lunedì 25 agosto 2014

Il rebus Togliatti, ovvero: come può uno stretto collaboratore di Stalin costituire un modello di azione politica?

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 agosto 2014)

Di recente sulle pagine di questo giornale è apparsa una polemica tra la parlamentare del PD Giuditta Pini e il vicesegretario regionale del Partito Repubblicano Paolo Ballestrazzi. Oggetto della contesa, un giudizio su Palmiro Togliatti, storico segretario del PCI. Per farla breve, alla Pini che ha affermato che «Paragonarmi al segretario Pci Togliatti che evitò la guerra civile mi onora», Ballestrazzi ha replicato tacciando la deputata democratica di «superficialità» e delineando un breve profilo poco lusinghiero della figura del «Migliore».
Per dovere di correttezza nei confronti del lettore, è bene fare chiarezza su un aspetto: l’autore delle righe che state scorrendo concorda pienamente con le perplessità espresse dall’esponente repubblicano in merito all’opportunità di richiamarsi all’esperienza storica di un uomo che nasconde diversi grossi scheletri nell’armadio. In sostanza, volendo anticipare la tesi finale di questo articolo, chi scrive ritiene che Togliatti non sia certo una figura di cui la sinistra italiana possa andare fiera. E siccome Ballestrazzi si è soffermato, nel suo pezzo, essenzialmente sul periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, compito di questa pagina sarà argomentare l’opinione poc’anzi espressa compilando un breve excursus delle malefatte del Migliore per quanto attiene agli anni precedenti la Liberazione.
Tralasciando – per questioni di spazio – le prime esperienze giovanili, possiamo cominciare dal 25 luglio 1935. Quel giorno, in occasione dell’apertura a Mosca del VII congresso dell’Internazionale Comunista, Togliatti tenne un discorso di omaggio a Stalin, lodando il dittatore sovietico per aver «mantenuto la purezza della dottrina marxista-leninista». Erano parole di circostanza – di certo consigliabili (per usare un eufemismo…) nella Russia di quegli anni –, ma rivelatrici, involontariamente, di una caratteristica fondamentale del cosiddetto «compagno Ercoli»: l’innata capacità – ha scritto Massimo Salvadori – di riconoscere «nel conformismo il presupposto vitale del comunismo internazionale». Nell’Unione Sovietica degli anni Trenta (quelli delle purghe, per intendersi) la fedeltà a Stalin era infatti un essenziale requisito di sopravvivenza, e in questa particolare gara dell’ossequio – formale e sostanziale – Togliatti non era secondo a nessuno.
Al riguardo, ha scritto Philippe Baillet: «In Togliatti, l’approvazione delle purghe staliniste fu spinta alle estreme conseguenze. Essa rispondeva a una logica rigorosa, a una sorta di ingranaggio che, una volta avviato, diveniva fatale. A partire dal momento in cui accede ad altissime funzioni all’interno del Comintern, Togliatti dà talvolta l’impressione – a prescindere dal fanatismo e dalla convinzione – di agire sotto la sua influenza, di essere “tenuto in pugno”».
Di certo il Migliore era talmente scrupoloso quando si trattava di seguire le direttive di Stalin che non guardava in faccia a nessuno. Nemmeno alle decine di italiani (108, secondo alcune recenti stime) che tra il 1935 e il 1938 furono tratti in arresto con le accuse più assurde e pretestuose (è noto che Stalin era ossessionato dall’incubo del sabotaggio), per poi essere torturati (era questo il metodo utilizzato per estorcere le confessioni) e infine giustiziati. In base a quanto emerso dalle ricerche di Elena Dundovich – che ha ricostruito i processi delle vittime –, Togliatti diede il proprio assenso all’eliminazione di molti di questi presunti oppositori. In un recente volume, Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi hanno riassunto un caso specifico che vale la pena citare a titolo esemplificativo: «In un documento datato 25 dicembre 1936, catalogato come “segretissimo”, al terzo paragrafo c’è una lista di tredici comunisti italiani, fra cui Vincenzo Baccalà, bollati come “elementi negativi”. Accanto ai nomi di Rossetti (Baccalà) e di Modugno, c’è una nota: “trotzkista, deportare” […]. E in fondo al testo, la scritta: “Soglasen” (“Sono d’accordo”), firmato “Ercoli”».
L’intransigenza di Togliatti non fu ad ogni modo riservata ai soli connazionali. Nel 1938, infatti, il Migliore appose la propria firma in calce al documento di scioglimento del Partito comunista polacco, i cui dirigenti, che erano stati etichettati come trotzkisti e buchariniani, furono immediatamente liquidati. Sul ruolo e sul comportamento del leader comunista italiano, scrive Francesco Bigazzi: «Palmiro Togliatti rientrò improvvisamente a Mosca dalla Spagna, dove rappresentava la Terza Internazionale durante le guerra civile, per ratificare la scomparsa nel nulla di un intero partito, come se non fosse mai esistito. Solo in questo modo si spiega come mai il compagno Ercoli, che era il “numero due” del Comintern, abbia firmato per ultimo».
