venerdì 11 luglio 2014

GULag: il sistema dei campi di concentramento in Unione Sovietica

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 luglio 2014)

Anche se ormai, nel vocabolario comune, è diventata sinonimo di campo di concentramento sovietico, la parola GULag indicava, in origine, una sigla, ovvero Glavnoie Upravlenie Lagerej (Amministrazione Centrale dei Campi). Con essa ci si riferiva pertanto ad uno specifico ente statale preposto alla gestione del sistema di detenzione forzata in URSS. Solo in seguito la sigla venne utilizzata per definire il complesso dei campi di lavoro vero e proprio.
Il ricorso alle deportazioni di massa non fu un'invenzione sovietica, essendo una pratica ampiamente diffusa già in epoca zarista. Secondo una legge del 1736, infatti, per decretare una condanna all'esilio forzato in Siberia era sufficiente che un soggetto esercitasse una «cattiva influenza». La carcerazione prevedeva inoltre i lavori forzati, giacché i campi avevano una non secondaria finalità economica. Le dure condizioni di detenzione migliorarono leggermente nei primi anni del XX secolo, in coincidenza con i timidi progetti di modernizzazione della Russia contemplati in quel periodo dalla politica zarista, per poi peggiorare drasticamente in seguito alla rivoluzione bolscevica.
Fu Lenin in persona – convinto che occorresse «purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi» – a pretendere, nel 1918, che i semplici «sospetti» (non i colpevoli provati) fossero rinchiusi in apposite strutture lontane dalle città: e il governo fu così solerte nell'accontentarlo che appena tre anni dopo il loro numero ammontava già a 84 unità. La gestione di questi campi – nei quali era previsto il «lavoro fisico obbligatorio» di tutti i detenuti – fu affidata dapprima a più enti, tra cui la ČEKA (Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio). Questa nel 1922 fu riorganizzata nella GPU (Amministrazione Politica Centrale) e, l'anno successivo, nella OGPU (Amministrazione Politica Statale Unificata). In totale, nel 1927 il numero dei detenuti sfiorava le 200.000 unità (dato grosso modo equivalente a quello della Russia zarista nel 1912).
La svolta si ebbe con l'avvento di Stalin, e il 1929 fu l'anno decisivo: in ottemperanza ai piani di industrializzazione forzata predisposti dal dittatore georgiano, i massimi dirigenti sovietici stabilirono di intensificare lo sfruttamento del lavoro forzato dei prigionieri nelle regioni del nord. Seguì, l'anno seguente, la riorganizzazione  del dipartimento dell'OGPU competente in materia di campi e la conseguente nascita del GULag. Infine, nel 1934, la stessa OGPU fu trasformata nell'NKVD (Commissariato del popolo agli Affari Interni), il padre del più celebre KGB. Quella degli anni Trenta fu un'autentica svolta poiché a quel periodo – una volta varato il piano di collettivizzazione forzata della terra – risale la prima grande ondata di deportazioni dei kulaki (i contadini piccoli proprietari): nel solo biennio 1930-31 furono inviate nei campi 1.800.000 persone. Si trattò della prima cosiddetta "fiumana" (ovvero la deportazione di una precisa categoria sociale), ma certo non dell'unica: per via dell'ossessione di Stalin – che vedeva traditori un po' ovunque –, interi gruppi di persone (come i dirigenti comunisti nel 1937-38, le etnie poco "affidabili" e i reduci dalla prigionia di guerra nel 1944-46; e poi ancora i trockijsti, i tecnici – accusati, con i loro calcoli scientifici, di frenare l'avanzata industriale del paese fissata sulla carta dal partito – e i presunti sabotatori – magari semplici operai che non riuscivano a raggiungere le quote di produzione prestabilite) furono letteralmente spazzati via dalla repressione sovietica. Fu così che nei bacini minerari di Vorkuta e della Kolyma – dove sorgevano numerosi campi – fu inviato, di fatto, un esercito di manodopera servile, nel quadro della grande politica dei lavori pubblici finalizzata alla costruzione di canali e ferrovie.
Altro anno decisivo nella storia del GULag fu il 1937, che coincise con l'inizio del cosiddetto terrore staliniano. Il dittatore dispose infatti, a partire da quella data, che si rispettassero delle precise quote di deportazione (da lui precedentemente fissate): si stabilirono persino delle categorie, in base alle quali per i singoli detenuti era prevista l'immediata pena di morte (il che, già di per sé, fu una novità, dal momento che fino ad allora i decessi nei campi erano stati provocati più che altro dalle dure condizioni di vita) o la semplice carcerazione. Di fatto, la repressione non risparmiò nessuno, nemmeno le più alte cariche. Volendo fare due nomi, nel biennio 1938-39 furono fucilati il capo dell'NKVD Genrih Jagoda – che fu sostituito da Nikolaj Ežov – e colui che era stato il capo del GULag sino al 1937, Matvej Berman.
