mercoledì 2 luglio 2014

«Venti di guerra»: i travagliati mesi della neutralità italiana

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 giugno 2014)

Nell'anno del centenario dello scoppio del primo conflitto di portata mondiale, le librerie pullulano di volumi sulla Grande Guerra. In pratica, tra ristampe e nuove edizioni, gli scaffali dedicati alla storia sono pressoché "monopolizzati" da un solo argomento. In questa sede segnaliamo un libro uscito poche settimane fa, stampato da Il Fiorino: si tratta del lavoro di Gian Luigi Rinaldi, intitolato Venti di guerra. Uno studio del periodo della neutralità italiana (conclusasi ufficialmente il 24 maggio 1915), corredato da un ampio apparato di immagini (tra le quali spiccano numerose riproduzioni fotografiche di articoli e titoli tratti da testate, anche modenesi, dell'epoca).
Ma che Italia era quella che, dopo un anno di riflessioni, imbracciò il fucile a fianco delle potenze dell'Intesa? Ripercorriamo brevemente, da un punto di vista politico, la storia del biennio 1914-1915.
28 giugno 1914. Esattamente un secolo (e un giorno) fa uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip freddava a colpi di pistola l'arciduca Francesco Ferdinando (erede al trono d'Austria) e la moglie Sofia, mentre a bordo di un'auto scoperta attraversavano le vie di Sarajevo. L'attentatore faceva parte di un'organizzazione irredentista serba, e questo bastò per suscitare la dura reazione del governo di Vienna: il 23 luglio fu inviato un durissimo ultimatum alla Serbia, il quale – tra le altre cose – prevedeva l'ammissione di funzionari austriaci alle indagini sull'attentato (e quindi, di fatto, una rinuncia alla sovranità).
L'ultimatum fu accettato solo in parte, e l'Austria – giudicando la risposta insoddisfacente – il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. La decisione mise in moto il meccanismo delle alleanze incrociate. La Russia, che già aveva assicurato il proprio sostegno alla Serbia, ordinò la mobilitazione delle forze armate (di fatto il preludio a una formale dichiarazione di guerra) su tutto il confine occidentale, compreso quello con la Germania. La mossa, com'era prevedibile, scatenò la reazione tedesca, con conseguente invio di un ultimatum per l'immediata sospensione dei preparativi bellici. Ignorato dai russi l'avvertimento, il 1° agosto da Berlino giunse la dichiarazione di guerra, cui seguirono – nel giro di tre giorni – la mobilitazione della Francia (alleata della Russia), un nuovo ultimatum tedesco e la successiva dichiarazione di guerra.
La strategia tedesca, elaborata sulla base del cosiddetto piano Schlieffen (capo di stato maggiore dell'esercito agli inizi del Novecento), prevedeva un rapido attacco a ovest per mettere fuori combattimento la Francia nel giro di poche settimane e per potersi poi rivolgere con maggiori forze a est, contro la Russia. Per la riuscita dell'operazione era però necessario violare la neutralità del Belgio, al fine di colpire lo schieramento nemico nella sua parte più debole e di puntare direttamente su Parigi. L'invasione ebbe inizio il 4 agosto, e – oltre a scuotere profondamente l'opinione pubblica europea – convinse l'Inghilterra della necessità di un intervento, giacché veniva considerata inaccettabile l'aggressione ad un paese neutrale che si affacciava sulla Manica. Il giorno seguente anche Londra dichiarò guerra alla Germania.
E l'Italia? L'Italia sostanzialmente prese tempo, affrettandosi (il 2 agosto) a dichiarare la propria neutralità. Il pretesto fu il carattere difensivo della Triplice alleanza: da un punto di vista formale era legittimo mantenersi estranei al conflitto, giacché l'Austria non era stata direttamente attaccata e non aveva consultato Roma prima di muovere contro la Serbia. Al di là dei tatticismi, era però evidente che la decisione presa non fosse definitiva. In sostanza, si preferì attendere sviluppi, giusto per farsi un'idea dei reali rapporti di forza tra le potenze in gioco. E, tra gli interventisti, quando fu chiaro che l'assalto austro-tedesco era fallito, prevalse rapidamente il partito di coloro che caldeggiavano l'entrata in guerra a fianco dell'Intesa (che avrebbe, a loro parere, garantito il completamento del processo risorgimentale).
Quello che è certo è che non fu una scelta facile, se non altro perché l'Italia dal 1882 faceva parte – insieme con Austria e Germania – della Triplice alleanza. Ma quali furono i sentimenti – a lungo andare decisivi – che animavano la nutrita schiera degli interventisti?