Di lì a pochi anni furono poi nuovamente gli italiani a dover sperimentare gli effetti del cinismo togliattiano. Inverno 1942-43: decine di migliaia di soldati dell’ARMIR cadono prigionieri nelle mani dei russi e sono trasferiti nelle retrovie in condizioni al limite della sopravvivenza. Nei campi di detenzione, tuttavia, il loro tasso di mortalità è così elevato da suscitare le perplessità di Vincenzo Bianco, stretto collaboratore di Togliatti. Questi, scrivendo al compagno Ercoli, chiede che si intervenga affinché i prigionieri «non muoiano in massa», ma la risposta che ottiene è in linea con il fanatismo che Stalin pretende da parte di tutti i suoi sottoposti: «La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l’Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da ridire. […] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli antidoti». In totale, secondo quanto calcolato da Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, furono circa 85.000 i prigionieri italiani in URSS: nel 1946, quando l’ambasciata sovietica informò Roma di avere terminato le procedure di rimpatrio, fecero ritorno in Italia 21.193 persone, delle quali 11.000 erano in realtà ex prigionieri dei tedeschi catturati dopo l’8 settembre e passati in seguito sotto il controllo dell’Armata Rossa.
Da questa vicenda emerge dunque un ritratto di Togliatti in versione Ponzio Pilato: in sostanza, quando si trattava di prendere posizione per tentare di salvare delle vite – specie se quelle di connazionali –, il Migliore spesso preferì fare un passo indietro, onde evitare di esporsi in prima persona. Così fece anche per quanto concerne i massacri anti-italiani perpetrati da Tito (le foibe, ma anche più “tradizionali” deportazioni), che – secondo i calcoli di Gianni Oliva – costarono la vita a 10.137 persone. In quell’occasione, infatti, non solo Togliatti non mosse un dito per protestare contro la pulizia etnica di matrice slava, ma si preoccupò di scrivere sull’«Unità» del 1° maggio 1945 che i triestini avrebbero dovuto accogliere i soldati di Tito «come truppe liberatrici» e collaborare strettamente con essi «per schiacciare la resistenza tedesca e fascista».
Un’ultima annotazione riguarda infine il ruolo svolto dal PCI durante il periodo della Resistenza. In poche parole, se la lotta partigiana non fu solo guerra di liberazione, ma anche – e per certi versi soprattutto – guerra civile, la responsabilità fu anche dei comunisti, determinati a sfruttare lo sfacelo politico post-8 settembre per impadronirsi del potere. Ad accreditare questa tesi fu, tra i primi, Renzo De Felice: «Da parte comunista [...] non fu mai accettata l’idea che la lotta partigiana dovesse portare a un ritorno della democrazia “parlamentare borghese” e che la “svolta di Salerno”, realizzata appena rientrato Togliatti in Italia, potesse non essere un espediente tattico. Per Secchia, per Longo, per la gran maggioranza dei dirigenti del nord [...] l’obiettivo finale del Pci era e rimase sino alla fine [...] la realizzazione di una democrazia “popolare” [...] concepita come momento tattico e di transizione – come giustamente ha scritto il Bertelli – verso il “raggiungimento dell’irrinunciabile mito della dittatura del proletariato”».
Aggiunge poi lo stesso De Felice in un altro passo significativo: «La disponibilità degli archivi russi non lascia ormai più dubbi sul fatto che la politica del Pci [...] fu concepita e diretta da Mosca in funzione della realizzazione dei propri obiettivi di espansione diretta e indiretta e che i dirigenti comunisti italiani aderirono totalmente ad essa. In particolare, contrariamente a quanto Togliatti subito si preoccupò di accreditare e la vulgata, politica e storiografica, comunista si è adoperata a rendere una sorta di dogma [...], la documentazione oggi disponibile rivela che alla “svolta di Salerno” non può essere attribuito alcun carattere di autonomia politica rispetto all’Urss».
È proprio questo, del resto, il punto della questione. Può uno stretto collaboratore di Stalin – cioè, per essere chiari, un uomo che ha lavorato fianco a fianco con uno dei più grandi criminali che la storia ricordi – costituire un modello di azione politica nel 2014? L’impressione è che se l’Italia fosse un paese democraticamente più maturo questo semplice accostamento sarebbe sufficiente a delegittimare definitivamente una figura così ingombrante come Togliatti. Forse sarebbe ora che alcune frange della sinistra la facessero finita una volta per tutte con certe imbarazzanti nostalgie.

