lunedì 17 giugno 2013

«Il volto del nemico»: il dramma della guerra civile nel Modenese

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 giugno 2013)

Il volto del nemico, documentato e corposo volume che Giovanni Fantozzi ha da poco dato alle stampe, è un libro allo stesso tempo prezioso e coraggioso. Prezioso poiché, per quanto attiene al contesto modenese, mancava una ricostruzione così precisa e dettagliata dell'universo fascista repubblicano, uno studio scevro da pregiudizi incentrato sui protagonisti delle drammatiche vicende della guerra civile. Coraggioso per il semplice motivo che dare un volto a un nemico che certa storiografia filo-resistenziale ha da sempre inteso disumanizzare, raccontare quindi storie di uomini, senza pagare dazio alle strumentalizzazioni ideologiche, rappresenta ancora oggi, a 70 anni dalla fondazione della RSI, operazione molto rischiosa. Basti pensare, senza voler scomodare Giampaolo Pansa, alle recenti polemiche seguite alla pubblicazione di Partigia, il libro nel quale Sergio Luzzatto (docente universitario cui certamente non sono attribuibili sentimenti nostalgici) ripercorre le vicende della banda partigiana di Primo Levi, soffermandosi in particolare su una sentenza di morte da essa emanata contro due suoi membri che si erano resi, col loro comportamento, incompatibili con le leggi della guerriglia partigiana.
Fantozzi illustra con chiarezza le ragioni che stanno alla base del suo lavoro: «Non è [...] possibile ricomporre nella sua unità e completezza il periodo '43-'45 senza dare un volto né compiacente, né assolutorio, ma realistico e non caricaturale anche al "nemico" fascista, a quanti nel modenese seguirono volontariamente Mussolini nella sua ultima avventura, e ai tanti, non necessariamente fascisti, che per le più svariate circostanze e motivazioni si trovarono a svolgere un ruolo nelle istituzioni della Repubblica sociale italiana».
In concreto, dare un volto al nemico sconfitto significa studiare il fascismo di Salò senza pretendere di relegarlo entro i confini del mero collaborazionismo con i tedeschi. La RSI, infatti, pur tenendo conto delle ingerenze naziste, riuscì «a funzionare come stato nelle sue varie articolazioni centrali e periferiche», fornendo assistenza (tramite appositi enti comunali o di partito) a bisognosi, sinistrati e sfollati e garantendo, nei limiti del possibile, la sopravvivenza dei servizi di base. Coloro che per i più svariati motivi vi aderirono – spesso frettolosamente etichettati come oltranzisti – tentarono altresì «di darsi delle fondamenta politiche e programmatiche nuove e originali rispetto al ventennio», progettando di riportare alle origini sansepolcriste un fascismo che, essi credevano, durante il regime era stato irrimediabilmente corrotto dal capitalismo borghese. Non a caso, infatti, cardine della politica economica del PFR divenne il decreto sulla socializzazione del 12 febbraio 1944, che (almeno sulla carta, viste le difficoltà di attuazione dovute all'emergenza bellica) prevedeva «il diretto coinvolgimento delle maestranze nella gestione delle aziende, su un piano di sostanziale parità con i proprietari, e la partecipazione dei lavoratori agli utili». Ed è proprio per questa volontà di rompere con il passato che l'interpretazione – peraltro difficilmente contestabile sul piano militare – secondo la quale la Repubblica Sociale altro non fu che uno Stato satellite della Germania, se non integrata da un'attenta riflessione sulla politica della RSI, rischia di risultare parziale e, in definitiva, fuorviante.
A parere di Fantozzi lo stesso ragionamento è valido anche per il personale che ebbe incarichi nella Repubblica Sociale, che «non può essere ricompreso nella rappresentazione totalizzante del "collaborazionismo" e del "nazifascismo"», dal momento che «a sorprendere è anzi l'accentuata eterogeneità della geografia umana di Salò», la quale, di fatto, poté compattarsi solo nell'obbedienza a Mussolini. Ne consegue che «una biografia della RSI e delle sue varie anime è impossibile senza ricostruire per sommi capi i profili dei suoi personaggi», schematicamente riconducibili alle tre categorie dei "moderati" (ovvero coloro che, contrari all'armistizio "disonorevole", operarono nelle istituzioni al fine di garantire la continuità dello Stato e, possibilmente, risparmiare agli italiani la prevedibile vendetta dei tedeschi), degli "intransigenti" (determinati a portare a compimento un'integrale fascistizzazione dello Stato) e dei "fascisti rossi" (fautori della socializzazione, non pregiudizialmente ostili al dialogo con le forze antifasciste di sinistra).
