(articolo apparso su Prima Pagina del 29 giugno 2014)
Nell'anno del centenario dello
scoppio del primo conflitto di portata mondiale, le librerie pullulano di
volumi sulla Grande Guerra. In pratica, tra ristampe e nuove edizioni, gli
scaffali dedicati alla storia sono pressoché "monopolizzati" da un
solo argomento. In questa sede segnaliamo un libro uscito poche settimane fa,
stampato da Il Fiorino: si tratta del lavoro di Gian Luigi Rinaldi, intitolato Venti
di guerra. Uno studio del periodo della neutralità italiana (conclusasi
ufficialmente il 24 maggio 1915), corredato da un ampio apparato di immagini
(tra le quali spiccano numerose riproduzioni fotografiche di articoli e titoli
tratti da testate, anche modenesi, dell'epoca).
Ma che Italia era quella che, dopo un
anno di riflessioni, imbracciò il fucile a fianco delle potenze dell'Intesa?
Ripercorriamo brevemente, da un punto di vista politico, la storia del biennio
1914-1915.
28 giugno 1914. Esattamente un secolo
(e un giorno) fa uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip freddava
a colpi di pistola l'arciduca Francesco Ferdinando (erede al trono d'Austria) e
la moglie Sofia, mentre a bordo di un'auto scoperta attraversavano le vie di
Sarajevo. L'attentatore faceva parte di un'organizzazione irredentista serba,
e questo bastò per suscitare la dura reazione del governo di Vienna: il 23
luglio fu inviato un durissimo ultimatum alla Serbia, il quale – tra le
altre cose – prevedeva l'ammissione di funzionari austriaci alle indagini
sull'attentato (e quindi, di fatto, una rinuncia alla sovranità).
L'ultimatum fu accettato solo
in parte, e l'Austria – giudicando la risposta insoddisfacente – il 28 luglio
dichiarò guerra alla Serbia. La decisione mise in moto il meccanismo delle
alleanze incrociate. La Russia, che già aveva assicurato il proprio sostegno
alla Serbia, ordinò la mobilitazione delle forze armate (di fatto il preludio a
una formale dichiarazione di guerra) su tutto il confine occidentale, compreso
quello con la Germania. La mossa, com'era prevedibile, scatenò la reazione tedesca,
con conseguente invio di un ultimatum per l'immediata sospensione dei
preparativi bellici. Ignorato dai russi l'avvertimento, il 1° agosto da Berlino
giunse la dichiarazione di guerra, cui seguirono – nel giro di tre giorni – la
mobilitazione della Francia (alleata della Russia), un nuovo ultimatum
tedesco e la successiva dichiarazione di guerra.
La strategia tedesca, elaborata sulla
base del cosiddetto piano Schlieffen (capo di stato maggiore dell'esercito agli
inizi del Novecento), prevedeva un rapido attacco a ovest per mettere fuori
combattimento la Francia nel giro di poche settimane e per potersi poi
rivolgere con maggiori forze a est, contro la Russia. Per la riuscita
dell'operazione era però necessario violare la neutralità del Belgio, al fine
di colpire lo schieramento nemico nella sua parte più debole e di puntare direttamente
su Parigi. L'invasione ebbe inizio il 4 agosto, e – oltre a scuotere
profondamente l'opinione pubblica europea – convinse l'Inghilterra della
necessità di un intervento, giacché veniva considerata inaccettabile
l'aggressione ad un paese neutrale che si affacciava sulla Manica. Il giorno seguente
anche Londra dichiarò guerra alla Germania.
E l'Italia? L'Italia sostanzialmente
prese tempo, affrettandosi (il 2 agosto) a dichiarare la propria neutralità. Il
pretesto fu il carattere difensivo della Triplice alleanza: da un punto di
vista formale era legittimo mantenersi estranei al conflitto, giacché l'Austria
non era stata direttamente attaccata e non aveva consultato Roma prima di
muovere contro la Serbia. Al di là dei tatticismi, era però evidente che la
decisione presa non fosse definitiva. In sostanza, si preferì attendere
sviluppi, giusto per farsi un'idea dei reali rapporti di forza tra le potenze
in gioco. E, tra gli interventisti, quando fu chiaro che l'assalto
austro-tedesco era fallito, prevalse rapidamente il partito di coloro che caldeggiavano
l'entrata in guerra a fianco dell'Intesa (che avrebbe, a loro parere, garantito
il completamento del processo risorgimentale).
Quello che è certo è che non fu una
scelta facile, se non altro perché l'Italia dal 1882 faceva parte – insieme con
Austria e Germania – della Triplice alleanza. Ma quali furono i sentimenti – a
lungo andare decisivi – che animavano la nutrita schiera degli interventisti?