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sabato 23 agosto 2014

I totalitarismi del XX secolo: origini, caratteri e peculiarità

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 agosto 2014)

Il termine 'totalitarismo' fu introdotto intorno agli anni Venti negli ambienti antifascisti per definire polemicamente il regime instaurato da Mussolini. A dispetto però della sua iniziale accezione denigratoria, esso non fu respinto dal duce, che anzi lo utilizzò, insieme con Giovanni Gentile, nella stesura della voce Fascismo dell'Enciclopedia italiana. Ciò che Mussolini intendeva comunicare era l'idea della totale identificazione tra Stato e società: il fascismo non era cioè da intendersi come una tradizionale forza politica, bensì come una religione laica – fattasi Stato – che doveva permeare ogni singolo aspetto dell'esistenza (civile, sociale e morale) dell'individuo, definendone di fatto il significato ed il fine ultimo.
Successivamente, il concetto di totalitarismo venne impiegato in riferimento a tutti i regimi a partito unico, senza distinzioni ideologiche. Fu tuttavia il celebre libro di Hannah Arendt – Le origini del totalitarismo (1951) – a fare ulteriore e definitiva chiarezza sull'utilizzo del termine: dall'uscita di quel lavoro, ancora oggi siamo soliti definire totalitario un regime mirante alla “costruzione” dell'uomo nuovo in cui convivano indottrinamento ideologico e terrore repressivo. Sbaglia pertanto chi non scorge la differenza che sussiste tra i due aggettivi 'autoritario' e 'totalitario', essendo il primo di uso comune in riferimento a governi preoccupati del solo annientamento del dissenso e il secondo attribuibile a quelle forze politiche che non possono fare a meno della ricerca del consenso delle masse. Ciò che pertanto accomuna fascismo, nazismo e comunismo (ovvero le tre forme principali di totalitarismo) è la volontà di mobilitare l'intera società (di nazionalizzare le masse, per dirla con George L. Mosse). Volontà che consente di valutare il percorso storico di questi tre movimenti politici privilegiando le analogie rispetto alle differenze, pur senza pretendere di considerarli come un tutt'uno (come ignorare, per esempio, che il fascismo fu un totalitarismo imperfetto per via di due forti contrappesi – monarchia e Chiesa – che ne limitavano l'azione, o che il nazismo si basava su una premessa razzista assente in Italia e in URSS?).
Analizziamo dunque, in estrema sintesi, alcuni tratti comuni ai tre grandi totalitarismi del Novecento.
L’ideologia – Si tratta dell’elemento fondamentale, che si caratterizza come concezione antropologica in base alla quale al regime uscito vittorioso dalla rivoluzione spetta il compito di forgiare un uomo nuovo (o “purificato”, nel caso del nazismo, dalla contaminazione ebraica). In questa prospettiva – come ha rilevato Tzvetan Todorov – il totalitarismo scaturisce da «una promessa di pienezza, di vita armoniosa e di felicità», strutturandosi, di fatto, come una sorta di «millenarismo ateo» che si propone di garantire il raggiungimento dell’obiettivo della felicità in terra. Perché ciò avvenga è però necessario che si instauri un rapporto fideistico tra il capo e l’immensa massa liturgica della nazione, partendo dal presupposto che ogni forma di dissenso non è altro che un ostacolo – da rimuovere con ogni mezzo – che si frappone tra il popolo e il suo immancabile destino di grandezza.
Le ideologie sono di varia natura, ma hanno tutte un sostrato mitologico che attinge spunti dalla storia in modo strumentale (si pensi al paganesimo germanico, alla Roma imperiale e alla canonizzazione di Lenin quale apostolo della rivoluzione marxista). Altro elemento decisivo, infine, è l'odio, sfruttato quale potente fattore di aggregazione (si pensi agli ebrei per Hitler o ai sabotatori per Stalin; Mussolini in questo fu più vario, ma ebbe sempre un nemico pronto per la propaganda, come la classe dirigente liberale, la borghesia, le «democrazie plutocratiche», e via dicendo). Al riguardo, lo scrittore statunitense Eric Hoffer ha notato che «l'odio è il più accessibile e completo di tutti gli agenti unificanti: discosta e svelle l'individuo dal proprio Io, lo distrae dal suo benessere e dal suo futuro, lo libera da gelosie ed egoismi, ed egli diventa un corpuscolo anonimo che freme per fondersi e mescolarsi ai suoi simili in una massa incandescente. [...] I movimenti di massa possono sorgere e propagarsi anche senza un Dio in cui credere, ma mai senza un diavolo, e alla vividezza e tangibilità di quest'ultimo è in genere proporzionata la forza del movimento».
