martedì 30 aprile 2013

Modena e provincia nella Grande Guerra: i monumenti ai caduti

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 aprile 2013)
 
Dopo aver recensito, la settimana scorsa, il saggio di Fabio Montella (che prende in esame la realtà modenese durante gli anni del primo conflitto mondiale e costituisce la prima parte del libro «Modena e provincia nella Grande Guerra»), mi occuperò in queste righe dello studio di Mirco Carrattieri sui monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale in area modenese, seconda parte del suddetto libro.
Divenuto oggetto di studi specifici – per quanto concerne il contesto nazionale – a partire dagli anni Settanta, «il tema dei monumenti ai caduti – rileva Carrattieri – non [ha] ancora ottenuto una adeguata attenzione storiografica in area emiliana». La ragione di questo prolungato disinteresse va cercata, probabilmente, nella proliferazione di studi che, dopo il secondo conflitto mondiale, hanno riguardato la «monumentistica resistenziale»; studi che, tuttavia, avrebbero di certo beneficiato di una più approfondita analisi delle esperienze precedenti.
Una prima forma di elaborazione della memoria dei caduti risale agli anni di guerra. Attraverso necrologi, messe di suffragio, commemorazioni funebri, prima ancora della cessazione delle ostilità si diffuse in tutta Italia una «retorica del lutto» che, inevitabilmente, ebbe in breve tempo «una ricaduta sullo spazio pubblico». L’odonomastica, in particolare, divenne oggetto di attenta riflessione, su istanza di un’opinione pubblica coinvolta emotivamente dagli avvenimenti bellici e, per questo, particolarmente interessata a consacrare nel ricordo collettivo le imprese e il sacrificio dei combattenti. Il caso, su scala nazionale, più eclatante fu quello di Cesare Battisti; ma, per quanto concerne il Modenese, un notevole risalto ebbe anche la singolare vicenda del capitano vignolese Mario Pellegrini (assaltatore del porto di Pola catturato dagli austriaci), cui venne dedicata una via nel settembre del 1918, quando cioè era ancora vivente. In continuità con questi provvedimenti, subito dopo la fine della guerra (addirittura il 5 novembre 1918) il Consiglio comunale di Modena decise di istituire una via Trento Trieste e un viale delle Rimembranze.
Terminato vittoriosamente il conflitto, celebrazioni e monumenti divennero sempre più numerosi (del resto, già nel 1918 le giornate del 24 maggio e del 4 novembre furono caratterizzate da «un vero e proprio profluvio retorico»). Inizialmente, rileva Carrattieri, le commemorazioni furono sollecitate principalmente dalla società civile: «Famiglie, gruppi amicali e professionali, parrocchie, società sportive e comitati patriottici sono i primi committenti di targhe e lapidi che cominciano a comparire anche a Modena». Ma degne di nota furono anche le iniziative comunali e nazionali, le quali, per quanto riguarda lo Stato liberale, culminarono nel 1921 nella solenne cerimonia della tumulazione della salma del Milite Ignoto.
L’avvento del fascismo segnò un punto di svolta nell’ambito delle strategie comunicative legate alle commemorazioni. Queste divennero, infatti, lo strumento di cui il movimento mussoliniano si servì per accreditarsi quale unico legittimo custode del ricordo della guerra, nella convinzione che il monopolio della memoria avrebbe affermato in modo definitivo la vocazione nazionale del nuovo partito di governo. A questo scopo, pertanto, si moltiplicarono le iniziative, tra le quali particolarmente significativa fu quella promossa nel 1922 dal sottosegretario all’istruzione Dario Lupi, che prevedeva la «creazione, in tutte le città d’Italia, di Parchi della Rimembranza in cui piantare un albero per ogni caduto locale». Dopo un iniziale successo, l’avvento di ministri cattolici (preoccupati delle derive paganeggianti della proposta di Lupi) limitò lo sviluppo concreto dell’iniziativa, che comunque interessò pure Modena, dove il Parco venne inaugurato il 24 maggio 1923. «La sua istituzione – precisa Carrattieri – comporta […] un primo riassetto urbanistico, che implica anche l’intitolazione di una via a Vittorio Veneto e di una ai Caduti in Guerra».
Con l’instaurazione della dittatura, il regime tese a rendere sempre più esplicita l’associazione guerra-fascismo, spesso facendo sì che le commemorazioni dei martiri del conflitto coincidessero con cerimonie (soprattutto inaugurazioni) fasciste. Più in generale, la guerra fu assorbita dal più vasto culto del littorio: e se da un lato i morti della rivoluzione fascista furono annoverati fra i caduti in guerra (il che «finirà per condizionare anche la percezione postbellica della Grande Guerra»), dall’altro la memoria fu definitivamente ridotta a strumento politico finalizzato ad «imporre una visione rigidamente guerresca della patria».
