lunedì 28 luglio 2014

Lunga vita a Che Guevara, ma non ai guevariani!

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 luglio 2014)

Esprimere un giudizio obiettivo su Ernesto Che Guevara richiede uno sforzo non indifferente, poiché – in un modo o nell’altro – è sempre forte il rischio di subire il fascino che promana dalla sua persona. Il problema, si badi, non è quello di mettere in risalto questo o quell’aspetto del suo carattere o delle sue azioni; e nemmeno quello di restituire il vero Guevara alla storia, sottraendolo alla leggenda. Ciò che rende delicata ogni riflessione che abbia per oggetto il rivoluzionario di Rosario è il timore di compromettere la credibilità di un’icona che è universalmente considerata sinonimo di valori nei quali ogni testa pensante è obbligata a riconoscersi. Valori (tutti riconducibili all’altruismo, all’ardente volontà di sacrificare se stessi per una causa) che Guevara, pur con i suoi limiti, ha indubbiamente incarnato e a cui – ancora oggi – continua a prestare un volto; valori che molti temono potrebbero essere messi in discussione insieme con il loro alfiere se al Comandante col basco fossero sostituiti i panni dell’eroe senza macchia con quelli di un più semplice guerrigliero rivoluzionario. E allora è lecito chiedersi: conviene sul serio percorrere questa strada irta di ostacoli?
Il punto debole di questo ragionamento è racchiuso in una semplice constatazione: Che Guevara è un mito positivo per la nostra società solo a patto di non travisarlo. Di nuovo, non si tratta di condannarne gli errori, l’ingenuità e nemmeno una certa innegabile propensione al fanatismo ideologico, bensì di stabilire se tutto ciò che è connesso alla sua icona sia “spendibile”, a beneficio di tutti, per un futuro migliore. Il che equivale, di fatto, a porsi un’altra, duplice domanda: quali sono i valori di chi inneggia al rivoluzionario argentino? E, soprattutto, in che misura essi coincidono con quelli per i quali Guevara ha sacrificato la vita?
Ripercorriamo, brevemente, la vita del Che. Figlio di una coppia mediamente benestante, poco più che ventenne si separa dalla famiglia per intraprendere un lungo viaggio (in sella ad una sgangherata motocicletta) un po’ lungo tutta l’America latina. È in cerca di se stesso, studia medicina nei ritagli di tempo e si dedica con passione ad opere di volontariato, in particolare prestando cure ai lebbrosi. Soffre d’asma (un male che lo affliggerà per tutta la vita), ma non se ne cura più di tanto.
Rientrato in Argentina, Guevara consegue la laurea in medicina. La vita sedentaria, però, non fa per lui, e quindi riparte per un lungo viaggio in Sud America, alla ricerca di nuovi stimoli. Le peregrinazioni offrono altresì l’occasione di toccare con mano la miseria e la sopraffazione cui sono soggetti i ceti popolari, e di maturare la convinzione che l’imperialismo statunitense avrebbe costantemente avversato qualsiasi tentativo volto ad abbattere i governi autoritari del continente latinoamericano. Risale a questo periodo l’incontro con il manipolo di esuli cubani facenti capo a Fidel Castro, i quali – oltre a coniare per lui il celebre appellativo «Che», prendendo spunto da un’interiezione equivalente, grosso modo, all’italiano «ehi» – lo assoldano in vista dell’imminente sbarco a Cuba, finalizzato a spodestare il dittatore dell’isola, Batista.
Da qui in avanti la storia è nota: capeggiato da Castro, il Movimento 26 luglio (cosiddetto in ricordo della data dell’assalto alla Caserma Moncada, episodio che nel 1953 inaugura la rivoluzione cubana) riesce nell’impresa di conquistare il potere, grazie soprattutto al deciso appoggio della popolazione contadina locale. Guevara, che durante le fasi di guerriglia dà prova di grande coraggio (ma anche di intransigenza: un guerrigliero della sua unità, colpevole di aver sottratto un po’ di cibo, viene immediatamente fucilato), riveste in rapida successione importanti incarichi diplomatici (in pratica diviene ambasciatore della rivoluzione cubana nel mondo) e di governo. Dapprima è a capo dell’Istituto nazionale per la riforma agraria (lo smantellamento dei latifondi e la distribuzione della terra ai contadini sono il suo principale cruccio); poi è nominato presidente della Banca nazionale di Cuba e, successivamente, Ministro dell’industria.
Nel frattempo, passando attraverso un doppio grave incidente diplomatico con gli USA (dall’invasione della Baia dei Porci alla crisi dei missili), la rivoluzione si consolida, grazie soprattutto all’appoggio dell’Unione Sovietica di Krusciov. Ma, proprio perché si sente un rivoluzionario e non un uomo di governo, Guevara ritiene conclusa la propria esperienza a Cuba. «Altre terre del mondo richiedono il concorso dei miei sforzi», scrive a Castro il 31 marzo 1965. Ha in mente il Congo (a suo dire, l’anello debole dell’imperialismo), dove spera di ripetere il successo del Movimento 26 luglio. Ma, in questa circostanza, fallisce, anche perché non si ripete il miracolo di qualche anno prima: la popolazione infatti non segue i ribelli, e il Che è costretto ad ammettere l’impossibilità di «liberare da soli un Paese che non vuole combattere».