L’ambiguo rapporto con la modernità – Il totalitarismo si propone come garanzia di sicurezza psicologica dinanzi all’inquietante dilagare di quella modernità che ai primi del Novecento cominciava a sovvertire usanze e abitudini plurisecolari. L’industrializzazione aveva però anche un lato suadente ed accattivante, dal momento che dava l’illusione di poter rendere accessibile a tutti il benessere materiale. Ecco quindi che si spiegano alcune contraddizioni tipiche dei regimi totalitari del XX secolo: la modernizzazione (in particolar modo quella relativa agli armamenti) era ovunque esaltata come sinonimo di potenza della nazione, ma l’immagine di famiglia che si voleva trasmettere era ancora, rigorosamente, quella rurale, con la campagna preferita alla città quale luogo di crescita e sopravvivenza dei valori tradizionali.
Il culto del capo – In tutti i totalitarismi del XX secolo il capo ricopre un ruolo decisivo, essendo incarnazione della patria, sua guida ed indiscusso punto di riferimento. Mussolini, in altre parole, era l'Italia, così come Hitler era la Germania e Stalin la Russia. Ne conseguiva che sottrarsi a un ordine del capo significava, di fatto, rinnegare la patria.
Il capo è pertanto un essere divinizzato, i cui scritti costituiscono una sorta di vangelo laico della nazione. La propaganda gli attribuisce un epiteto altisonante per distinguerlo da tutte le altre cariche dello Stato (Duce, Fuhrer, Padre del popolo russo) e per sottolineare il forte legame con il popolo, da cui si presume derivi il conferimento del suo ruolo di leader indiscusso. Al riguardo, l'iconografia del tempo consente di constatare come tutti i dittatori amassero farsi ritrarre accanto a bambini, o (soprattutto nel caso di Mussolini) mentre erano intenti a svolgere attività manuali. L'idea di fondo, in sostanza, era che tra capo e folla non dovesse sussistere alcuna barriera: il contatto – come doveva risultare evidente durante i discorsi pubblici, infarciti di domande retoriche che davano al popolo l'impressione di dialogare direttamente e liberamente con il suo leader – era diretto, non mediato.
Il partito unico – Come ha scritto lo storico Giorgio Vecchio, nei totalitarismi «il partito fu presentato come l'unico autentico interprete della società nuova che la 'rivoluzione' avrebbe costruito. Esso era dunque l'interprete e l'avanguardia della nazione, dotato per di più di mezzi coercitivi, avendo a disposizione almeno in certe circostanze delle milizie armate». Suo compito era quello di alimentare la fede laica nella patria (attraverso collaudate liturgie di massa) e di politicizzare l'intera società.
L'appartenenza al partito – inizialmente inteso come comunità di eletti – divenne col tempo un requisito imprescindibile per poter ricoprire determinati ruoli (pubblici e professionali). La conseguenza fu che, ovunque, i partiti unici si ingrandirono a dismisura, arrivando a contare milioni di iscritti. Le inevitabili frizioni che sorsero con le istituzioni statali furono gestite in modo differente dai tre grandi regimi totalitari del Novecento: in Italia Mussolini preferì occupare di persona le cariche di capo del governo e ministro degli Interni, attribuendo al PNF un ruolo per lo più onorifico; in URSS prevalse invece la soluzione opposta, essendo il potere stabilmente nelle mani del segretario del PCUS; in Germania, infine, Hitler assunse le cariche di cancelliere e presidente della repubblica (unificandole in quella di Fuhrer), sommandole a quella di leader indiscusso del partito nazista.
A conclusione di questa breve sintesi dei principali tratti comuni ai tre grandi regimi totalitari del secolo scorso è bene richiamare la summenzionata riflessione di Todorov. Se è vero, infatti, che il totalitarismo pretende di appropriarsi della vita delle persone alle quali è imposto come struttura di potere, come è possibile che esso abbia goduto di enorme fascino, tanto da risultare estremamente più seducente della democrazia? Risponde lo storico bulgaro: «Il totalitarismo contiene una promessa di pienezza, di vita armoniosa e di felicità. È vero che non la mantiene, ma la promessa perdura, e ci può sempre raccontare che la prossima volta sarà quella buona e che verremo salvati. La democrazia liberale, invece, non contiene una promessa simile; si impegna soltanto a permettere a ognuno di cercare per proprio conto felicità, armonia e pienezza. Assicura, nel migliore dei casi, la tranquillità dei cittadini, la loro partecipazione alla conduzione degli affari pubblici, la giustizia nei loro reciproci rapporti e in quelli con lo stato; non promette la salvazione. L'autonomia, sia individuale che collettiva, pietra angolare dei regimi democratici, corrisponde al diritto di cercare attraverso se stessi, non alla certezza di trovare».
Resta dunque spazio per un'ulteriore domanda: meglio la libertà connessa al rischio – concreto – del fallimento individuale, o l'appagamento che deriva dal sentirsi parte di qualcosa, costi quello che costi? Forse il segreto per comprendere il totalitarismo sta tutto in questo dilemma.

