lunedì 10 giugno 2013

Bombacci, un «Kaiser» a Modena tra Lenin e Mussolini: il rivoluzionario romagnolo che si illuse di socializzare il fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 febbraio 2013)
 
Dal giorno in cui fu giustiziato per ordine del CLNAI quale «supertraditore», di Nicola Bombacci si è scritto poco. Personaggio scomodo tanto per i fascisti quanto per il PCI, fu pressoché ignorato dalla storiografia del dopoguerra, di certo ben poco incline a perdonargli l'adesione alla Repubblica Sociale dopo anni di militanza socialista e comunista. Ancora oggi, a quasi 70 anni dalla morte, della sua vicenda umana i libri di storia, nel loro complesso, si occupano con una certa reticenza. Pochi infine ricordano che proprio a Modena Bombacci ottenne i primi significativi successi della sua lunga carriera politica. Chi era quindi Nicola Bombacci? E quali ideali aveva «supertradito»?
Nicola Bombacci nacque a Civitella di Romagna il 24 ottobre 1879. Nel 1904, un anno dopo essersi iscritto al PSI, conseguì il diploma magistrale e ottenne immediatamente alcuni incarichi. Lavorò come maestro fino al 1909, quando decise di accettare la proposta del  partito di dirigere la Camera del lavoro di Piacenza.
Fu quello l'inizio di una carriera politica che in breve lo portò a Modena, dove fu chiamato nel 1911 alla guida della CdL. Nel capoluogo emiliano Bombacci si segnalò subito per determinazione. I contatti con Mussolini e lo shock della guerra di Libia avevano del resto fatto sorgere in lui la convinzione che i compromessi riformisti con la borghesia avrebbero a lungo andare paralizzato il partito. Fedele alla linea rivoluzionaria, Bombacci ottenne a Modena alcuni importanti successi. Ricostituì, assumendone la carica di segretario, la Federazione provinciale socialista (che mancava, in pratica, dalla crisi di fine secolo); riuscì a fondere le CdL di Modena e Carpi, ricevendo la nomina di direttore della CdL Unitaria di Modena e Provincia; assunse infine la direzione de «Il Domani» – il periodico socialista della sezione modenese –, che rese molto più aggressivo e intransigente. La propaganda rivoluzionaria del suo giornale, non di rado violenta e duramente anticlericale, unita ai numerosi comizi che era solito tenere in ogni angolo della provincia, gli valse l'appellativo, coniato da Mussolini, di «Kaiser di Modena».
Una svolta decisiva per la carriera di Bombacci fu la Prima guerra mondiale. Convinto neutralista, presto si persuase che il conflitto potesse costituire un'occasione da sfruttare per estendere la lotta di classe secondo una prospettiva europea. In breve tempo subì pure il fascino di Lenin, di cui del resto condivideva in pieno la linea intransigente. E quest'ultimo, ricevuta notizia del consenso popolare di cui godeva l'azione politica dell'agitatore romagnolo (che nel Modenese andava organizzando manifestazioni antimilitariste dalla vasta eco), volle fare di Bombacci il referente principale del PSI a Mosca.
Bombacci era infatti divenuto, nel frattempo, uno dei personaggi più in vista del partito. Aveva abbandonato Modena nel luglio del 1917 dopo essere stato nominato membro permanente della direzione del PSI, iniziando una rapida scalata che l'avrebbe portato al seggio da deputato e, nel 1919, alla segreteria.
La sua sintonia con il leader bolscevico portò però di lì a poco il PSI alla rottura. Le 21 condizioni di adesione al Comintern prevedevano infatti di espellere i riformisti e mutare il nome del partito in Partito comunista. Bombacci, insieme con Bordiga e Gramsci, si assunse così la responsabilità della scissione, da cui nacque nel '21 il Partito comunista d'Italia.
Il Bombacci in versione comunista avvertiva tuttavia di essere l'uomo di Mosca molto più di quanto si sentisse leader del PCd'I. Di fronte alla minaccia fascista, la linea settaria imposta dai «dottor sottile» del partito equivaleva infatti, a suo giudizio, a un suicidio politico. Delle sue perplessità mise al corrente persino Zinov'ev (presidente del Comintern), cui inviò una lettera che, in Italia, decretò di fatto il suo distacco dal PCd'I.
In realtà il sogno che Bombacci intendeva realizzare era avvicinare le due rivoluzioni – bolscevica e fascista –, e almeno fino al delitto Matteotti la sua proposta fu presa in considerazione tanto da Mussolini quanto dai russi. In ballo c'era un accordo commerciale tra Italia e URSS, nonché la volontà del governo fascista di offrire alla Repubblica dei soviet il riconoscimento de iure. Ebbene il prescelto dai russi per condurre le trattative con Roma fu proprio Bombacci, il quale portò a termine il compito affidatogli e in un appassionato discorso alla Camera propose, scandalizzando i compagni, «una definitiva alleanza fra i due paesi».