L'aspetto più singolare è che le motivazioni (ideali e pratiche) di coloro che si dicevano favorevoli all'intervento a fianco di Francia e Inghilterra erano assai variegate. Non ci fu, in altre parole, un unico interventismo. Ve ne fu uno di sinistra (condiviso da repubblicani, radicali, socialriformisti, irredentisti e da frange "eretiche" del movimento operaio), che considerava la guerra agli Imperi Centrali un'occasione da cogliere per battersi in difesa del diritto di nazionalità e della democrazia (i quali, si credeva, sarebbero stati di certo messi in discussione in caso di vittoria austro-tedesca). Ma vi furono anche un interventismo nazionalista – desideroso che l'Italia, al pari degli altri grandi Stati europei, si affermasse come potenza imperialista – ed uno liberal-conservatore, espressione di coloro che erano convinti che una prolungata neutralità avrebbe compromesso irrimediabilmente il prestigio internazionale dell'Italia e della monarchia sabauda (laddove, di contro, una vittoria militare avrebbe rafforzato il governo e le istituzioni).
Altrettanto consistente era però lo schieramento neutralista. Esso annoverava i cattolici (in parte pacifisti, in parte contrari a una guerra combattuta a fianco della Francia repubblicana – e, sotto sotto, anticlericale – contro la cattolicissima Austria), i cosiddetti giolittiani (preoccupati per le conseguenze di un conflitto che – nelle loro previsioni – sarebbe stato logorante ed infruttuoso ed altresì convinti di poter ricevere dagli Imperi Centrali sostanziosi compensi territoriali in cambio della neutralità) e i socialisti (fermi – seppur con la clamorosa eccezione di Mussolini – nella condanna della guerra quale mezzo per affermare un qualunque diritto).
Sostanzialmente, come spesso è accaduto nella nostra storia, l'Italia del 1914 era un paese spaccato a metà. Ma si trattava, a ben vedere, di due metà tra loro molto diverse. Mentre il fronte interventista, pur tenendo conto della sua eterogeneità, era unito da una comune avversione all'Austria e alla politica giolittiana, quello neutralista risentiva della profonda spaccatura che divideva i socialisti dalle altre forze politiche. Da una parte, poi, si respirava contagioso entusiasmo, e si diede prova di una sorprendente capacità di mobilitazione (erano interventisti – dato già di per sé significativo – molti studenti e intellettuali); dall'altra, invece, ci si intendeva solo mettendo in comune le paure legate alla guerra. Col senno di poi, è fin troppo facile rilevare quanto le divisioni interne al blocco neutralista abbiano contribuito in maniera determinante a spostare l'ago della bilancia in direzione del partito della guerra. Ed è proprio sfruttando questa debolezza che la propaganda interventista ebbe buon gioco a presentare Giolitti come un vile conservatore, i cattolici come reazionari che intendevano ostacolare il compimento dell'unità nazionale e i socialisti come sovversivi incompatibili con ogni forma di patriottismo.
Mario Isnenghi, certamente uno dei più autorevoli studiosi italiani della Grande Guerra, sottolinea a proposito dei neutralisti (e in particolare dei socialisti) un dato di enorme rilevanza: «Ma si può essere la metà del paese e non avere in sé la fiducia di programmare almeno uno sciopero? Dopodiché non si può arrivare qualche decennio dopo e dire che la guerra è una brutta bestia. Sarà anche una brutta bestia, ma quando si trovano di fronte le emozioni dei volontari della guerra, le emozioni dei detrattori della guerra cosa hanno saputo produrre? Il "né aderire, né sabotare" [dei socialisti]. [...] "Né aderire, né sabotare" è una parola d'ordine nel segno dell'impotenza: aderire non posso, cioè dentro di me ti dico di no, ma sabotare non me la sento, sennò ridiventerei quell'anarchico che ero trent'anni fa».
Questo, a ben vedere, è il punto cruciale. L'Italia del biennio 1914-1915 era un paese nel quale si contrapponevano due opposte volontà: ma, tra le due, ce n'era una – si passi il gioco di parole – che voleva la guerra "meglio" di quanto l'altra volesse la neutralità. E, con queste premesse, non è certo un caso che al termine del conflitto le forze neutraliste si siano disgregate. Perché, se la politica tradizionale puzzava ormai di vecchio, i socialisti si trovarono nella delicata condizione di dover spiegare che, a loro parere, si era combattuto (e vinto) per niente. E i 600.000 morti? E la gloria, l'onore, la patria? Aveva ragione Benedetto Croce, quando scrisse: «Praticamente, i socialisti italiani non posero grandi ostacoli, e neppure dettero molto fastidio al governo; ma, idealmente, si staccarono dal popolo a cui appartenevano, e con ciò si tolsero autorità sopr'esso nel caso di vittoria, e, in quello di sconfitta, sperarono (e forse nel loro cuore non la sperarono) la triste autorità, che è nel poter avvantaggiarsi delle sventure nazionali, rigettandone da sé sofisticamente e demagogicamente la colpa, e accrescere con l'obbrobrio il comune avvilimento. Ciò percepì acutamente quello dei socialisti che era a capo dell'estrema sinistra del partito, il Mussolini [...]. Così i socialisti italiani si condussero proprio all'opposto dei loro colleghi tedeschi, assumendo essi la parte antinazionale che assunse colà la minoranza rivoluzionaria, e lasciando che in Italia la minoranza rivoluzionaria assumesse la parte nazionale».

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