Gli anni 1937-38 sono tristemente passati alla storia come quelli delle cosiddette grandi purghe. Secondo le stime sovietiche del 1953 (l'anno della morte di Stalin), solo in quel biennio furono arrestate circa 1.600.000 persone, 680.000 delle quali furono in seguito giustiziate. Tuttavia, come precisa Andrea Graziosi in un suo recente studio sull'URSS, «la cifra non tiene [...] conto di quelle morte sotto tortura o eliminate "illegalmente" nei campi e nelle prigioni, ed è perciò ragionevole presumere che i morti furono di più, almeno 750 mila». Se si presta fede, invece, al calcolo dello storico britannico Robert Conquest – autore di un corposo volume sul grande terrore, ormai divenuto un classico della storiografia –, il numero dei decessi sale a «1 milione circa».
Un aspetto tristemente singolare di questa vertiginosa impennata delle esecuzioni è legato all'abbandono della politica rieducativa: a partire dal 1937 cessò infatti ogni forma di pubblicizzazione del sistema dei campi, che in precedenza, invece, era stato in più occasioni apertamente elogiato per il suo (presunto) elevato valore sociale. E, a riprova del fatto che quella della repressione era ormai divenuta l'esigenza primaria, i lager furono persino cancellati dalle carte geografiche.
L'ovvia conseguenza del terrore fu però un drastico calo della produttività dei campi. A questo inconveniente intese porre rimedio il successore di Ežov (fucilato nel 1940), Lavrentij Berija, il quale stabilì che – cessate le fucilazioni di massa – il GULag dovesse diventare il fulcro dell'economia sovietica. Fu così dato l'ordine di utilizzare i prigionieri in funzione delle loro capacità professionali e, soprattutto, di organizzare officine e laboratori. Il risultato fu notevole, al punto che – come rileva Giorgio Vecchio – alla vigilia della guerra era già possibile parlare di un «complesso industriale carcerario» che incorporava «ogni tipo di attività: costruzione di canali, strade, linee ferroviarie; sfruttamento di miniere; taglio dei boschi e produzione di legname; agricoltura e allevamento, lavorazione del pesce; industrie meccaniche e chimiche, siderurgiche, cantieri edili, e così via».
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale ebbe profonde ripercussioni sulla politica di gestione dei campi. Molti detenuti furono arruolati per far fronte all'emergenza bellica, ma, di contro, nuovi deportati giunsero ad affollare i lager: si trattava dei prigionieri arrestati dai sovietici nei territori (appartenenti alla Polonia e ai paesi baltici) annessi all'URSS nel biennio 1939-40. Molti altri però dovettero subire lo stesso destino nel corso della guerra: milioni di persone appartenenti alle etnie ritenute sospette (come i tedeschi residenti nella regione del Volga, i tatari della Crimea, gli ingusci e i ceceni) furono confinate nei campi della Siberia e dell'Asia centrale per espresso volere di Stalin. Singolare fu, infine, al termine del conflitto la sorte dei reduci dalla Germania (quasi tre milioni di lavoratori civili e più di un milione di prigionieri di guerra): essendo ritenuti poco "affidabili" per via del loro prolungato contatto con il mondo occidentale, furono rinchiusi in particolari "campi di filtraggio". Circa la metà di essi transitò successivamente nel sistema GULag.
Drammatica fu altresì l'esperienza dei circa mille italiani che in Russia persero la vita tra il 1919 e il 1951: oltre a centinaia di emigrati che subirono la deportazione per i più svariati motivi, ad essere fagocitati dalla macchina repressiva stalinista – per lo più con l'accusa di trockijsmo e di bordighismo – furono anche diversi comunisti che avevano abbandonato l'Italia fascista con la convinzione di approdare nel paradiso dei soviet.
Solo dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953) il sistema GULag fu riformato. In particolare, furono riesaminate le condanne dei detenuti politici (per i quali nel 1948 erano stati creati campi speciali, in condizioni di particolare durezza) e soppresse le Commissioni speciali, fino ad allora investite del potere arbitrario di infliggere, senza alcun processo, la pena della deportazione. Nel 1956, infine, con il consolidamento al potere di Krusciov, l'amministrazione del GULag fu sciolta. Si chiudeva così la drammatica esperienza di un'organizzazione che, per lungo tempo, fu il cardine di un sistema repressivo-coercitivo costato la vita, nel complesso della pluridecennale storia dell'Unione Sovietica, a circa venti milioni di persone.

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