venerdì 26 aprile 2013

Modena e provincia nella Grande Guerra: la città e i suoi abitanti durante gli anni del conflitto

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 aprile 2013)

Nel 2008, in occasione del novantesimo anniversario della fine del primo conflitto mondiale, il Gruppo Studi Bassa Modenese ha pubblicato un interessante studio dal titolo «Modena e provincia nella Grande Guerra», scritto a quattro mani da Fabio Montella e Mirco Carrattieri. Il testo è diviso in due parti: nella prima (che in queste righe prenderò in esame) Montella descrive, anno per anno, le vicende che coinvolsero il Modenese, dallo scoppio della guerra europea alla vittoria delle armi italiane; nella seconda (di cui mi occuperò in un secondo articolo), Carrattieri focalizza la sua attenzione sui monumenti ai caduti in area modenese. Il tutto è corredato da numerose fotografie (che occupano ben 82 pagine, per la precisione).
La notizia dell'attentato all'erede al trono d'Austria Francesco Ferdinando (28 giugno 1914) ebbe una vasta eco sulla stampa modenese, destando diverse reazioni che, a seconda degli schieramenti politici e con varie sfumature, variavano dalle posizioni attendiste dei cattolici a quelle decisamente neutraliste dei socialisti. Scarse furono, almeno inizialmente, le manifestazioni apertamente interventiste.
Il generale pacifismo dell'opinione pubblica fu però presto scosso dal dilagante sentimento nazionalista di chi, come il giornale «Vigilia d'arme», faceva notare che l'Italia, pur non essendo in guerra, subiva «danni gravissimi sia nel commercio che nell'industria», a causa soprattutto – nel caso del Modenese – delle difficoltà di esportazione dei prodotti agroalimentari. Il tutto senza contare che il conflitto, precisa Montella, «riduce bruscamente la percentuale delle partenze verso i paesi europei [...] e contemporaneamente accentua i rimpatri, creando una duplice nuova fonte di pressione sulle risorse» di un territorio che già era «angustiato dalla disoccupazione». Queste considerazioni, unite ad alcuni segnali eloquenti (come la creazione di comitati «incaricati di preparare la popolazione civile alle esigenze della guerra») e ad una stampa conservatrice sempre più orientata in favore della guerra, ottennero l'effetto di indurre molti modenesi a giudicare inevitabile l'intervento italiano.
In un clima di crescente tensione – che ebbe il suo acme nel giugno del 1914 con la violenta aggressione alla Camera del Lavoro da parte di alcuni esponenti nazionalisti – la notizia dell'ingresso dell'Italia nel conflitto giunse a Modena dopo settimane di gravi scontri e arresti, tra cui quello del segretario della CdL Nicola Bombacci. In particolare, la guerra portava, secondo la «Gazzetta dell'Emilia», «preoccupazioni d'indole privata poiché non v'è, si può dire, famiglia che non abbia un proprio membro sotto le armi». Il che, oltre alla normale apprensione, creava enormi disagi, dal momento che i richiamati finivano col sottrarre indispensabile forza lavoro, specie nei campi.
Il conflitto presto stravolse le abitudini dei modenesi. Oltre ai provvedimenti straordinari di guerra (norme contro l'alcolismo, limitazioni della circolazione delle auto, sospensione temporanea dell'erogazione di gas e corrente elettrica), si assistette alla conversione alla produzione bellica di numerose fabbriche, alla requisizione di scuole da parte dell'autorità militare e, più in generale, alla diffusione di timori collettivi che inducevano a percepire un po' ovunque la presenza del nemico. Nel campo della beneficenza, dell'assistenza e della produzione divenne essenziale l'apporto delle donne, chiamate, con vecchi e bambini, a sostituire nel lavoro agricolo e industriale i mariti e i figli che si trovavano al fronte. In tutta la provincia, dichiarata nell'agosto del 1915 «zona contumaciale», sorsero inoltre comitati assistenziali, organismi – scrive Montella – che garantivano «il funzionamento delle cucine popolari, degli asili per i figli dei richiamati, delle case per i profughi e dei luoghi di ristoro e di cura alle stazioni».
Di fronte alle difficoltà e alle atrocità della guerra (alla fine del 1915 la provincia contava già più di mille caduti), crebbe il numero dei modenesi bisognosi di assistenza, mentre per combattere la piaga della disoccupazione si procedette alla realizzazione di opere pubbliche (sollecitate in particolare dai socialisti). Per i feriti, all'Ospedale civile furono affiancati, nel solo capoluogo e senza contare le altre strutture della provincia, l'Ospedale contumaciale (presso il Foro Boario), quello della Croce Rossa (in piazzale San Francesco) e l'Ospedale militare di riserva San Paolo («nell'antica sede della Scuola "Regina Elena"»).
