(articolo apparso su Prima Pagina del 6 luglio 2014)
Anche se ormai, nel vocabolario
comune, è diventata sinonimo di campo di concentramento sovietico, la parola
GULag indicava, in origine, una sigla, ovvero Glavnoie Upravlenie Lagerej
(Amministrazione Centrale dei Campi). Con essa ci si riferiva pertanto ad uno
specifico ente statale preposto alla gestione del sistema di detenzione forzata
in URSS. Solo in seguito la sigla venne utilizzata per definire il complesso
dei campi di lavoro vero e proprio.
Il ricorso alle deportazioni di massa
non fu un'invenzione sovietica, essendo una pratica ampiamente diffusa già in
epoca zarista. Secondo una legge del 1736, infatti, per decretare una condanna
all'esilio forzato in Siberia era sufficiente che un soggetto esercitasse una
«cattiva influenza». La carcerazione prevedeva inoltre i lavori forzati,
giacché i campi avevano una non secondaria finalità economica. Le dure
condizioni di detenzione migliorarono leggermente nei primi anni del XX secolo,
in coincidenza con i timidi progetti di modernizzazione della Russia
contemplati in quel periodo dalla politica zarista, per poi peggiorare
drasticamente in seguito alla rivoluzione bolscevica.
Fu Lenin in persona – convinto che
occorresse «purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi» – a
pretendere, nel 1918, che i semplici «sospetti» (non i colpevoli provati)
fossero rinchiusi in apposite strutture lontane dalle città: e il governo fu
così solerte nell'accontentarlo che appena tre anni dopo il loro numero
ammontava già a 84 unità. La gestione di questi campi – nei quali era previsto
il «lavoro fisico obbligatorio» di tutti i detenuti – fu affidata dapprima a
più enti, tra cui la ČEKA (Commissione straordinaria per la lotta alla
controrivoluzione e al sabotaggio). Questa nel 1922 fu riorganizzata nella GPU
(Amministrazione Politica Centrale) e, l'anno successivo, nella OGPU
(Amministrazione Politica Statale Unificata). In totale, nel 1927 il numero dei
detenuti sfiorava le 200.000 unità (dato grosso modo equivalente a quello della
Russia zarista nel 1912).
La svolta si ebbe con l'avvento di
Stalin, e il 1929 fu l'anno decisivo: in ottemperanza ai piani di
industrializzazione forzata predisposti dal dittatore georgiano, i massimi
dirigenti sovietici stabilirono di intensificare lo sfruttamento del lavoro
forzato dei prigionieri nelle regioni del nord. Seguì, l'anno seguente, la
riorganizzazione del dipartimento
dell'OGPU competente in materia di campi e la conseguente nascita del GULag.
Infine, nel 1934, la stessa OGPU fu trasformata nell'NKVD (Commissariato del
popolo agli Affari Interni), il padre del più celebre KGB. Quella degli anni
Trenta fu un'autentica svolta poiché a quel periodo – una volta varato il piano
di collettivizzazione forzata della terra – risale la prima grande ondata di
deportazioni dei kulaki (i contadini piccoli proprietari): nel solo biennio
1930-31 furono inviate nei campi 1.800.000 persone. Si trattò della prima cosiddetta
"fiumana" (ovvero la deportazione di una precisa categoria sociale),
ma certo non dell'unica: per via dell'ossessione di Stalin – che vedeva
traditori un po' ovunque –, interi gruppi di persone (come i dirigenti
comunisti nel 1937-38, le etnie poco "affidabili" e i reduci dalla
prigionia di guerra nel 1944-46; e poi ancora i trockijsti, i tecnici –
accusati, con i loro calcoli scientifici, di frenare l'avanzata industriale del
paese fissata sulla carta dal partito – e i presunti sabotatori – magari
semplici operai che non riuscivano a raggiungere le quote di produzione
prestabilite) furono letteralmente spazzati via dalla repressione sovietica. Fu
così che nei bacini minerari di Vorkuta e della Kolyma – dove sorgevano
numerosi campi – fu inviato, di fatto, un esercito di manodopera servile, nel
quadro della grande politica dei lavori pubblici finalizzata alla costruzione
di canali e ferrovie.
Altro anno decisivo nella storia del
GULag fu il 1937, che coincise con l'inizio del cosiddetto terrore staliniano.
Il dittatore dispose infatti, a partire da quella data, che si rispettassero
delle precise quote di deportazione (da lui precedentemente fissate): si
stabilirono persino delle categorie, in base alle quali per i singoli detenuti
era prevista l'immediata pena di morte (il che, già di per sé, fu una novità,
dal momento che fino ad allora i decessi nei campi erano stati provocati più
che altro dalle dure condizioni di vita) o la semplice carcerazione. Di fatto,
la repressione non risparmiò nessuno, nemmeno le più alte cariche. Volendo fare
due nomi, nel biennio 1938-39 furono fucilati il capo dell'NKVD Genrih Jagoda –
che fu sostituito da Nikolaj Ežov – e colui che era stato il capo del GULag
sino al 1937, Matvej Berman.