Giunto a questo punto, Carrattieri decide di soffermarsi, per quanto riguarda Modena, sui «tre principali luoghi della memoria cittadina sulla guerra», che furono solennemente inaugurati il 3 novembre 1929 da re Vittorio Emanuele III.
1) Il Monumento ai Caduti. Una volta individuata l’area dove collocare il monumento (un referendum sulla «Gazzetta dell’Emilia» indicò il baluardo di San Pietro, presso viale delle Rimembranze), il 10 gennaio 1923 venne indetto un concorso nazionale per la scelta dell’esecutore. Vinse Ermenegildo Luppi, artista modenese di un certo rilievo. I lavori iniziarono nel 1924. Nel 1927 fu ultimata la statua della Vittoria, mentre l’anno successivo vennero aggiunte «le 4 fusioni bronzee laterali, dedicate all’Offerta (la madre che accarezza il figlio immolandolo alla patria), al Combattente (il fante di vedetta pronto al lancio della bomba a mano), al Sacrificio (il soldato ferito che si accascia sull’arma) e all’Addio (la madre e la sposa del caduto accomunate dal pianto)». Quattro iscrizioni patriottiche furono poste sui lati del basamento.
2) Il Sacrario dell’Accademia. «Una delle peculiarità di Modena – scrive Carrattieri – è rappresentata dal suo essere fin dall’Unità una delle principali sedi di formazione dei vertici militari del Paese». Anche per questo, l’Accademia dopo la guerra non poté mancare «di coltivare il ricordo di questo suo ruolo di rilievo». Negli anni Venti furono due le iniziative degne di nota: «la realizzazione del lapidario nell’atrio dell’Accademia e l’allestimento del cosiddetto Tempio della Gloria». Il primo ricorda gli ex allievi caduti dall’Unità alla Vittoria; il secondo «è invece un sacrario nel quale un grande braciere votivo arde davanti all’ara dedicata al milite ignoto».
3) Il Tempio Monumentale. L’iniziativa della costruzione di una chiesa dedicata ai caduti si dovette a don Luigi Boni, curato del sobborgo di Santa Caterina, il quale nel 1917 ottenne dal Comune la concessione del terreno per l’edificazione. La proposta fu accolta con convinzione anche dall’arcivescovo Natale Bruni, che suggerì «l’idea di un grande tempio votivo in ricordo e a suffragio di tutti i caduti modenesi». La posa della prima pietra avvenne l’8 dicembre 1923 alla presenza del re, il quale, sei anni dopo, inaugurò l’edificio. Tuttavia il Tempio poté considerarsi concluso solamente nel 1932, quando nella cripta venne traslata la salma di Bruni, morto nel 1926. Caratteristica principale della chiesa sono i nomi dei caduti modenesi «incisi in lettere dorate sulle pareti in marmo verde della cripta».
L’ultima parte dello studio di Carrattieri prende in esame, brevemente, gli sviluppi post-resistenziali della politica della memoria e i monumenti della provincia. Quanto ai primi, se gli anni Trenta avevano portato alla «definitiva appropriazione da parte dello stato fascista del corpo e del nome dei morti in guerra», dopo il secondo conflitto mondiale si assistette, oltre all’erezione di numerosi cippi partigiani, ad un frequente riadattamento dei vecchi monumenti, «eliminando i segni macroscopici del defunto regime ed aggiungendo una lapide con il nome dei caduti del conflitto più recente». È bene poi notare che alla celebrazione dei caduti in guerra si è recentemente aggiunta – per certi versi sostituita – quella delle vittime civili, mentre, «stilisticamente, la scultura figurativa ha ceduto il passo a modelli più astratti, a composizioni a base architettonica, a installazioni multimediali».
Per quanto concerne, invece, i monumenti della provincia, Carrattieri precisa che i 96 casi censiti occupano quasi sempre «posizioni di alto rilievo simbolico» e che «tra i temi figurativi, prevale nettamente il fante». Numerose sono, inoltre, le lapidi che riportano i nomi dei caduti del paese. In conclusione – dopo aver descritto alcuni casi esemplari ed introdotto rapidamente l’opera del principale scultore modenese dell’epoca, Giuseppe Graziosi – Carrattieri descrive alcune peculiarità dell’area geminiana, sottolineando «l’irriducibile pluralità dei soggetti produttori, con particolare riferimento a poteri come l’esercito e la chiesa, che rimangono autonomi, seppur fiancheggiatori, anche durante il fascismo».

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