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Il Novecento: il secolo di sangue

(articolo apparso su Prima Pagina del 10 agosto 2014)

Per la storia dell'umanità, il Novecento ha significato molto in termini di civiltà e progresso (intendendo con questa parola sostanzialmente il miglioramento della qualità della vita). Basti pensare alle conquiste sindacali, all'emancipazione femminile, alla valorizzazione teorica dei diritti cosiddetti inalienabili e del concetto di pace contrapposta alla guerra, alla nascita della sensibilità ambientale, allo sviluppo del volontariato e, più in generale, al tentativo di adeguare la politica – in tutte le sue forme – alle esigenze della modernità.
A fronte però di questo evidente primato nell'ambito del riconoscimento dei diritti e delle conquiste sociali, il Novecento si segnala nella storia per un'altra, drammatica peculiarità: è stato, senza dubbio, il secolo del sangue e della violenza, molto più di tutte le epoche che l'hanno preceduto. Scrive al riguardo lo storico Giorgio Vecchio: «Nessuna epoca dell'umanità è andata esente dall'uso e dall'abuso della forza: guerre, saccheggi, stupri, rapine, omicidi pubblici e privati segnano il programma della storia [...]. Riconosciuto questo, tuttavia, non si può fare a meno di notare che il Novecento ha visto il crescere esponenziale della violenza, negando alla radice l'idea che la storia possa essere concepita come una linea di pur lento, ma inarrestabile, progresso».
Se si dovesse scegliere un'immagine simbolo del XX secolo, la scelta probabilmente cadrebbe su una delle tante fotografie che ritraggono i volti sofferenti e smagriti di deportati in un campo di concentramento. Il Lager – per come lo intendiamo noi oggi – è infatti una delle più atroci "novità" introdotte dal Novecento. A partire dai campi costruiti dagli inglesi durante la guerra anglo-boera del 1899-1902 (in totale ben 44, con un pesante bilancio – dovuto alle pessime condizioni di vita al loro interno – di 28.000 morti, di cui 22.000 sotto i 16 anni), la deportazione e l'internamento divennero prassi comune a tutti i popoli – in teoria – più avanzati. Alcuni casi sono celebri: si pensi ai campi destinati ad accogliere (si fa per dire...) i prigionieri della Grande Guerra, al sistema GULag sovietico del periodo staliniano e ai Lager nazisti. Altri, invece, sono senz'altro meno conosciuti: è il caso – giusto per fare qualche esempio – dei campi aperti dagli italiani nel periodo 1936-1943 per l'internamento di etiopi e jugoslavi; di quelli statunitensi destinati agli immigrati giapponesi ed italiani durante la Seconda guerra mondiale; o di quelli francesi allestiti nel corso della guerra d'Algeria (1954-1962). Impossibile, in questa sede, offrire un elenco esaustivo. Al di là dei numeri, infatti, è sufficiente notare che il XXI secolo non si è certo dimenticato di questo barbaro strumento e che la nazione guida del progredito Occidente (gli USA) non si è fatta troppi scrupoli quando si è trattato di aprire l'ormai celebre campo di Guantanamo.
Gabriele Ranzato, a proposito della violenza senza pari che ha insanguinato il Novecento, ha scritto che essa sarebbe ascrivibile alla diffusione planetaria dei concetti di guerra e nemico totale. A suo parere, «fondamentale presupposto emotivo e morale della guerra totale è l'esistenza oggettiva – o anche solo la percezione soggettiva – di un nemico totale, cioè di un nemico che non si limita a contendere il possesso di un territorio o di una risorsa importante per il benessere di un paese, ma di un nemico che metta in giuoco, in imminente pericolo, la civiltà, la libertà, l'esistenza stessa del paese, dei suoi uomini e delle loro famiglie». In sostanza, è «il senso di questo pericolo estremo» – reale o supposto che sia – a giustificare il ricorso a drastici metodi di lotta che vanno ben al di là della tradizionale e consolidata concezione della guerra. Con la conseguenza che quando il conflitto diviene totale esso viene condotto senza esclusione di colpi (come accaduto, per esempio, con la furia nazista o con il ricorso alla bomba atomica, micidiale arma di distruzione di massa).