Gli anni 1937-38 sono tristemente
passati alla storia come quelli delle cosiddette grandi purghe. Secondo le
stime sovietiche del 1953 (l'anno della morte di Stalin), solo in quel biennio
furono arrestate circa 1.600.000 persone, 680.000 delle quali furono in seguito
giustiziate. Tuttavia, come precisa Andrea Graziosi in un suo recente studio
sull'URSS, «la cifra non tiene [...] conto di quelle morte sotto tortura o
eliminate "illegalmente" nei campi e nelle prigioni, ed è perciò
ragionevole presumere che i morti furono di più, almeno 750 mila». Se si presta
fede, invece, al calcolo dello storico britannico Robert Conquest – autore di
un corposo volume sul grande terrore, ormai divenuto un classico della
storiografia –, il numero dei decessi sale a «1 milione circa».
Un aspetto tristemente singolare di
questa vertiginosa impennata delle esecuzioni è legato all'abbandono della
politica rieducativa: a partire dal 1937 cessò infatti ogni forma di pubblicizzazione
del sistema dei campi, che in precedenza, invece, era stato in più occasioni apertamente
elogiato per il suo (presunto) elevato valore sociale. E, a riprova del fatto
che quella della repressione era ormai divenuta l'esigenza primaria, i lager
furono persino cancellati dalle carte geografiche.
L'ovvia conseguenza del terrore fu però
un drastico calo della produttività dei campi. A questo inconveniente intese
porre rimedio il successore di Ežov (fucilato nel 1940), Lavrentij Berija, il
quale stabilì che – cessate le fucilazioni di massa – il GULag dovesse
diventare il fulcro dell'economia sovietica. Fu così dato l'ordine di
utilizzare i prigionieri in funzione delle loro capacità professionali e,
soprattutto, di organizzare officine e laboratori. Il risultato fu notevole, al
punto che – come rileva Giorgio Vecchio – alla vigilia della guerra era già
possibile parlare di un «complesso industriale carcerario» che incorporava
«ogni tipo di attività: costruzione di canali, strade, linee ferroviarie;
sfruttamento di miniere; taglio dei boschi e produzione di legname; agricoltura
e allevamento, lavorazione del pesce; industrie meccaniche e chimiche,
siderurgiche, cantieri edili, e così via».
Lo scoppio della Seconda guerra
mondiale ebbe profonde ripercussioni sulla politica di gestione dei campi.
Molti detenuti furono arruolati per far fronte all'emergenza bellica, ma, di
contro, nuovi deportati giunsero ad affollare i lager: si trattava dei
prigionieri arrestati dai sovietici nei territori (appartenenti alla Polonia e
ai paesi baltici) annessi all'URSS nel biennio 1939-40. Molti altri però
dovettero subire lo stesso destino nel corso della guerra: milioni di persone
appartenenti alle etnie ritenute sospette (come i tedeschi residenti nella
regione del Volga, i tatari della Crimea, gli ingusci e i ceceni) furono
confinate nei campi della Siberia e dell'Asia centrale per espresso volere di
Stalin. Singolare fu, infine, al termine del conflitto la sorte dei reduci
dalla Germania (quasi tre milioni di lavoratori civili e più di un milione di
prigionieri di guerra): essendo ritenuti poco "affidabili" per via
del loro prolungato contatto con il mondo occidentale, furono rinchiusi in
particolari "campi di filtraggio". Circa la metà di essi transitò
successivamente nel sistema GULag.
Drammatica fu altresì l'esperienza dei
circa mille italiani che in Russia persero la vita tra il 1919 e il 1951: oltre
a centinaia di emigrati che subirono la deportazione per i più svariati motivi,
ad essere fagocitati dalla macchina repressiva stalinista – per lo più con
l'accusa di trockijsmo e di bordighismo – furono anche diversi comunisti che
avevano abbandonato l'Italia fascista con la convinzione di approdare nel
paradiso dei soviet.
Solo dopo la morte di Stalin (5 marzo
1953) il sistema GULag fu riformato. In particolare, furono riesaminate le
condanne dei detenuti politici (per i quali nel 1948 erano stati creati campi
speciali, in condizioni di particolare durezza) e soppresse le Commissioni
speciali, fino ad allora investite del potere arbitrario di infliggere, senza
alcun processo, la pena della deportazione. Nel 1956, infine, con il
consolidamento al potere di Krusciov, l'amministrazione del GULag fu sciolta. Si
chiudeva così la drammatica esperienza di un'organizzazione che, per lungo
tempo, fu il cardine di un sistema repressivo-coercitivo costato la vita, nel
complesso della pluridecennale storia dell'Unione Sovietica, a circa venti
milioni di persone.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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