lunedì 21 luglio 2014

GULag: l’arresto, il viaggio e la vita nei campi di concentramento in URSS

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 luglio 2014)

La principale caratteristica della repressione sovietica ai tempi di Stalin fu l’assoluta arbitrarietà degli arresti. A fare la differenza tra la vita e la morte non era infatti l’accertamento di una colpa: era sufficiente un sospetto, il più delle volte pretestuoso, per essere fagocitati dal sistema GULag e deportati in Siberia o in zone fredde ed inospitali dell’Asia centrale. Chi non moriva di stenti aveva comunque il destino segnato: prigionia in condizioni disumane e lavori forzati per portare avanti il programma di industrializzazione forzata della Russia voluta dai vertici comunisti.
Scrive lo storico Giorgio Vecchio: «Si era presi nottetempo solo perché appartenenti a una certa classe sociale, a una famiglia, a un gruppo. Oppure si era catturati in pieno giorno, sul posto di lavoro, per strada, magari da quelle stesse persone con cui fino a pochi istanti prima si era conversato amichevolmente. Quello che contava era la sorpresa e lo stordimento psicologico che doveva colpire la vittima. Capitava di essere colpiti solo perché parenti di un leader politico che Stalin voleva tenere sotto controllo […]. Oppure perché si era figli di condannati e quindi si era potenzialmente vendicatori. O perché coniugi di un condannato. O perché non si era denunciato il proprio coniuge. O perché qualche gerarca desiderava la moglie di un altro. O anche solamente perché non si era ancora raggiunto il numero prefissato (!!!) di arresti da fare e quindi si mettevano le mani sui primi malcapitati».
Dopo l’arresto, il detenuto doveva subire pesanti pressioni psicologiche (minacce, ricatti, isolamento) e, assai spesso, tremende torture (i cui esempi più blandi – giusto per tacere delle violenze fisiche – consistevano nell’impedire il sonno, nel razionamento estremo del cibo, nell’investire giorno e notte il detenuto con fasci di luce abbagliante, e così via). L’obiettivo dei carcerieri era quello di indurre il prigioniero a firmare una confessione, quasi sempre inverosimile ma più che sufficiente per giustificare l’arresto. Si cercava cioè, paradossalmente, di spingere il detenuto a fornire “spontaneamente” le prove della propria colpevolezza. E, vista la durezza dei metodi utilizzati, pressoché tutti gli interrogati finivano per cedere, firmando quella che di fatto era una condanna a morte.
All’arresto seguiva direttamente la deportazione (il processo, pura formalità, consisteva il più delle volte nella semplice lettura della sentenza precedentemente stabilita), solitamente imposta secondo condanne irrogate sulla base temporale della cinquina e della decina (cinque o dieci anni di lager). Ai familiari non veniva comunicato nulla ad eccezione della durata della pena. E, visto il clima, era consigliabile non fare troppe domande.
La fase successiva, drammatica, era quella del viaggio, che avveniva nella maggior parte dei casi in treno. Stipati in carrozze in condizioni al limite della sopportabilità (si arrivava persino a ridurre al minimo l’acqua da bere, così che le guardie – sottolinea Vecchio – potevano limitarsi «ad accompagnare i prigionieri ai gabinetti una sola volta al giorno»), rinchiusi come bestie in scompartimenti-gabbie, i detenuti dovevano compiere tragitti interminabili prima di giungere a destinazione. Se si apparteneva alla categoria dei deportati politici la situazione era poi ancora peggiore: questi ultimi, infatti, erano il bersaglio preferito delle angherie dei delinquenti comuni, i quali, in combutta con le guardie con cui successivamente spartivano il bottino, spesso li depredavano di ogni avere. Quanto alle donne, la violenza sessuale era il minimo che potesse loro capitare. Si capisce quindi che, in siffatte condizioni, giungere vivi al campo di concentramento era, già di per sé, un’impresa.