A causa della diffusione dell'odio ideologico, il Novecento non ha avuto rispetto per nessuno. Altro suo triste primato, infatti, è stato quello dei genocidi. Anche in questo caso, come per i campi di internamento, alcuni stermini sono ben noti (basti pensare a quello degli armeni nel 1915-1916 e, soprattutto, alla Shoah), mentre altri sono per lo più materia di studio per specialisti. Un caso singolare, su cui vale la pena soffermarsi se non altro perché fu uno dei primi genocidi del secolo, è per esempio quello che vide coinvolta la popolazione degli herero in Namibia. Tra il 1904 e il 1906 le forze di occupazione coloniale tedesche agli ordini del generale Lothar von Trotha sterminarono sistematicamente un intero popolo per reprimere un'insurrezione: il bilancio, secondo alcune stime, fu di oltre 70.000 vittime, con una percentuale di morti – ha rilevato John Daniel – di circa nove herero su dieci. Più che una guerra, fu un deliberato massacro. Prosegue infatti lo storico sudafricano: «L'armata tedesca determinò una percentuale di vittime del 90% grazie a tre metodi principali. Il primo era sostanzialmente il principio di non fare prigionieri e comportava l'uccisione di quanti più nemici possibile in combattimenti diretti; il secondo riguardava l'esecuzione indiscriminata dei prigionieri che in qualche modo fossero riusciti a evitare l'annientamento negli scontri a fuoco; la terza e ultima strategia consisteva nel condurre gli uomini herero sopravvissuti, insieme alle donne e ai bambini, nelle zone aride e desertiche della Namibia, dopo aver però distrutto o avvelenato le sorgenti d'acqua conosciute».
Ciò che rende tristemente unico il Novecento nella storia dell'uomo è il ricorso sistematico a pratiche barbariche finalizzate all'annientamento di un nemico. Un caso limite, in questo senso, è quello degli stupri di massa, sempre giustificati sulla base dell'odio ideologico. Nel corso della Prima guerra mondiale toccò inizialmente a francesi e belgi subire ripetute violenze sessuali per mano dei tedeschi (il che portò alla formulazione di teorie razziste, giacché in Francia la propaganda pose l'accento sul rischio di contaminazione del popolo francofono); ma identico trattamento fu riservato, dopo Caporetto, anche agli italiani, sui quali gli occupanti austro-tedeschi in più occasioni infierirono colpendo persino bambine e donne anziane.
Lo stupro divenne in sostanza un'arma di annientamento psicologico, oltre che uno strumento per indebolire – in chiave razzistica – un popolo considerato nemico. Ripetuti episodi di violenza sessuale si ebbero, per esempio, all'interno del cosiddetto sistema GULag, anche se il caso limite è probabilmente quello legato alla guerra sino-giapponese degli anni Trenta. In quell'occasione, infatti, le autorità militari del Sol Levante pianificarono una politica sessuale avente come scopo il rastrellamento di un numero esorbitante di donne (circa 200.000!) – per lo più cinesi, ma anche provenienti dagli altri paesi occupati – destinate alla prostituzione coatta. Ma non è tutto. Quando Nanchino, capitale della Cina nazionalista, nel 1937 cadde in mano giapponese, per l'inerme popolazione locale si scatenò un autentico inferno. Questa la ricostruzione di Giorgio Vecchio: «A decine di migliaia i maschi di Nanchino furono fucilati, o bruciati vivi o usati per le esercitazioni militari al posto dei manichini; si ebbero vere e proprie gare di velocità legate al taglio delle teste. Le stime sul numero complessivo delle vittime cinesi sono molto diversificate, ma alcune portano fino alla cifra di 350.000 persone uccise. Tra le 20.000 e le 80.000 donne furono violentate e in moltissimi casi lo stupro fu seguito dall'uccisione. Gli stupri ebbero caratteri particolarmente crudeli, sia perché esercitati anche su bambine e anziane (spesso con conseguenze mortali), sia per il ricorso a torture, mutilazioni, esposizioni in strada in pose pornografiche, e così via. Uomini e donne cinesi, membri d'una stessa famiglia, furono costretti a violentarsi reciprocamente».
Durante il secondo conflitto mondiale tutti gli eserciti furono responsabili di stupri. Volendo citare due casi tra i meno conosciuti, si potrebbero prendere in considerazione la tragedia vissuta dalle donne tedesche nei territori occupati dall'Armata Rossa in avanzamento verso Berlino e quella delle donne italiane nella zona di Cassino (le cosiddette "marocchinate"), le quali subirono ripetute violenze per mano dei goumiers, truppe marocchine dell'esercito francese impiegate dagli Alleati per lo sfondamento della linea Gustav.
Quella dello stupro risulta essere in sostanza una pratica così diffusa da apparire scontata, come se si trattasse di un danno collaterale pressoché inevitabile in ogni guerra. La fine del secondo conflitto mondiale non coincise infatti con l'abbandono di questo genere di barbarie. Dai crimini dei francesi in Algeria alla tragedia delle donne bosniache nel corso degli anni '90 (passando attraverso le sistematiche violenze perpetrate nei paesi dell'America Latina soggetti a dittature militari), le vittime di questa indefinibile brutalità sono talmente numerose che non si contano. Sono loro, insieme con tutti i milioni di morti provocati dall'odio, i veri protagonisti del secolo scorso?

