lunedì 10 giugno 2013

Cesare d'Este, il duca che perse Ferrara e si accontentò di Modena come nuova capitale

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 febbraio 2013)
 
«Se fosse vero ciò che della forza delle stelle hanno scritto in altri tempi gli strologi, bisognerebbe certo dire che questo principe fosse nato sotto una ben infausta costellazione: tante furono le traversie che ne' primi anni del suo governo si affollarono contro di lui».
Per molti dei suoi lettori, queste considerazioni di Ludovico Antonio Muratori hanno a lungo sottinteso una convinzione ben radicata: Cesare d'Este, il duca che dovette cedere Ferrara a Clemente VIII nel 1598, fu un sovrano arrendevole, un Don Abbondio ante litteram costretto, lui «vaso di coccio», a viaggiare tra due grossi «vasi di ferro», il papa e l'imperatore del Sacro Romano Impero. In realtà, a dispetto della fama di inetto che ha a lungo accompagnato la memoria del primo duca di Modena capitale, il Muratori intendeva forse concedere qualche attenuante a Cesare, offrendo il destro a quanti oggi ne rivalutano l'operato.
Le «traversie» cui alludeva il Muratori erano legate alla nascita del futuro duca. Cesare infatti apparteneva a una linea di discendenza «infetta», essendo figlio di Alfonso di Montecchio, a sua volta nato di contrabbando da una relazione tra il duca Alfonso I e Laura Dianti. In altre parole, Cesare non possedeva perfetti requisiti per ascendere al potere: se la scelta cadde infine sul suo nome fu perché il duca Alfonso II – figlio di Ercole II, successore di Alfonso I – nel 1597 morì senza eredi legittimi.
Pur essendo stato designato erede dallo stesso Alfonso II, Cesare entrò subito in contrasto col pontefice, che rifiutava di riconoscere la successione. Il ducato che egli rivendicava era infatti il risultato di una composita concessione feudale: Modena, Reggio e Carpi erano assegnate dall'imperatore; Ferrara dal papa. Ma se Rodolfo II non si oppose alla nomina di Cesare quale duca di casa d'Este, Clemente VIII intimò a quest'ultimo di abbandonare Ferrara – città di cui gli Estensi detenevano l'investitura papale sin dal 1332 – e, di fronte alla resistenza di Cesare, radunò 20.000 fanti presso Faenza. A tale perentorio monito seguì, il 23 dicembre 1597, la scomunica del duca d'Este, segno inequivocabile che il papa non intendeva rinunciare ai suoi diritti (una bolla emanata nel 1567 da Pio V stabiliva in effetti che i figli illegittimi non potessero vantare diritti di successione nei feudi ecclesiastici).
Immediatamente a Cesare venne meno il sostegno delle potenze europee, mentre il popolo, immiserito dalla politica vessatoria a base di tasse del defunto Alfonso II, pareva sul punto di voltargli le spalle. Messo alle strette, Cesare giocò allora la carta della diplomazia, anche perché la sua profonda religiosità gli impediva di affrontare il papa alla stregua di un nemico. Inviò pertanto Lucrezia d'Este, sorella di Alfonso II, a trattare col cardinal Aldobrandini, che si trovava a Faenza a capo delle truppe pontificie. La scelta della cugina per tentare una conciliazione col papa fu, secondo alcuni, del tutto controproducente, dal momento che tra Lucrezia e il duca non correva buon sangue. Ma al di là di ogni possibile congettura, resta il fatto che i margini di trattativa erano ridotti. Lucrezia dovette perciò prendere atto della volontà di Clemente VIII di avocare Ferrara alla Santa Sede e il 12 gennaio 1598 concluse un accordo – noto come Convenzione faentina – che sacrificava sì la capitale, ma quantomeno garantiva la sopravvivenza dello Stato estense.
Il 30 gennaio il duca – cui nel frattempo era stata revocata la scomunica e confermata l'investitura imperiale – faceva il suo ingresso a Modena, accolto dal popolo in festa. La scelta della nuova capitale non era stata casuale: Modena aveva beneficiato sotto Ercole II di un allargamento del perimetro della cinta muraria e, trovandosi a ridosso del confine con lo Stato pontificio, era poco distante da Ferrara, che gli Estensi non si rassegnarono mai a considerare definitivamente perduta.
Divenuta capitale, con conseguente incremento demografico, Modena subì diversi interventi urbanistici. Di questi, per volontà di Cesare, la maggior parte riguardò la costruzione di edifici religiosi, come la chiesa di S. Bartolomeo, il convento di S. Orsola e il tempio di S. Vincenzo. La fede del duca non era del resto un mistero per nessuno. Basti pensare che, all'indomani della Devoluzione di Ferrara, Cesare aveva deciso di recarsi a Rimini per rendere omaggio al pontefice, ricevendo in cambio, a suggello della ritrovata concordia, la porpora cardinalizia per il fratello Alessandro.