A livello psicologico, gli eventi bellici condizionarono fortemente l'opinione pubblica modenese. Dopo le paure legate agli sbandamenti dell'esercito italiano a causa della Strafexpedition, la presa di Gorizia (9 agosto 1916) ebbe l'effetto di portare grande entusiasmo patriottico nelle piazze, attenuando la tensione provocata dalla continua mobilitazione e dalla minaccia di attacchi aerei. Le notizie dai campi di battaglia non potevano però alleviare lo stato di profonda sofferenza della popolazione, spesso incapace, nonostante diverse azioni di calmieramento, di far fronte al caro viveri, alle speculazioni e alla pressione demografica esercitata dai profughi in continuo aumento. Il che, unito ai sentimenti antimilitaristi, divenne motivo di scioperi e proteste che in più occasioni resero necessario l'intervento della forza pubblica, come accadde per esempio a Modena nel maggio del 1917, quando i lavoratori delle industrie militari diedero vita «allo sciopero più importante dell'epoca, per ampiezza e violenza, in Italia».
Nonostante l'intensificazione della propaganda patriottica, il disagio crescente rendeva lo stato di guerra sempre meno accettabile per una popolazione vessata da continue limitazioni. La disfatta di Caporetto dell'ottobre 1917 ebbe pertanto in questo clima di sfiducia e rassegnazione profonde ripercussioni. Per quanto concerneva le operazioni belliche, Modena fu dichiarata ufficialmente «in stato di guerra» e sottoposta, al pari di tutta l'Italia settentrionale, a una sorta di dittatura militare che dava diritto alle autorità di impedire ogni attività politico-sindacale. Più in generale, soldati e profughi invasero in massa l'Emilia, anche perché il Modenese, data «la sua posizione strategica di collegamento tra Bologna, Milano e Verona [...], si conferma come un centro attivo e popoloso per la cura dei feriti, per l'accoglimento dei profughi e per l'acquartieramento e riaddestramento delle truppe». Per far fronte all'emergenza fu persino necessario ricorrere alla requisizione forzata degli alloggi disponibili. Quanto al loro impiego, molti profughi trovarono lavoro «nelle fabbriche e nelle attività legate all'economia di guerra».
L'invasione austriaca del territorio nazionale indusse le autorità a prendere precauzioni contro eventuali incursioni aeree e a promuovere un'opera di estensione delle conoscenze militari tra la popolazione. La propaganda divenne martellante, coinvolgendo tutte le classi sociali e persino i bambini, ai quali, nelle scuole, erano rivolti appelli affinché le famiglie sottoscrivessero i prestiti nazionali. Per quanto riguardava, infine, la riorganizzazione dell'esercito in rotta, furono creati «un campo per la Fanteria a Castelfranco Emilia [...], uno per l'Artiglieria a Mirandola e uno per il Genio a Guastalla. La Scuola e il Deposito Bombardieri [...] si stabiliscono a Sassuolo, Scandiano e Pavullo, il Carreggio e le Salmerie a Copparo e le brigate di marcia a Crevalcore».
La convivenza tra i civili e i militari in attesa di essere rinviati al fronte creò diversi problemi di ordine pubblico (furti, violenze, danni a beni materiali), che si aggiungevano ai drammatici fenomeni della diserzione (e del suo favoreggiamento) e dell'intolleranza nei confronti dei profughi. Più in generale, le fasi conclusive del conflitto furono caratterizzate da un clima di forte tensione, come si evince, del resto, dalle parole infuocate di Mussolini, in visita a Modena il 20 maggio 1918: «I traditori della Patria – disse il futuro duce durante un discorso al Teatro Storchi – [...] debbono essere non condannati a 20 anni di reclusione; ma fucilati 20 volte!».
A rendere più tollerabili i disagi della guerra (tra i quali va annoverata l'epidemia di influenza spagnola, che uccise ben 378 persone nel solo capoluogo) giunsero finalmente, nella seconda metà del 1918, confortanti notizie dal fronte, preludio alla definitiva vittoria delle armi italiane del 4 novembre. La cessazione delle ostilità fu salutata con grande entusiasmo dalla popolazione in festa, in un tripudio di bandiere e illuminazioni che adornavano pressoché tutti gli edifici della città. La guerra era vinta, ma le sue conseguenze più tragiche – disoccupazione, crisi economica, tensioni sociali – avrebbero creato i presupposti per un radicale stravolgimento della vita politica italiana. 

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

Nessun commento:

Posta un commento