Guevara però non demorde, e sul finire del 1966 è già in Bolivia per un nuovo tentativo insurrezionale. Tentativo che, tuttavia, gli risulta fatale: l’8 ottobre 1967 viene infatti catturato dall’esercito regolare (coadiuvato da agenti della CIA) e, il giorno seguente, giustiziato. Ha appena trentanove anni.
Di Che Guevara ha scritto il suo biografo Jorge Castaneda: «Da quando, ragazzo, giocava a rugby a Cordoba fino al giorno della sua esecuzione nella foresta della Bolivia, egli si attenne sempre allo stesso presupposto: basta volere fermamente una cosa per farla accadere». Poche parole che svelano il segreto del suo successo: una forza di volontà mai doma, anche a costo del sacrificio della vita. Perché non si rinuncia alla gloria e al potere per inseguire un sogno rivoluzionario, se non si è altruisti, se non si è animati da un profondo, pressoché invincibile, senso del dovere. Il Che indubbiamente credeva in quello che faceva: il suo anelito di libertà per le popolazioni oppresse era sincero, nobile. E non si può certo affermare che lo sfruttamento capitalistico del Terzo Mondo e le ingiustizie sociali non fossero motivi validi per imbracciare il fucile.
Ci sono, va detto, anche delle ombre nella carriera politica del Comandante. Il Libro nero del comunismo evidenzia che, quando si tennero i processi per crimini di guerra contro i dissidenti batistiani (ma anche contro dissidenti tout court) all’indomani della vittoria della rivoluzione, il Che – che era stato nominato procuratore ed era incaricato di esaminare le richieste di appello – negò sistematicamente la grazia ai condannati. Secondo alcune stime – accreditate, tra gli altri, da Alvaro Vargas Llosa, figlio del più celebre Mario, Nobel per la letteratura nel 2010 –, i giustiziati furono circa duecento.
Sempre il Libro nero del comunismo sottolinea che fu Guevara ad inaugurare, nel 1960, il primo campo di concentramento castrista. Il che è confermato dalla testimonianza di Régis Debray – che fu con il Che in Bolivia –, secondo cui «è stato lui e non Fidel a ideare [...], sulla penisola del Guanaha, il primo “campo di lavoro correzionale” (noi diremmo lavoro forzato)».
E quindi? Ce n’è abbastanza per demolire un mito, o si tratta di danni collaterali inevitabili, un po’ come accade in ogni rivoluzione che si rispetti? Ancora una volta, non è questo il punto. Guevara non era un santo, ma è innegabile che sia un simbolo, oggi forse – per la verità – un tantino sbiadito. Simbolo – certo – di un’epoca ben precisa, giacché è difficile immaginare Guevara senza la contestazione studentesca; ma proprio per questo ancor più significativo, in quanto icona di una generazione che diventa essa stessa personaggio storico. Fare i conti con il Che significa, in altre parole, dover prendere atto del suo fascino, senza pretendere di negarlo in nome di un pregiudizio ideologico-culturale.
Questa premessa è d’obbligo allorché si tenti di esprimere un giudizio serio sul Che. Si parta dunque dalla constatazione dell’universalità del suo mito (e di universalità è bene parlare, poiché – non tutti lo sanno – il Comandante è un’icona anche di alcune frange della destra militante), per riconoscere che c’è del buono nell’immagine di un uomo pronto a tutto pur di raggiungere un obiettivo. Poi si giudichi quest’obiettivo: frutto – d’accordo – di un’ingenuità alla Don Chisciotte (e che dire allora di Garibaldi, o di Mazzini? Altri miti da buttare?), ma l’emancipazione – dal basso, cioè per volontà del popolo oppresso – del Terzo Mondo non è certo un progetto da censurare. Quindi si valutino le conseguenze delle sue azioni: e qui si può essere critici, giacché Guevara, nel caso di Cuba, contribuì ad instaurare un regime equiparabile a quelli contro i quali combatté per tutta la vita. Ma va anche detto che un conto è Castro («Il potere non mi interessa. Dopo la vittoria voglio tornare nel mio paese e riprendere il mio lavoro di avvocato», aveva detto nel 1957. Chiara la differenza?), diverso è il caso del Che. Infine, messo da parte Guevara, si considerino gli ideali dei guevariani. Ed è qui che è possibile affondare il colpo più duro. Per molti sessantottini il Che fu sinonimo di ribellione fine a se stessa. Ribellione opportunistica, disgiunta da ogni forma di sacrificio o di merito; e rifiuto di ogni regola, perché tutto ciò che era proibito era fascista. Come ha scritto Marcello Veneziani, il Sessantotto di chi inneggiava al Comandante «produsse nel tempo un cambiamento nella sinistra, passata da una versione proletaria, classista, fortemente imperniata sulla giustizia sociale, ad una sinistra radical-borghese, imperniata sulla liberazione e sui diritti civili, che non difende gli oppressi ma libera i repressi». E oggi? Oggi il mondo occidentale somiglia molto ad un paese dei balocchi per ipocriti. Guevara spopola su cappellini e magliette, ma guai a parlare di sacrificio, di rispetto delle regole, di studio, di punizioni. Chissà cosa penserebbe il Che – lui che, per dare il buon esempio, si metteva pazientemente in fila alla mensa del ministero con in mano una scodella d’alluminio – dei guevariani del Duemila che la fila, perché no con un bel paio di Nike ai piedi, la fanno volentieri per accaparrarsi l’ultima versione dell’iPhone!