Più in generale, in politica estera Cesare si mosse con cautela, anche perché la perdita di Ferrara, cui era seguita nel 1601 quella dei possedimenti francesi di casa d'Este (rivendicati per sé con successo da Anna d'Este, figlia di Renata di Francia e del duca Ercole II), suggeriva una certa prudenza. Per recuperare credibilità internazionale e dare lustro alla sua casata, il duca riallacciò i contatti con la Spagna – all'epoca potenza egemone nella penisola italiana – e, secondo la logica delle alleanze matrimoniali, ottenne per il proprio figlio Alessandro la mano di Isabella di Savoia, figlia del duca Carlo Emanuele I.
In trent'anni di governo Cesare dovette impugnare le armi solo per sventare due tentativi dei Lucchesi di occupare la Garfagnana. Il primo, nel 1602, si risolse in un nulla di fatto; il secondo, nel 1613, richiese invece un maggiore dispiegamento di forze. All'origine dello scontro vi fu la guerra scoppiata tra i Savoia e i Gonzaga – appoggiati dalla Spagna – per la successione nel Monferrato. In quell'occasione Cesare negò alle truppe di Cosimo II de' Medici il permesso di attraversare la Garfagnana per accorrere in aiuto dei Mantovani, finché il governatore spagnolo di Milano non gli ordinò di desistere. Tuttavia, mentre i soldati di Cesare erano impegnati a controllare che gli uomini di Cosimo attraversassero senza incidenti il territorio estense, i Lucchesi ne approfittarono per invadere nuovamente la Garfagnana. Per tutta risposta Cesare inviò un forte esercito – guidato dai figli Alfonso e Luigi – ad assediare Castiglione, e avrebbe quasi certamente fiaccato la resistenza del nemico se non fosse intervenuto un rappresentante del governatore spagnolo giunto direttamente da Milano per porre fine alle ostilità. La pace che seguì impose a Lucca di ritirare le proprie truppe dal territorio estense, ma il mancato successo militare compromise ulteriormente la reputazione di Cesare, che da quel momento divenne bersaglio della pungente ironia di Alessandro Tassoni. Molti dei giudizi severi sull'operato del primo duca di Modena capitale sono la conseguenza del disprezzo che l'autore de La secchia rapita nutriva nei confronti del suo sovrano.
In realtà l'immagine di un Cesare costantemente titubante è discutibile, se non altro per il cinismo di cui diede prova nell'affrontare una spinosa questione di politica interna riguardante il signore di Sassuolo, Marco Pio. Questi, che pur essendo feudatario degli Estensi progettava di affrancarsi da Cesare, si fece riconoscere dall'imperatore il titolo di principe di Sassuolo, irritando il duca per quello che fu ritenuto un grave atto «di ribellione e di fellonia». L'affronto non rimase però impunito: la sera del 19 novembre 1599, uscito dal castello ducale dopo aver preso parte a un ricevimento, Marco Pio fu raggiunto da quattro colpi di archibugio e, 18 giorni dopo, spirò. I sospetti sul mandante caddero inevitabilmente sulla corte – anche perché il principe di Sassuolo non aveva eredi –, ma gli assassini non furono trovati. Con abile mossa politica Cesare offrì una ricompensa a chiunque avesse fatto luce sull'omicidio, avviando nel frattempo con Enea Pio, zio di Marco, le trattative per la successione. La questione si risolse solo dieci anni dopo grazie alla mediazione di Carlo Emanuele I di Savoia, che riconobbe le ragioni duca d'Este: Cesare incamerò così Sassuolo, pagando al Pio un indennizzo di 215.000 scudi.  
Nel complesso, l'esperienza di governo di Cesare ebbe il merito di garantire al ducato estense un lungo periodo di pace, che consentì di rendere più efficiente l'amministrazione. Il duca, che nei primi anni delegò in buona parte il governo dello Stato ai ministri e al fratello cardinale, col tempo profuse un impegno crescente nella gestione politica, specialmente quando nell'ultima fase della sua vita fu affiancato dal figlio Alfonso. A questi Cesare lasciò il ducato dopo la morte, avvenuta l'11 dicembre 1628. Dalla Devoluzione di Ferrara erano trascorsi trent'anni, durante i quali Modena si era elevata al rango di capitale di uno Stato che, sorto tra mille «traversie», sarebbe rimasto in vita per 261 anni. Questa sola considerazione consente oggi di rivalutare la figura di Cesare, il quale, se non fu quel guerriero invitto agognato dal Tassoni, merita quantomeno maggiore indulgenza storiografica.

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