(articolo apparso su Prima Pagina del 13 luglio 2014)
La principale caratteristica della repressione sovietica
ai tempi di Stalin fu l’assoluta arbitrarietà degli arresti. A fare la
differenza tra la vita e la morte non era infatti l’accertamento di una colpa:
era sufficiente un sospetto, il più delle volte pretestuoso, per essere
fagocitati dal sistema GULag e deportati in Siberia
o in zone fredde ed inospitali dell’Asia centrale. Chi non moriva
di stenti aveva comunque il destino segnato: prigionia in condizioni
disumane e lavori forzati per portare avanti il programma di
industrializzazione forzata della Russia voluta dai vertici comunisti.
Scrive lo storico Giorgio Vecchio: «Si era presi
nottetempo solo perché appartenenti a una certa classe sociale, a una famiglia,
a un gruppo. Oppure si era catturati in pieno giorno, sul posto di lavoro, per
strada, magari da quelle stesse persone con cui fino a pochi istanti prima si
era conversato amichevolmente. Quello che contava era la sorpresa e lo
stordimento psicologico che doveva colpire la vittima. Capitava di essere
colpiti solo perché parenti di un leader politico che Stalin voleva tenere
sotto controllo […]. Oppure perché si era figli di condannati e quindi si era
potenzialmente vendicatori. O perché coniugi di un condannato. O perché non si
era denunciato il proprio coniuge. O perché qualche gerarca desiderava la
moglie di un altro. O anche solamente perché non si era ancora raggiunto il
numero prefissato (!!!) di arresti da fare e quindi si mettevano le mani sui
primi malcapitati».
Dopo l’arresto, il detenuto doveva subire pesanti
pressioni psicologiche (minacce, ricatti, isolamento) e, assai spesso, tremende
torture (i cui esempi più blandi – giusto per tacere delle violenze fisiche – consistevano
nell’impedire il sonno, nel razionamento estremo del cibo, nell’investire
giorno e notte il detenuto con fasci di luce abbagliante, e così via).
L’obiettivo dei carcerieri era quello di indurre il prigioniero a firmare una
confessione, quasi sempre inverosimile ma più che sufficiente per giustificare
l’arresto. Si cercava cioè, paradossalmente, di spingere il detenuto a fornire
“spontaneamente” le prove della propria colpevolezza. E, vista la durezza dei
metodi utilizzati, pressoché tutti gli interrogati finivano per cedere,
firmando quella che di fatto era una condanna a morte.
All’arresto seguiva direttamente la deportazione (il
processo, pura formalità, consisteva il più delle volte nella semplice lettura
della sentenza precedentemente stabilita), solitamente imposta secondo condanne
irrogate sulla base temporale della cinquina e
della decina (cinque o dieci anni di lager). Ai familiari non veniva comunicato
nulla ad eccezione della durata della pena. E, visto il clima, era
consigliabile non fare troppe domande.
La fase successiva, drammatica, era quella del viaggio, che
avveniva nella maggior parte dei casi in treno. Stipati in carrozze in
condizioni al limite della sopportabilità (si arrivava persino a ridurre al
minimo l’acqua da bere, così che le guardie – sottolinea Vecchio – potevano
limitarsi «ad accompagnare i prigionieri ai gabinetti una sola volta al
giorno»), rinchiusi come bestie in scompartimenti-gabbie, i detenuti
dovevano compiere tragitti interminabili prima di giungere a destinazione. Se
si apparteneva alla categoria dei deportati politici la situazione era poi
ancora peggiore: questi ultimi, infatti, erano il bersaglio preferito delle
angherie dei delinquenti comuni, i quali, in combutta con le guardie con cui
successivamente spartivano il bottino, spesso li depredavano di ogni avere.
Quanto alle donne, la violenza sessuale era il minimo che potesse loro
capitare. Si capisce quindi che, in siffatte condizioni, giungere vivi al campo
di concentramento era, già di per sé, un’impresa.
Nei lager sovietici finivano soprattutto uomini (solo
durante la Seconda guerra mondiale – per via del massiccio reclutamento di
detenuti – la percentuale delle donne salì, passando dal 10 al 30% circa).