Delineando dettagliati profili di reggenti del PFR, comandanti di formazioni militarizzate, capi Provincia, questori, giornalisti, podestà e commissari prefettizi, Fantozzi ricostruisce quindi le molteplici e contraddittorie anime del fascismo repubblicano, soffermandosi sia sui rapporti che intercorsero tra gli uomini di Salò e il CLN, sia sulle precarie condizioni degli amministratori locali, i quali, «tra il martello delle autorità fasciste e naziste e l'incudine delle forze partigiane che chiedono [...] di sabotare gli ordini ricevuti», spesso assolsero il loro compito spinti «da genuino spirito di servizio alla collettività in un momento drammatico».
La situazione era, in effetti, alquanto complicata. Per quanto Modena, nel suo complesso, potesse essere considerata una provincia apatica, incline ad adattarsi, dopo l'8 settembre, al nuovo ordine, la coscrizione obbligatoria voluta da Mussolini per lavare l'onta dell'armistizio di fatto costrinse migliaia di persone a maturare, contro voglia, «una scelta di campo». Le diserzioni – pur tenuto conto dei lusinghieri risultati della leva in conseguenza del bando Graziani, nonché del «rilevante e spontaneo afflusso di volontari nella miriade di corpi armati della RSI e nelle SS italiane» – specialmente in montagna coincisero con la formazione dei primi nuclei partigiani e l'inizio della lotta armata. In seno al CLN, rileva Fantozzi, «si evidenziano subito due strategie marcatamente diverse» circa gli obiettivi e le modalità di conduzione dello scontro con i nazifascisti. I cattolici, e più in generale i moderati, rifuggivano dalla logica secondo la quale la guerra di liberazione doveva necessariamente sfociare in una lotta fratricida: da parte loro era perciò «netto il rifiuto di fare ricorso ad attentati individuali ed eliminazioni sommarie», considerati inutili ed eticamente inconcepibili. Al contrario, i comunisti ritenevano di avere tutto da guadagnare dal radicalizzarsi della guerra civile, convinti che «il terribile corollario di ritorsioni e rappresaglie derivanti dall'esasperazione dello scontro» con i fascisti avrebbe «costretto il popolo italiano a schierarsi», creando i presupposti per futuri sbocchi rivoluzionari al termine del conflitto. Ispirati dal modello stalinista, i "banditi" del PCI furono responsabili anche di sanguinosi regolamenti di conti interni alla stessa Resistenza, motivati dalla volontà di esercitare un pieno controllo sul movimento partigiano (esemplare in tal senso fu l'uccisione, nel sonno, del comandante Giovanni Rossi, reo di non aver voluto cedere ai comunisti il controllo della sua formazione). 
Ma la guerriglia partigiana non fu guidata esclusivamente da motivazioni ideologiche. Soprattutto in montagna, un fenomeno che conobbe rapida e vasta diffusione fu infatti quello del ribellismo, in cui confluivano «vaghi ideali libertari e anarcoidi, spirito campanilistico e spiccata inclinazione al furto e alla rapina». Le autorità fasciste, ovviamente, sfruttarono a scopo propagandistico l'associazione partigiano-bandito, soprattutto là dove occorreva giustificare feroci rappresaglie. La strage nazista di Monchio, ad esempio, che il 18 marzo 1944 costò la vita a 131 civili, fu presentata dalla stampa di regime come «una riuscita operazione di rastrellamento» in cui erano caduti «300 ribelli».
Più in generale, la spirale d'odio e di violenza in cui cadde la provincia in concomitanza con il progressivo sfaldamento delle forze di Salò favorì la repentina trasformazione del Modenese da territorio fascistizzato «a punta di lancia del movimento partigiano». Dall'esperienza della Repubblica di Montefiorino – che segnò «la definitiva eclissi dei fascisti dalla montagna modenese» – fino al dilagare di attentati gappisti in una pianura rimasta inizialmente pressoché indenne, tutti gli indizi lasciavano chiaramente intendere quale sarebbe stato l'epilogo di uno scontro «fatto di torture, tradimenti, delazioni, prelevamenti notturni, soppressione di spie e rappresaglie». Un epilogo che, a Liberazione avvenuta, travolse anche molte persone innocenti (pretestuosamente eliminate a causa di presunte connivenze col regime, ma in realtà vittime dell'odio politico e di classe); e che, a dispetto dei tentativi di buona parte della storiografia di «"spiegare" questo stillicidio di morti come uno spontaneo moto di vendetta popolare», oggi è bene mettere in discussione, se non altro perché – rileva Fantozzi – occorre riflettere sul motivo per il quale «gli autori degli omicidi risultano esclusivamente, o quasi esclusivamente, comunisti».

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