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venerdì 8 agosto 2014

Diego Armando Maradona: il più grande calciatore di tutti i tempi?

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 agosto 2014)

In Italia siamo fatti così: è sufficiente che giornali e televisioni ci indichino la strada da percorrere, e noi – senza porci domande – ci facciamo guidare come un docile cagnolino ammaestrato. Vale per la politica; e, ancor più, per le mode e gli insignificanti fenomeni di costume. Ebbene, scopo delle righe che seguono vuole essere quello di mettere a nudo questa triste peculiarità italica attraverso la parziale demolizione di un mito nazional-popolare: Diego Armando Maradona. Sia chiaro: nessuno intende affermare che il «Pibe de Oro» non sia stato un grandissimo campione. Ma da qui a sostenere che Maradona, senza ombra di dubbio, sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi ce ne corre (fermo restando che è tutto da dimostrare che si possa realmente stabilire che un atleta di una determinata epoca sia migliore di chi l'ha preceduto e di chi è venuto dopo). Opinione di chi scrive, in sostanza, è che Maradona sia ridimensionabile. È stato sicuramente un fenomeno, non il fenomeno.
Dunque: per cominciare, è necessario fare un piccolo sforzo. Cancelliamo dalla mente le immagini del Maradona trionfante, i suoi goal memorabili e i roboanti titoli della «Gazzetta dello Sport»; fingiamo di non averlo mai sentito nominare; e immaginiamo che sia un personaggio storico, sfuggito all'oblio solo grazie ad asettici documenti (statistiche, classifiche e, in generale, dati oggettivamente riscontrabili). Mettiamo per un momento da parte, cioè, la retorica per concentrarci sui fatti. Ed esaminiamo con lucidità la carriera calcistica di Maradona.
Il palmarès, non c'è che dire, è di tutto rispetto: con i club, 1 campionato argentino [Boca Juniors], 1 Coppa di Spagna, 1 Coppa della Liga, 1 Supercoppa di Spagna [Barcellona], 2 campionati italiani, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana e 1 Coppa Uefa [Napoli]; con la nazionale argentina, 1 campionato del mondo e 1 Coppa Artemio Franchi.
Indubbiamente, siamo al cospetto di un grande calciatore. Ma, se ci limitiamo ai titoli, c'è chi non è da meno o ha fatto addirittura meglio. Tralasciando le coppe minori e considerando esclusivamente i campionati nazionali e le competizioni internazionali, scopriamo che – cito tre esempi tra i vari disponibili, escludendo volutamente il troppo scontato Pelé – Michel Platini ha vinto 1 campionato francese, 2 campionati italiani, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa Intercontinentale e, con la nazionale francese, 1 campionato europeo; Zinedine Zidane ha conquistato 2 campionati italiani, 1 campionato spagnolo, 2 Coppa Intercontinentale, 2 Supercoppa Uefa, 1 Champions League (la vecchia Coppa dei Campioni) e, con la nazionale francese, 1 europeo ed 1 mondiale; e, infine, Lionel Messi ha vinto 6 campionati spagnoli, 3 Champions League, 2 Coppa del mondo per club (la vecchia Intercontinentale), 2 Supercoppa Uefa e, con la nazionale argentina, 1 oro olimpico.
Già questo semplice elenco pone quindi alcuni interrogativi. Punto primo: possibile che i migliori giocatori siano solo attaccanti? Chi fa goal, si sa, è sempre il più osannato dalla critica. Ma che dire di chi costruisce il gioco? Prendiamo, per esempio, Andrea Pirlo, e constatiamo che ha all'attivo 5 campionati italiani, 2 Champions League, 2 Supercoppa Uefa, 1 Coppa del mondo per club e, con la nazionale italiana, 1 mondiale. Mica male! In pratica, è all'incirca il doppio di quanto conquistato da Maradona...
Altro quesito: com'è possibile che il più grande calciatore di tutti i tempi abbia vinto solo una misera Coppa Uefa a livello di competizioni internazionali per club? Rispondere senza intaccare l'indiscusso primato del Pibe risulta, in effetti, complicato. Perché se si afferma – come immagino starete pensando in questo momento – che a calcio si gioca in undici e che i dieci compagni di Maradona (nel Barcellona e nel Napoli) non erano all'altezza del loro mitico numero dieci, allora bisogna, per forza, ammettere che nemmeno lui era in grado – contrariamente a quanto si legge sulle gazzette – di vincere le partite da solo. A confermare questa deduzione, del resto, sono proprio le statistiche che si riferiscono al cammino del Napoli nella Coppa Uefa vinta (stagione 1988-89): in quella competizione, Maradona segnò la miseria di 3 goal (tutti su calcio di rigore) in 12 partite. Statistiche confermate anche nelle due apparizioni del Napoli in Coppa dei Campioni: un'uscita al primo turno contro il Real Madrid (1987-88) ed una al secondo contro lo Spartak Mosca (1990-91), per un magro totale di 2 goal (più quello, ininfluente, ai calci di rigore contro lo Spartak) in 6 partite.
D'accordo – si dirà: con i club il Pibe non fu un granché in Europa. Ma in Italia e con la nazionale vinse da solo. Sicuri? Vi ricordo che ci siamo dati una regola: niente retorica, solo dati oggettivi.