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martedì 22 luglio 2014

Auschwitz, la «fabbrica della morte» divenuta simbolo della malvagità umana

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 luglio 2014)

«Caricati su un camion attraversammo una Milano deserta e, arrivati alla stazione Centrale, nei sotterranei trovammo pronto per noi un treno merci. A calci, pugni e bastonate in pochi minuti tutti eravamo stati rinchiusi nei vagoni: i nazisti, aiutati dai loro cani e dai loro servi repubblichini, avevano fatto in fretta il loro lavoro! Nel vagone, stipato di un’umanità dolente e disperata, un secchio per gli escrementi e un po’ di paglia in terra, né luce, né acqua. Il viaggio durò una settimana. Stavamo per terra, appoggiati alla parete e dopo tanti pianti scese un gran silenzio su tutti noi condannati e si sentì solo il rumore delle ruote che implacabilmente ci allontanavano dalle nostre case, verso una ignota destinazione. Furono gli ultimi giorni della mia vita con papà».
Con queste parole Liliana Segre ha raccontato le drammatiche fasi del viaggio verso Auschwitz che, a soli quattordici anni, fu costretta a compiere insieme con il padre. Il suo caso, per il semplice fatto che ne è uscita viva, costituisce un’eccezione: secondo quanto scrive lo studioso della Shoah Andrea Villa, infatti, «tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 partirono dall’Italia venti convogli ferroviari che trasportarono ad Auschwitz-Birkenau 8.566 ebrei; di questi ne morirono 7.557». Ma come si arrivò a tutto questo? Cos’è stato di preciso Auschwitz?
Berlino, conferenza di Wannsee, 20 gennaio 1942: Reinhard Heydrich, nominato l’anno precedente plenipotenziario per la preparazione della cosiddetta «soluzione finale», comunicò la decisione di dare avvio alla massiccia deportazione verso est degli ebrei residenti nell’area sottoposta al controllo delle armate germaniche. Nei fatti, si trattò di una svolta, anche se in realtà lo sterminio era stato pianificato già anni prima (come prova il fatto che la costruzione del lager di Auschwitz – che fu il principale complesso concentrazionario individuato per portare a termine il progetto di sistematica eliminazione fisica degli ebrei – ebbe inizio nel 1940).
Auschwitz (nome germanizzato della cittadina polacca Oswiecim) fu scelto perché offriva essenzialmente due grossi vantaggi logistici: si trovava in una regione a bassa densità di popolazione e, soprattutto, era ben collegato al resto del Reich tramite un’efficiente rete ferroviaria. Inizialmente il campo era costituito da ventuno vecchie caserme, che furono recintate e circondate da torrette di guardia al fine di accogliere partigiani e oppositori polacchi. Successivamente, a partire dal luglio 1941, il lager fu adottato come sede di un tribunale della Gestapo incaricato di infliggere condanne a morte ai prigionieri russi sospettati di essere commissari politici comunisti: e, in questa fase, la sua capienza aumentò (fino a circa ventimila internati) per poter contenere sempre più manodopera da sfruttare per il lavoro nelle fabbriche sorte nei pressi dello smistamento ferroviario poco distante dal campo.
Appena tre mesi dopo le SS iniziarono le sperimentazioni del gas tossico Zyklon B, sino ad allora utilizzato per la disinfestazione di baracche ed indumenti. A farne le spese furono circa 600 soldati russi e 250 malati terminali. Heinrich Himmler, il capo supremo delle SS, rimase positivamente colpito dall’efficacia della nuova tecnica (di gran lunga preferibile alle fucilazioni di massa), e diede disposizioni perché fosse costruita una propaggine di Auschwitz nel vicino villaggio di Brezinka (in tedesco Birkenau), in modo da aumentare la capienza ad oltre 200.000 internati. Si giunse così, il 25 gennaio 1942, alla decisione di utilizzare il complesso concentrazionario per la deportazione degli ebrei (e, visto il gran numero di cadaveri da smaltire, furono perfezionati i sistemi di cremazione delle vittime grazie soprattutto ai forni appositamente progettati e realizzati dalla ditta Topf di Erfurt).