Riguardo agli anni compresi tra 1924 e 1930 di Bombacci si conosce poco. Progressivamente emarginato dal partito fino alla definitiva espulsione nel 1927, l'ex Kaiser di Modena continuò a godere ancora per qualche anno dell'appoggio sovietico, svolgendo in particolare opera di mediazione per favorire gli scambi commerciali italo-russi. A differenza di molti suoi compagni «sovversivi», il suo rapporto col duce gli risparmiò inoltre la repressione fascista. Fu la crisi di potere in Russia a turbare gli equilibri: morto Lenin nel 1924, Stalin riuscì a imporsi nel partito spazzando via l'opposizione. Di questa facevano parte anche Zinov'ev e Kamenev (che era stato ambasciatore russo a Roma), i due più influenti sostenitori di Bombacci, che furono eliminati con le purghe degli anni '30. A Bombacci non rimaneva ormai che Mussolini.
Il suo avvicinamento al fascismo fu graduale. L'amicizia col duce ebbe il suo peso, ma non fu certo l'unica ragione della «conversione» di Bombacci. Fu casomai la politica corporativa, unita alle importanti realizzazioni sociali del regime, a convincere il tribuno romagnolo che l'unione delle due rivoluzioni fosse possibile.
Mussolini non consentì a Bombacci di iscriversi al Partito fascista, ma gli permise comunque di pubblicare una rivista dal titolo eloquente: «La Verità». Inutile dire che i fascisti più intransigenti non approvarono. Starace, il segretario del partito, andò su tutte le furie, ma dovette rassegnarsi.
La guerra convertì Bombacci a una sorta di socialismo patriottico, fortemente avverso al bolscevismo sovietico in versione stalinista. A questa linea rimase fedele anche durante l'esperienza della Repubblica Sociale, cui aderì senza indugio.
Il vecchio Kaiser di Modena volle seguire il duce anche nella sua ultima avventura. Il Mussolini di Salò, del resto, viveva oramai immerso nei ricordi e con Bombacci, dopo il tradimento della borghesia, vaneggiava nell'illusione di un improbabile ritorno alle origini, progettando di socializzare il fascismo, o ciò che di esso era rimasto.
Tali propositi si concretizzarono in due importanti iniziative, per le quali il duce si avvalse della collaborazione di Bombacci: il manifesto programmatico di Verona e la promulgazione, nel febbraio del 1944, della legge sulla socializzazione.  Il senso della riforma era espresso da una «Relazione» che accompagnava il decreto legislativo, illustrandone «tre fondamentali direttive»: «la possibilità di sostituire la proprietà pubblica alla proprietà privata del capitale in tutte quelle imprese che trascendono l'ambito privatistico; l'immissione del lavoro nella gestione delle imprese […]; la limitazione degli utili del capitale e la partecipazione dei lavoratori agli utili stessi».
Nell'attuazione di questo progetto rivoluzionario Bombacci agì da eminenza grigia del governo repubblicano. Egli era ormai il consigliere di Mussolini, e di Mussolini condivideva le illusioni. Ma a causa delle difficoltà contingenti della guerra, oltre che per il successo della propaganda comunista volta al boicottaggio delle elezioni dei rappresentanti operai nelle imprese, la socializzazione era destinata a fallire. Essa rimase però, come rilevato da Giorgio Bocca, «pura volontà testamentaria», un ultimo disperato atto compiuto per lasciare traccia di una innovativa stagione politica.
Bombacci difese il suo progetto sino all'ultimo, programmando di concerto con Mussolini persino una operazione «ponte», ovvero la consegna al PSI, a guerra conclusa, di un’Italia socializzata. Sul finire del '44 ottenne dal duce il permesso di tenere comizi nelle principali città del nord Italia. L'ultimo, che ebbe grande successo, fu a Genova il 15 marzo 1945. Davanti a una folla enorme, il tribuno romagnolo elogiò l'operato del governo di Salò e concluse affermando che la RSI fosse «l'unico Stato autenticamente socialista con la sola possibile eccezione della Russia sovietica».
Poco più di un mese dopo, mentre tentava la fuga al seguito dei gerarchi, fu catturato dai partigiani presso Dongo e fucilato. Con l'amico Mussolini aveva condiviso anni di travagliate passioni politiche. Condivise pure la macabra esperienza di Piazzale Loreto, con l'oltraggio al cadavere e un'accusa, quella di «supertraditore» della causa socialista, che non avrebbe mai pensato di meritare.

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