martedì 22 luglio 2014

Auschwitz, la «fabbrica della morte» divenuta simbolo della malvagità umana

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 luglio 2014)

«Caricati su un camion attraversammo una Milano deserta e, arrivati alla stazione Centrale, nei sotterranei trovammo pronto per noi un treno merci. A calci, pugni e bastonate in pochi minuti tutti eravamo stati rinchiusi nei vagoni: i nazisti, aiutati dai loro cani e dai loro servi repubblichini, avevano fatto in fretta il loro lavoro! Nel vagone, stipato di un’umanità dolente e disperata, un secchio per gli escrementi e un po’ di paglia in terra, né luce, né acqua. Il viaggio durò una settimana. Stavamo per terra, appoggiati alla parete e dopo tanti pianti scese un gran silenzio su tutti noi condannati e si sentì solo il rumore delle ruote che implacabilmente ci allontanavano dalle nostre case, verso una ignota destinazione. Furono gli ultimi giorni della mia vita con papà».
Con queste parole Liliana Segre ha raccontato le drammatiche fasi del viaggio verso Auschwitz che, a soli quattordici anni, fu costretta a compiere insieme con il padre. Il suo caso, per il semplice fatto che ne è uscita viva, costituisce un’eccezione: secondo quanto scrive lo studioso della Shoah Andrea Villa, infatti, «tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 partirono dall’Italia venti convogli ferroviari che trasportarono ad Auschwitz-Birkenau 8.566 ebrei; di questi ne morirono 7.557». Ma come si arrivò a tutto questo? Cos’è stato di preciso Auschwitz?
Berlino, conferenza di Wannsee, 20 gennaio 1942: Reinhard Heydrich, nominato l’anno precedente plenipotenziario per la preparazione della cosiddetta «soluzione finale», comunicò la decisione di dare avvio alla massiccia deportazione verso est degli ebrei residenti nell’area sottoposta al controllo delle armate germaniche. Nei fatti, si trattò di una svolta, anche se in realtà lo sterminio era stato pianificato già anni prima (come prova il fatto che la costruzione del lager di Auschwitz – che fu il principale complesso concentrazionario individuato per portare a termine il progetto di sistematica eliminazione fisica degli ebrei – ebbe inizio nel 1940).
Auschwitz (nome germanizzato della cittadina polacca Oswiecim) fu scelto perché offriva essenzialmente due grossi vantaggi logistici: si trovava in una regione a bassa densità di popolazione e, soprattutto, era ben collegato al resto del Reich tramite un’efficiente rete ferroviaria. Inizialmente il campo era costituito da ventuno vecchie caserme, che furono recintate e circondate da torrette di guardia al fine di accogliere partigiani e oppositori polacchi. Successivamente, a partire dal luglio 1941, il lager fu adottato come sede di un tribunale della Gestapo incaricato di infliggere condanne a morte ai prigionieri russi sospettati di essere commissari politici comunisti: e, in questa fase, la sua capienza aumentò (fino a circa ventimila internati) per poter contenere sempre più manodopera da sfruttare per il lavoro nelle fabbriche sorte nei pressi dello smistamento ferroviario poco distante dal campo.
Appena tre mesi dopo le SS iniziarono le sperimentazioni del gas tossico Zyklon B, sino ad allora utilizzato per la disinfestazione di baracche ed indumenti. A farne le spese furono circa 600 soldati russi e 250 malati terminali. Heinrich Himmler, il capo supremo delle SS, rimase positivamente colpito dall’efficacia della nuova tecnica (di gran lunga preferibile alle fucilazioni di massa), e diede disposizioni perché fosse costruita una propaggine di Auschwitz nel vicino villaggio di Brezinka (in tedesco Birkenau), in modo da aumentare la capienza ad oltre 200.000 internati. Si giunse così, il 25 gennaio 1942, alla decisione di utilizzare il complesso concentrazionario per la deportazione degli ebrei (e, visto il gran numero di cadaveri da smaltire, furono perfezionati i sistemi di cremazione delle vittime grazie soprattutto ai forni appositamente progettati e realizzati dalla ditta Topf di Erfurt).
Sulle drammatiche condizioni del viaggio che, in vagoni merci o in carri bestiame, gli ebrei dovevano compiere per raggiungere Auschwitz-Birkenau non occorre aggiungere molto rispetto alle citate parole della Segre: di fatto, giungere vivi a destinazione non era per niente una cosa scontata. Seguiva la fase – per certi versi la più disumana – della selezione: spogliati di tutti i beni che avevano potuto portare con sé, i deportati erano visitati sbrigativamente da medici delle SS incaricati di verificarne l’abilità al lavoro. I non idonei venivano immediatamente condotti nelle camere a gas (e la loro percentuale era generalmente del 70-80%). Scrive Andrea Villa: «Le donne incinte o con i bambini in braccio, i deboli, gli invalidi, gli anziani e gli adolescenti venivano considerati in ogni caso inabili e avviati a piedi, o su camion, verso le camere a gas (anche se era loro comunicato tramite traduttori che sarebbero stati accompagnati alla disinfestazione e alle docce). La selezione si svolgeva tra grida e pianti, mentre le persone che non volevano separarsi dalle loro famiglie cercavano di uscire dalle file ma venivano respinte violentemente dalle SS e dai Kapò (prigionieri politici o criminali comuni di lungo corso, elevati al ruolo di responsabili della disciplina interna del campo)».
