martedì 9 aprile 2013

«Fugge la schiavitù da queste contrade»: Modena, Napoleone e la breve esperienza della Repubblica Cispadana

(articolo apparso su Prima Pagina del 31 marzo 2013)
 
Quando nel marzo del 1796 Napoleone diede inizio alla campagna d'Italia, in pochi potevano prevedere che il giovane generale corso avrebbe in breve tempo sbaragliato la resistenza austriaca, minacciando di occupare l'intera penisola. Di certo non lo aveva previsto il duca di Modena Ercole III, che anzi – evidentemente fiducioso di poter arginare il dilagare delle armate francesi – per scongiurare il pericolo di un contagio rivoluzionario si era prodigato con ogni mezzo a sua disposizione per dare appoggio materiale all'imperatore d'Austria, di cui peraltro era feudatario. Sgomento di fronte ai successi giacobini, egli aveva infatti inviato dodici cannoni, prestato 715.000 zecchini in aggiunta alla tassa di guerra (che tra Austria e Francia imperversava dal 1792), concesso che reclute dell'esercito ducale fossero arruolate nei reggimenti austriaci, consentito il passaggio attraverso il ducato di truppe ostili ai francesi e, infine, incarcerato i sospetti simpatizzanti della rivoluzione. In sostanza, non un gran biglietto da visita da esibire a Napoleone, il quale, dopo aver battuto gli austriaci a Lodi, il 15 maggio 1796 entrava trionfalmente a Milano.
A quella data, tuttavia, Ercole era già a Venezia. Giudicando oramai segnato il destino dello Stato estense, aveva infatti  precauzionalmente abbandonato Modena il 7 maggio, nominando in tutta fretta un Consiglio di Reggenza. Napoleone, del resto, non era persona incline a fare concessioni, ed anzi era solito gestire con sbrigativa autorità le trattative, specie quando la forza delle armi lo metteva nelle condizioni di imporre il proprio volere. Ed Ercole d'Este questo lo sapeva, o quantomeno lo intuì in anticipo.
All'indomani della sua partenza, il duca, d'accordo con il Consiglio di governo, inviò pertanto un plenipotenziario a Milano per concludere un armistizio, nella speranza che questo gesto di sottomissione potesse indurre il Bonaparte a trattare Modena con benevolenza. Ma si illudeva.
L'accordo che fu sottoscritto il 23 maggio prevedeva infatti durissime condizioni per il ducato estense, tra cui il pagamento, entro un mese, di 7,5 milioni di franchi. Difficile soddisfare una tale richiesta, «anche perché – ha scritto Luigi Amorth – il Duca, che si era portato con sé tre milioni di lire modenesi tolti dai dodici del pubblico erario, faceva orecchie da mercante ad ogni richiesta d'aiuto», preferendo decretare prestiti forzosi.
Una tale politica predatoria era però destinata al fallimento. Il 28 maggio il Consiglio Generale di Reggio approvò, dopo aver istituito una Guardia Civica, la stesura di un documento che costituisce, per certi versi, il primo atto del Risorgimento italiano: trattavasi infatti di un promemoria che affermava i diritti di libertà della città rispetto al potere estense. Di lì alla vera e propria rivoluzione il passo era breve. Il 25 agosto, nella Piazza Maggiore fu piantato un albero della libertà, simbolo – riferisce una cronaca dell'epoca – «d'un'aperta ribbellione al Duca», nonché dell'assunzione dei poteri da parte del Senato di Reggio. All'albero furono poi «infisse due Bandiere di tricolore Francese e Beretta rossa e intorno il seguente motto: "Tremate, o Perfidi, tremate Tiranni alla vista della Sacra Immagine della Libertà"». Era l'atto di nascita della Repubblica Reggiana.
Anche a Modena, nel frattempo, questi fatti accesero la miccia rivoluzionaria. Il 29 agosto duecento soldati ducali dovettero usare la forza per rimuovere un albero della libertà eretto nell'attuale Piazza Grande. Per impedire che la situazione degenerasse, fu concessa tuttavia un'amnistia e pubblicato un editto nel quale il duca rassicurava che avrebbe saldato il debito con i francesi. Ma – spiega Amorth – «erano solo promesse: ché l'esule sovrano, sordo da quel tale orecchio, protestava che i Francesi avevano violato l'armistizio coll'assecondare la ribellione di Reggio».