Tutti comunque vivevano in condizioni di promiscuità, con conseguenze
facilmente intuibili: violenze sessuali e prostituzione erano all’ordine del
giorno, e non infrequente era persino la formazione di coppie stabili. In
simili condizioni – scrive Giorgio Vecchio –, «per una donna era assolutamente
indispensabile avere uno o più “mariti”-“protettori”», pena la certezza
pressoché assoluta di dover prima o poi subire violenze. Ad ogni modo, date le
circostanze, i lager furono presto dotati di asili e nidi d’infanzia, dove
venivano accolti (si fa per dire) i bambini frutto di gravidanze più o meno
volute.
Il lavoro forzato assorbiva quasi l’intera giornata del
detenuto, fino anche a quindici ore, a seconda della stagione. Le condizioni di
vita erano estreme. Non va dimenticato, infatti, che nelle regioni
settentrionali della Russia (come nel bacino minerario della Kolyma) il
termometro è capace di raggiungere i
60 gradi sotto zero. E se alla durezza del clima si aggiungono la mancanza di
igiene e la malnutrizione (oltre ovviamente alle violenze delle guardie e dei
capisquadra, spesso reclutati, questi ultimi, tra i delinquenti più
pericolosi), è facile comprendere il motivo per il quale la condanna alla
deportazione equivaleva, il più delle volte, a una condanna a morte.
Per ogni squadra e ogni detenuto vigeva poi un rigido
sistema di controlli, attraverso i quali si intendeva verificare il
raggiungimento della cosiddetta norma,
ovvero della quota di produzione prefissata (per esempio un certo quantitativo
di minerale estratto o di legna tagliata). Chi non si atteneva ai livelli prestabiliti
veniva punito con la distribuzione di un rancio ridotto (laddove, di contro, si
premiavano con porzioni più consistenti i lavoratori più efficaci); ma va
precisato che, con l’esperienza, i detenuti imparavano che non valeva la pena
cedere al ricatto: le quote, infatti, erano pressoché irraggiungibili – essendo
stabilite a tavolino da funzionari di partito che, da Mosca, per lo più
ignoravano le reali condizioni di lavoro nei campi –, e il supplemento di
fatica richiesto per tentare di raggiungerle non era certo compensato da un
adeguato aumento delle razioni di cibo. Certo è però che i detenuti politici, a
causa soprattutto della connivenza delle guardie con i delinquenti comuni,
dovevano lavorare più di tutti: essi erano infatti, tra le varie categorie di
prigionieri, i più penalizzati e disprezzati.
Un simile spregio per la vita dei prigionieri pose
tuttavia all’ordine del giorno il problema della mortalità nei campi. Le
necessità economiche imposero perciò di migliorare le condizioni di vita nei
lager, col risultato che il tasso di mortalità scese dal 10% del periodo
prebellico al 5% del post-1945 (anche se nei lager più duri – in particolare
quelli di Vorkuta e della Kolyma – si raggiunsero picchi del 30%). Ma al di là
delle cifre, l’aspetto più inquietante – più ancora della morte – era la
perdita, da parte dei detenuti, della dignità umana. Quando infatti la violenza
diventa prassi, la giustizia è calpestata impunemente e l’arbitrio del più
forte assume valore di legge non scritta, viene a mancare, inesorabilmente,
ogni distinzione tra l’uomo e la bestia. Al riguardo, merita di essere letto un
brano tratto dai Racconti di Kolyma
di Salamov: «Vedere il lager è orribile e nessun uomo al mondo dovrebbe mai
conoscere un simile luogo. L’esperienza del lager è assolutamente negativa, in
ogni suo momento. Non può che peggiorare l’uomo, senza alternative. Nel lager
ci sono molte cose che l’uomo non dovrebbe mai vedere. Ma vedere il fondo più
oscuro della vita non è ancora la cosa peggiore. La cosa peggiore è quando
l’uomo comincia a sentire questo fondo oscuro – e per sempre – come parte della
propria vita, quando informa i propri criteri morali all’esperienza del lager,
quando la morale dei malavitosi viene applicata alla propria vita di “libero”.
Quando la ragione dell’uomo non si limita più a giustificare questi sentimenti
del lager, ma si è ormai messa al loro servizio […]. Ci sono svariati esempi di
questa corruzione indotta dal lager. Le frontiere morali, il confine tra bene e
male, sono molto importanti per il detenuto. Costituiscono anzi il problema
principale della sua vita. Se sia rimasto uomo, oppure no».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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