Partiamo dal Napoli. Maradona vinse due scudetti (gli unici della storia dei partenopei), segnando appena 10 reti (di cui 3 su rigore) nel 1986-87 (stagione – giova ricordarlo – nella quale il Napoli fu eliminato ai trentaduesimi di finale di Coppa Uefa proprio a causa dell'errore decisivo del Pibe dal dischetto), e 16 (di cui 7 su rigore) nel 1989-90. Ora, ammettiamo pure che il suo contributo sia stato decisivo; e che, con ogni probabilità, quel Napoli non avrebbe trionfato senza Maradona. Ma, siamo onesti: con 26 reti in due stagioni non si può affermare che il Pibe abbia potuto fare a meno dell'apporto dei compagni. Anche perché c'è un altro dato interessante da considerare: nel campionato 1986-87 il Napoli vinse solo 15 partite su 30 (50%); tre anni dopo si migliorò (62%, con 21 vittorie su 34 gare, di cui una a tavolino), ma il totale – 36 su 64, pari al 54% – non lascia dubbi su un dato: nei due campionati terminati col successo del Napoli, quasi una volta su due l'uomo che vinceva le partite da solo non è riuscito ad avere la meglio sull'avversario. Che dire? A me sembra, onestamente, un po' pochino vista la sua fama di indiscusso numero uno (cito solo un altro dato: Messi – stando ai giornali, l'erede incompiuto di Maradona – ha finora segnato, complessivamente, 354 reti in 425 incontri con la maglia del Barcellona; diviso per 10 stagioni – Messi è in prima squadra dall'annata 2004-05 –, fanno 35,4 reti di media a stagione!).
Passiamo alla nazionale. E qui – ne sono certo – sarà più dura persuadere i sostenitori del Pibe. Perché lo sanno tutti: a parte Maradona, nell'Argentina degli anni '80-'90 giocavano solo pippe. Ancora sicuri? D'accordo, lo ammetto: ai mondiali del 1986 Maradona dimostrò di essere un campionissimo. Fino agli ottavi di finale, per la verità, non più di tanto: mise infatti a segno una sola rete in quattro gare. Poi però si scatenò: due goal all'Inghilterra nei quarti (di cui uno di mano), ed altri due in semifinale contro il Belgio. Restò a secco, invece, in finale contro la Germania, anche se ebbe il merito di rimediare ad una prestazione opaca servendo l'assist per la rete decisiva di Burruchaga.
Nel 1990, invece, Maradona deluse (classificandosi pur sempre secondo – merito questa volta dei compagni? – alle spalle della Germania): non mise a segno nemmeno un goal su azione, limitandosi a trasformare dal dischetto il rigore che, in semifinale, costò l'eliminazione all'Italia di Vicini dopo i tempi supplementari. Rileggendo alcune cronache, in finale praticamente non vide mai la palla.
Torniamo però brevemente al 1986. Cosa sarebbe successo se Burruchaga – un po' come Higuain nella finale persa dall'Argentina poche settimane fa – avesse ciabattato solo davanti al portiere? Se Maradona – che, come detto, non giocò al meglio la finale – avesse perso quel mondiale, parleremmo lo stesso di lui come di una leggenda vivente, come del migliore di tutti i tempi? La mia risposta – alla luce di quanto esposto finora – non può che essere «sì». Ma come?, direte. E le statistiche, allora, a cosa sono servite? È molto semplice: a dimostrare che Maradona è considerato il migliore non perché sia dimostrabile, oggettivamente, che è stato il più forte sui campi di gioco, bensì per una serie di fattori che con il calcio non hanno nulla a che vedere.
Sono due, a mio avviso, le circostanze favorevoli che trasformarono Maradona in una leggenda. Prima: conquistò due scudetti in una piazza – Napoli – che vive il calcio con una passione sconfinata, ma che prima del suo arrivo non aveva mai vinto il campionato. Una piazza, per di più, dove il tricolore, dopo l'addio del Pibe, non è ancora stato riportato in bacheca: il che, non c'è dubbio, rafforza il mito dell'eroe capace di portare al trionfo, lui solo, la maglia azzurra. Ve lo immaginate, del resto, un Maradona campione d'Italia con la Juventus, il Milan o l'Inter? Sarebbe stato, semplicemente, uno dei tanti, laddove a Napoli è passato alla storia come l'artefice di un'impresa che pare irripetibile, o quasi.
Seconda circostanza: Maradona incarna il prototipo del calciatore ribelle, che fa valere il suo immenso talento su tutto e tutti. Ecco allora che il Pibe non ha bisogno di allenarsi e può tranquillamente condurre una vita sregolata; se segna di mano (come contro l'Inghilterra ai mondiali dell'86), le gazzette non lo accusano di essere scorretto, ma coniano per lui l'altisonante epiteto di «Mano de Dios»; se infine viene squalificato dopo un controllo antidoping poiché abusa di cocaina, la vittima è lui, perseguitato da un sistema che le prova tutte pur di fermarlo. Il vittimismo è insito nella natura del personaggio. Maradona, in Italia, porta al successo un sud da sempre, irrimediabilmente, oppresso, persino vilipeso da un nord tracotante, a tratti tirannico; e, con l'Argentina, riscatta un intero popolo, vendicando l'onta delle Falkland segnando – di mano, come è giusto che sia – contro i perfidi britannici. Il Pibe è un romantico rivoluzionario prestato ai campi di calcio. È il Che Guevara del pallone, che ha un debole per Cuba e per Fidel Castro e odia gli Stati Uniti, con tutto ciò che essi rappresentano. Altro che Messi: uno che si allena sempre scrupolosamente, che conduce una vita da atleta professionista e tende a farsi i fatti suoi non può competere con l'incarnazione del binomio genio e sregolatezza. Perché – chissà quante donne potrebbero confermarlo – non ci si innamora mai dei bravi ragazzi.

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