Di tutt'altro avviso era ovviamente Napoleone, che non a sé, ma ad Ercole III imputava il mancato rispetto del trattato, dal momento che i tempi concessi per il pagamento del tributo non erano da quest'ultimo stati rispettati. Il 4 ottobre, pertanto, il Bonaparte denunciò l'armistizio, prendendo «sotto la protezione dell'Armata Francese li Popoli di Modena, e di Reggio» e dichiarando «nemico della Francia qualsivoglia attentasse alla proprietà, ed ai diritti di questi Popoli». Entrate rapidamente nella capitale estense, il 7 ottobre le truppe francesi innalzarono l'albero della libertà (un pioppo ornato di tricolori francesi e berretto frigio) di fronte alla Ghirlandina, ingiungendo inoltre «a tutti indistintamente» di indossare «la Coccarda tricolorata, [...] distintivo di quella Protezione che dall'Armata Francese è generosamente accordata a questi Popoli». Il giorno seguente fu soppressa la Reggenza estense, in sostituzione della quale si procedette alla nomina di un Comitato di Governo di sette cittadini, all'elezione di nuovi membri della Municipalità e all'istituzione di una Guardia Civica.
Ma per Napoleone Modena era al centro di progetti che andavano ben oltre la cacciata di Ercole III, assumendo importanza tale da giustificare la presenza diretta del generale corso nell'ex capitale estense. Giunto alle porte della città il 15 ottobre, Napoleone vi sarebbe infatti rimasto per ben quattro giorni, accolto da numerosi patrioti entusiasti. Il suo piano prevedeva che  venisse convocato un congresso con un centinaio di deputati di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio al fine di costituire una confederazione per la difesa comune. Il che puntualmente avvenne proprio a Modena dal 16 al 18 ottobre con la fondazione della Confederazione Cispadana, la formazione di una Giunta di Difesa Generale e la diffusione di un duplice proclama «ai popoli della Romagna» e «all'Italia».
Il congresso si pronunciò inoltre sulla formazione di una Legione Italiana, composta da cinque coorti (una per ogni città della Confederazione, più una di patrioti italiani di varia provenienza), ognuna delle quali – fu stabilito – «avrà la sua Bandiera a tre colori Nazionali Italiani, distinte per numero, e adorne degli emblemi della Libertà». Benché si trattasse ancora di vessilli militari, l'adozione della futura bandiera nazionale aveva il pregio di racchiudere in un simbolo la comune militanza democratica, sulla base di un legame Tricolore-repubblica-rivoluzione che veniva mutuato dal modello francese.
Secondo quanto stabilito a Modena, un secondo Congresso Cispadano si aprì a Reggio il 27 dicembre. In un clima di grande fervore rivoluzionario – di cui, in ottobre, erano stati espressione i decreti di abolizione della feudalità e della nobiltà –,  venne proclamata la Repubblica Cispadana, prima forma di Stato unitario italiano dopo secoli di dominazione straniera. Il testo definitivo approvato il 30 dicembre esprimeva infatti la volontà «di formare delle quattro popolazioni una Repubblica una ed indivisibile per tutti i rapporti», e si concludeva con queste entusiastiche parole: «Fugge la schiavitù da queste contrade; fremono, e impallidiscono i tiranni, che prima vi deridevano. Il mondo intero tien l'occhio fiso sopra di voi, ed ansiosa l'Italia attende che voi le ridoniate quell'antico splendore, che la rese grande, e onorata presso tutte le nazioni».
Come emblema della Repubblica, su indicazione di Napoleone, fu scelto «un turcasso con entro quattro frecce, attorniato dalla corona civica». Il 7 gennaio 1797 all'assemblea fu presentata una mozione per rendere «universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso». Era l'atto di nascita del Tricolore, ufficializzato in occasione del terzo Congresso Cispadano, che si tenne a Modena a partire dal 21 gennaio. Al centro della banda orizzontale bianca (rosso in alto, verde in basso) stava il simbolo della Repubblica, così descritto da Ugo Bellocchi, studioso delle origini della bandiera nazionale: «L'arma della Repubblica Cispadana è racchiusa in un ovale che contiene, a sua volta, la corona civica rappresentata dalle tradizionali fronde di alloro. Più al centro, un turcasso, a forma di cono capovolto, con il vertice affondato in un trofeo composto di lance, di un fascio littorio, di due bandiere e di un cannone, ospita quattro frecce. Alla base del turcasso, un tamburo militare; ai lati le lettere R C».
Culmine del processo rivoluzionario fu la redazione della Costituzione Cispadana, ultimata il 28 febbraio con la supervisione di Napoleone. Il 19 marzo il testo fu sottoposto al voto dei cittadini e approvato con netta maggioranza. Esso non divenne mai operante – a causa della volontà del Bonaparte di dar vita alla Repubblica Cisalpina –, ma costituisce comunque un fondamentale documento in cui, come nel Tricolore, si radicavano aspettative e progetti del futuro Risorgimento nazionale.

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