilie, diventa famoso e ottiene il titolo di duca. Ma in realtà a Gaeta, come anche poi nella repressione del brigantaggio, più che un prode ufficiale sembra un criminale di guerra. Ordina senza remore di bombardare abitazioni e ospedali, uccide civili e ammalati. Un testimone, Teodoro Salzillo, narra di «settantasei giorni di fuoco sì ostinato e micidiale che anche nei propri letti venivano uccisi i malati e i feriti». Poi aggiunge che per «questo fatto orribile (accaduto nel secolo che s’è detto del progresso)» Cialdini viene richiamato dal governatore. Per giustificarsi non trova di meglio da dire che «le palle dei miei cannoni non hanno occhi». E il Salzillo ritiene che questa «tremenda risposta!» porterà «eterna vergogna a chi osò pronunciarla!».
Quando gli assediati decidono di arrendersi, il 13 febbraio 1861, Cialdini continua a bombardare. A trattative avviate il fuoco è anzi più intenso, perché, spiega a Cavour, «sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi». Addirittura a capitolazione firmata ordina di colpire la polveriera del Transilvania, dove muore il sedicenne Carlo Giordano.
Il risentimento del popolo del Sud non muore certo sugli spalti di Gaeta: nei mesi successivi trova espressione nel fenomeno della resistenza per bande. E anche qui Cialdini mostra una brutale ferocia. Ordina persecuzioni, arresti in massa, esecuzioni sommarie. Distrugge casolari, masserie e centri abitati. Non uccide solo i briganti, ma anche tutti quelli che crede possano averli in qualche modo aiutati. E la categoria dei sospettati s’allarga all’inverosimile. Il 3 gennaio 1862 a Castellamare del Golfo, 7 persone vengono fucilate: tra queste ci sono tre donne, un sacerdote, un anziano. E c'è anche la più giovane martire della "libertà che nega se stessa": una bambina di nove anni, Angela Romano.
Infine, i tristemente noti eccidi di Casalduni e Pontelandolfo. Dopo che una colonna di piemontesi viene attaccata e 40 carabinieri vengono trucidati da una folla esasperata, Cialdini ordina di distruggere tutto, di non lasciare che resti «pietra su pietra». Ricorda il bersagliere Carlo Margolfo: «Entrammo nel paese. Subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, e infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4500 abitanti. Quale desolazione! Non si poteva stare dintorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti!».
Migliaia di persone arrostite, un paese di 4500 abitanti sacrificato per quaranta carabinieri uccisi… Ecco l’eredità di Cialdini: con le sue rappresaglie ha anticipato le più feroci dittature, ha fatto da maestro ai nazisti. E l’allievo, si noti, non ha in questo caso superato il maestro: Enrico Cialdini, nella sua crudele grandezza, è rimasto solo, e di rappresaglie uno a cento, fortunatamente, la storia non ne ha più dovute vedere.

 

La difesa di Paolo Rodolfo Carraro

 

Impresa sempre ardua è giudicare i personaggi storici, in specie quando è trascorso molto tempo dalla loro opera. Cialdini era un soldato che si impegnò quasi sempre in prima linea nelle battaglie che combatté, con valore e senza timore della morte. Ebbe pure un carattere decisionista che lo portava a voler risolvere celermente le campagne e gli assedi che si trovò a dirigere.
Per le contestazioni mosse a lui relative alla campagna contro il Regno delle Due Sicilie dobbiamo considerare che il preliminare di quel conflitto, cioè una dichiarazione dello stato di guerra da Torino a Napoli, non ci fu, e si trovò a condurre operazioni che secondo le leggi e le consuetudini internazionali non erano legittime. Ne deriverebbe quindi una censura, ma ai vertici dello Stato, non ai militari.
Da qui le prime critiche: l'assedio ad Ancona contro le truppe pontificie e quello di Gaeta, contro i Borbonici. Dai documenti degli archivi risulta che il governo Cavour lo tempestava di dispacci intimanti la conclusione veloce degli assedi (a loro volta ispirati da Napoleone III che sapeva quanto quelle operazioni potessero influire sull'opinione pubblica internazionale). Oggettivamente ogni altro comandante non si sarebbe potuto comportare diversamente. La questione della repressione del brigantaggio è comunque la pietra che più pesa sul giudizio che si dà al Cialdini.
Chi ha potuto esaminare i documenti dell'archivio storico militare ha affermato che in quella vicenda, come del resto in tutte le guerre civili – perché di guerra civile si trattò – nessuna delle parti in lotta lesinò ogni genere di nefandezza. In questo tipo di guerra, dove i soldati vengono attaccati a tradimento, trucidati e mutilati, è normale che la reazione sia la rappresaglia. Fu sempre così in ogni epoca e in ogni luogo. Per evitare ciò non andrebbe fatta la guerra. Punto! Ma, come abbiamo scritto, il conflitto era iniziato in modo irregolare, e il governo doveva risolverlo in fretta per questioni di relazioni internazionali: la pietra che rotolava aveva creato la frana. Non dimentichiamo pure che quei fatti che durarono un decennio non videro contrapposti i Settentrionali ai Meridionali, ma gli unitari (che comprendevano i proprietari terrieri del Sud e le bande armate da loro finanziate) agli indipendentisti (che annoveravano tra le loro file pure i briganti veri e propri), per cui parecchie azioni di repressione furono effettuate dalla classe dominante al potere nel Sud con l'appoggio dell'esercito del Nord.
Era una società dove chi prendeva le decisioni era un 2-3% della popolazione, così come in tutta Europa. La repressione venne criticata sia nel Parlamento italiano che in Europa, ma la stragrande maggioranza di chi deteneva potere e possibilità di influire sulla pubblica opinione non protestò perché la repressione armata delle rivolte faceva comodo a tutti. Non possiamo quindi, a nostro parere, caricare la figura del Cialdini di responsabilità che erano al di sopra di lui, mero esecutore degli ordini del suo governo.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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