La pianificazione meticolosa di ogni dettaglio in quella che è stata definita la «fabbrica dello sterminio» è quanto di più inquietante si possa immaginare. Senza dubbio, l’aspetto più terrificante è l’inganno attraverso il quale ai prigionieri veniva scrupolosamente taciuto l'imminente destino di morte. Innanzitutto, per fugare sospetti (ma anche per depistare i bombardieri anglo-americani), sui muri degli edifici di Birkenau destinati alla “gassazione” e alla cremazione era stato dipinto dalle SS il simbolo della Croce Rossa Internazionale (e la farsa, per eccesso di zelo, proseguiva con l’obbligo per gli “addetti ai lavori” di indossare camici bianchi). Prima di entrare nelle camere a gas, i deportati erano aiutati a spogliarsi completamente da uomini del Sonderkommando (squadra di prigionieri addetti al lavoro nel crematorio), ai quali era però tassativamente proibito – pena la morte – parlare con i detenuti. Sempre allo scopo di rendere credibile quella che doveva sembrare a tutti una semplice doccia, veniva chiesto alle future vittime di appendere i vestiti a ganci numerati e di tenere a mente il numero per il successivo loro recupero. Dopodiché i deportati erano condotti nel salone della gassazione – dove erano effettivamente presenti finti beccucci di docce –, e, attraverso apposite botole sul soffitto, si procedeva alla somministrazione della sostanza venefica. A questo punto le ultime operazioni sui cadaveri prevedevano l’estrazione dei denti d’oro, il taglio dei capelli (destinati a ditte che producevano tela di crine), e infine la cremazione.
Il sistema consentiva di eliminare circa 1.000-1.500 persone in trentasei ore. I pochi che venivano risparmiati erano invece destinati al lavoro coatto. Completamente rasati e marchiati sull'avambraccio con un numero di matricola (sostitutivo, dal quel momento, del nome), i detenuti – cui veniva distribuita la tristemente celebre divisa a righe – dovevano scontare un periodo detto di «quarantena», ovvero una fase di isolamento motivata sia dalla necessità di prevenire la diffusione di malattie, sia dalla volontà di “rieducare” i prigionieri, sottoponendoli alle più crudeli umiliazioni. Dopo il trasferimento nelle baracche – mal riscaldate e stipate di letti a castello –, per i deportati aveva inizio il duro lavoro nelle industrie, nei campi e nelle cave. I turni erano massacranti: sveglia alle quattro, appello, distribuzione di un misero rancio, lavoro dalle 6 alle 17 – con un’interruzione di soli trenta minuti per consumare una zuppa e, quattro giorni su sette, un po’ di carne e marmellata – e coprifuoco alle 21. Per sopravvivere (al freddo, alla malnutrizione, alle percosse) era indispensabile “arrangiarsi”, ovvero procurarsi – magari grazie alla conoscenza del tedesco – pane e vestiti pesanti. Per chi si ammalava, infatti, la sorte era segnata: condotti nell’ospedale del campo, i detenuti in cattiva salute erano utilizzati come cavie umane per condurre esperimenti (celebre, al riguardo, è il caso del dottor Mengele).
Auschwitz fu abbandonato a partire dal 20 gennaio 1945, per sfuggire all’avanzata sovietica. Nei giorni seguenti circa 58.000 prigionieri furono costretti ad intraprendere le cosiddette «marce della morte» verso ovest: lunghe colonne umane vennero fatte avanzare nella neve in direzione del nodo ferroviario di Gliwice, dove i superstiti furono caricati su treni merci diretti ai campi di concentramento di Buchenwald, Sachsenhausen e Ravensbruck. Per tentare di nascondere al mondo le proprie atrocità, le SS rimaste ad Auschwitz appiccarono il fuoco alle parti più compromettenti della struttura (in particolare i forni e il settore «Canada» – così nominato per evocare la presunta enorme ricchezza di quel paese –, dove erano conservati i beni sottratti alle vittime).
Il 27 gennaio i russi fecero il loro ingresso nel lager. Vi trovarono circa 7.000 prigionieri (abbandonati dalle SS perché ritenuti non in grado di sopravvivere alla marcia), in condizioni di salute drammatiche. In totale è stato calcolato che ad Auschwitz, in appena quattro anni, furono sterminate oltre un milione di persone.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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