L'aspetto più singolare è che le
motivazioni (ideali e pratiche) di coloro che si dicevano favorevoli
all'intervento a fianco di Francia e Inghilterra erano assai variegate. Non ci
fu, in altre parole, un unico interventismo. Ve ne fu uno di sinistra
(condiviso da repubblicani, radicali, socialriformisti, irredentisti e da
frange "eretiche" del movimento operaio), che considerava la guerra
agli Imperi Centrali un'occasione da cogliere per battersi in difesa del
diritto di nazionalità e della democrazia (i quali, si credeva, sarebbero stati
di certo messi in discussione in caso di vittoria austro-tedesca). Ma vi furono
anche un interventismo nazionalista – desideroso che l'Italia, al pari degli
altri grandi Stati europei, si affermasse come potenza imperialista – ed uno
liberal-conservatore, espressione di coloro che erano convinti che una
prolungata neutralità avrebbe compromesso irrimediabilmente il prestigio
internazionale dell'Italia e della monarchia sabauda (laddove, di contro, una
vittoria militare avrebbe rafforzato il governo e le istituzioni).
Altrettanto consistente era però lo
schieramento neutralista. Esso annoverava i cattolici (in parte pacifisti, in
parte contrari a una guerra combattuta a fianco della Francia repubblicana – e,
sotto sotto, anticlericale – contro la cattolicissima Austria), i cosiddetti
giolittiani (preoccupati per le conseguenze di un conflitto che – nelle loro
previsioni – sarebbe stato logorante ed infruttuoso ed altresì convinti di
poter ricevere dagli Imperi Centrali sostanziosi compensi territoriali in
cambio della neutralità) e i socialisti (fermi – seppur con la clamorosa
eccezione di Mussolini – nella condanna della guerra quale mezzo per affermare
un qualunque diritto).
Sostanzialmente, come spesso è
accaduto nella nostra storia, l'Italia del 1914 era un paese spaccato a metà.
Ma si trattava, a ben vedere, di due metà tra loro molto diverse. Mentre il
fronte interventista, pur tenendo conto della sua eterogeneità, era unito da
una comune avversione all'Austria e alla politica giolittiana, quello
neutralista risentiva della profonda spaccatura che divideva i socialisti dalle
altre forze politiche. Da una parte, poi, si respirava contagioso entusiasmo, e
si diede prova di una sorprendente capacità di mobilitazione (erano
interventisti – dato già di per sé significativo – molti studenti e
intellettuali); dall'altra, invece, ci si intendeva solo mettendo in comune le
paure legate alla guerra. Col senno di poi, è fin troppo facile rilevare quanto
le divisioni interne al blocco neutralista abbiano contribuito in maniera
determinante a spostare l'ago della bilancia in direzione del partito della
guerra. Ed è proprio sfruttando questa debolezza che la propaganda
interventista ebbe buon gioco a presentare Giolitti come un vile conservatore,
i cattolici come reazionari che intendevano ostacolare il compimento dell'unità
nazionale e i socialisti come sovversivi incompatibili con ogni forma di
patriottismo.
Mario Isnenghi, certamente uno dei
più autorevoli studiosi italiani della Grande Guerra, sottolinea a proposito
dei neutralisti (e in particolare dei socialisti) un dato di enorme rilevanza:
«Ma si può essere la metà del paese e non avere in sé la fiducia di programmare
almeno uno sciopero? Dopodiché non si può arrivare qualche decennio dopo e dire
che la guerra è una brutta bestia. Sarà anche una brutta bestia, ma quando si
trovano di fronte le emozioni dei volontari della guerra, le emozioni dei
detrattori della guerra cosa hanno saputo produrre? Il "né aderire, né
sabotare" [dei socialisti]. [...] "Né aderire, né sabotare" è
una parola d'ordine nel segno dell'impotenza: aderire non posso, cioè dentro di
me ti dico di no, ma sabotare non me la sento, sennò ridiventerei
quell'anarchico che ero trent'anni fa».
Questo, a ben vedere, è il punto
cruciale. L'Italia del biennio 1914-1915 era un paese nel quale si
contrapponevano due opposte volontà: ma, tra le due, ce n'era una – si passi il
gioco di parole – che voleva la guerra "meglio" di quanto l'altra
volesse la neutralità. E, con queste premesse, non è certo un caso che al
termine del conflitto le forze neutraliste si siano disgregate. Perché, se la
politica tradizionale puzzava ormai di vecchio, i socialisti si trovarono nella
delicata condizione di dover spiegare che, a loro parere, si era combattuto (e
vinto) per niente. E i 600.000 morti? E la gloria, l'onore, la patria? Aveva
ragione Benedetto Croce, quando scrisse: «Praticamente, i socialisti
italiani non posero grandi ostacoli, e neppure dettero molto fastidio al
governo; ma, idealmente, si staccarono dal popolo a cui appartenevano, e con
ciò si tolsero autorità sopr'esso nel caso di vittoria, e, in quello di sconfitta,
sperarono (e forse nel loro cuore non la sperarono) la triste autorità, che è
nel poter avvantaggiarsi delle sventure nazionali, rigettandone da sé
sofisticamente e demagogicamente la colpa, e accrescere con l'obbrobrio il
comune avvilimento. Ciò percepì acutamente quello dei socialisti che era a capo
dell'estrema sinistra del partito, il Mussolini [...]. Così i socialisti
italiani si condussero proprio all'opposto dei loro colleghi tedeschi,
assumendo essi la parte antinazionale che assunse colà la minoranza
rivoluzionaria, e lasciando che in Italia la minoranza rivoluzionaria assumesse
la parte nazionale».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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