Nei lager sovietici finivano soprattutto uomini (solo durante la Seconda guerra mondiale – per via del massiccio reclutamento di detenuti – la percentuale delle donne salì, passando dal 10 al 30% circa). Tutti comunque vivevano in condizioni di promiscuità, con conseguenze facilmente intuibili: violenze sessuali e prostituzione erano all’ordine del giorno, e non infrequente era persino la formazione di coppie stabili. In simili condizioni – scrive Giorgio Vecchio –, «per una donna era assolutamente indispensabile avere uno o più “mariti”-“protettori”», pena la certezza pressoché assoluta di dover prima o poi subire violenze. Ad ogni modo, date le circostanze, i lager furono presto dotati di asili e nidi d’infanzia, dove venivano accolti (si fa per dire) i bambini frutto di gravidanze più o meno volute.
Il lavoro forzato assorbiva quasi l’intera giornata del detenuto, fino anche a quindici ore, a seconda della stagione. Le condizioni di vita erano estreme. Non va dimenticato, infatti, che nelle regioni settentrionali della Russia (come nel bacino minerario della Kolyma) il termometro è capace di raggiungere i 60 gradi sotto zero. E se alla durezza del clima si aggiungono la mancanza di igiene e la malnutrizione (oltre ovviamente alle violenze delle guardie e dei capisquadra, spesso reclutati, questi ultimi, tra i delinquenti più pericolosi), è facile comprendere il motivo per il quale la condanna alla deportazione equivaleva, il più delle volte, a una condanna a morte.
Per ogni squadra e ogni detenuto vigeva poi un rigido sistema di controlli, attraverso i quali si intendeva verificare il raggiungimento della cosiddetta norma, ovvero della quota di produzione prefissata (per esempio un certo quantitativo di minerale estratto o di legna tagliata). Chi non si atteneva ai livelli prestabiliti veniva punito con la distribuzione di un rancio ridotto (laddove, di contro, si premiavano con porzioni più consistenti i lavoratori più efficaci); ma va precisato che, con l’esperienza, i detenuti imparavano che non valeva la pena cedere al ricatto: le quote, infatti, erano pressoché irraggiungibili – essendo stabilite a tavolino da funzionari di partito che, da Mosca, per lo più ignoravano le reali condizioni di lavoro nei campi –, e il supplemento di fatica richiesto per tentare di raggiungerle non era certo compensato da un adeguato aumento delle razioni di cibo. Certo è però che i detenuti politici, a causa soprattutto della connivenza delle guardie con i delinquenti comuni, dovevano lavorare più di tutti: essi erano infatti, tra le varie categorie di prigionieri, i più penalizzati e disprezzati.
Un simile spregio per la vita dei prigionieri pose tuttavia all’ordine del giorno il problema della mortalità nei campi. Le necessità economiche imposero perciò di migliorare le condizioni di vita nei lager, col risultato che il tasso di mortalità scese dal 10% del periodo prebellico al 5% del post-1945 (anche se nei lager più duri – in particolare quelli di Vorkuta e della Kolyma – si raggiunsero picchi del 30%). Ma al di là delle cifre, l’aspetto più inquietante – più ancora della morte – era la perdita, da parte dei detenuti, della dignità umana. Quando infatti la violenza diventa prassi, la giustizia è calpestata impunemente e l’arbitrio del più forte assume valore di legge non scritta, viene a mancare, inesorabilmente, ogni distinzione tra l’uomo e la bestia. Al riguardo, merita di essere letto un brano tratto dai Racconti di Kolyma di Salamov: «Vedere il lager è orribile e nessun uomo al mondo dovrebbe mai conoscere un simile luogo. L’esperienza del lager è assolutamente negativa, in ogni suo momento. Non può che peggiorare l’uomo, senza alternative. Nel lager ci sono molte cose che l’uomo non dovrebbe mai vedere. Ma vedere il fondo più oscuro della vita non è ancora la cosa peggiore. La cosa peggiore è quando l’uomo comincia a sentire questo fondo oscuro – e per sempre – come parte della propria vita, quando informa i propri criteri morali all’esperienza del lager, quando la morale dei malavitosi viene applicata alla propria vita di “libero”. Quando la ragione dell’uomo non si limita più a giustificare questi sentimenti del lager, ma si è ormai messa al loro servizio […]. Ci sono svariati esempi di questa corruzione indotta dal lager. Le frontiere morali, il confine tra bene e male, sono molto importanti per il detenuto. Costituiscono anzi il problema principale della sua vita. Se sia rimasto uomo, oppure no».

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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