Sulle drammatiche condizioni del viaggio che, in vagoni merci o in carri bestiame, gli ebrei dovevano compiere per raggiungere Auschwitz-Birkenau non occorre aggiungere molto rispetto alle citate parole della Segre: di fatto, giungere vivi a destinazione non era per niente una cosa scontata. Seguiva la fase – per certi versi la più disumana – della selezione: spogliati di tutti i beni che avevano potuto portare con sé, i deportati erano visitati sbrigativamente da medici delle SS incaricati di verificarne l’abilità al lavoro. I non idonei venivano immediatamente condotti nelle camere a gas (e la loro percentuale era generalmente del 70-80%). Scrive Andrea Villa: «Le donne incinte o con i bambini in braccio, i deboli, gli invalidi, gli anziani e gli adolescenti venivano considerati in ogni caso inabili e avviati a piedi, o su camion, verso le camere a gas (anche se era loro comunicato tramite traduttori che sarebbero stati accompagnati alla disinfestazione e alle docce). La selezione si svolgeva tra grida e pianti, mentre le persone che non volevano separarsi dalle loro famiglie cercavano di uscire dalle file ma venivano respinte violentemente dalle SS e dai Kapò (prigionieri politici o criminali comuni di lungo corso, elevati al ruolo di responsabili della disciplina interna del campo)».
La pianificazione meticolosa di ogni dettaglio in quella che è stata definita la «fabbrica dello sterminio» è quanto di più inquietante si possa immaginare. Senza dubbio, l’aspetto più terrificante è l’inganno attraverso il quale ai prigionieri veniva scrupolosamente taciuto l'imminente destino di morte. Innanzitutto, per fugare sospetti (ma anche per depistare i bombardieri anglo-americani), sui muri degli edifici di Birkenau destinati alla “gassazione” e alla cremazione era stato dipinto dalle SS il simbolo della Croce Rossa Internazionale (e la farsa, per eccesso di zelo, proseguiva con l’obbligo per gli “addetti ai lavori” di indossare camici bianchi). Prima di entrare nelle camere a gas, i deportati erano aiutati a spogliarsi completamente da uomini del Sonderkommando (squadra di prigionieri addetti al lavoro nel crematorio), ai quali era però tassativamente proibito – pena la morte – parlare con i detenuti. Sempre allo scopo di rendere credibile quella che doveva sembrare a tutti una semplice doccia, veniva chiesto alle future vittime di appendere i vestiti a ganci numerati e di tenere a mente il numero per il successivo loro recupero. Dopodiché i deportati erano condotti nel salone della gassazione – dove erano effettivamente presenti finti beccucci di docce –, e, attraverso apposite botole sul soffitto, si procedeva alla somministrazione della sostanza venefica. A questo punto le ultime operazioni sui cadaveri prevedevano l’estrazione dei denti d’oro, il taglio dei capelli (destinati a ditte che producevano tela di crine), e infine la cremazione.
Il sistema consentiva di eliminare circa 1.000-1.500 persone in trentasei ore. I pochi che venivano risparmiati erano invece destinati al lavoro coatto. Completamente rasati e marchiati sull'avambraccio con un numero di matricola (sostitutivo, dal quel momento, del nome), i detenuti – cui veniva distribuita la tristemente celebre divisa a righe – dovevano scontare un periodo detto di «quarantena», ovvero una fase di isolamento motivata sia dalla necessità di prevenire la diffusione di malattie, sia dalla volontà di “rieducare” i prigionieri, sottoponendoli alle più crudeli umiliazioni. Dopo il trasferimento nelle baracche – mal riscaldate e stipate di letti a castello –, per i deportati aveva inizio il duro lavoro nelle industrie, nei campi e nelle cave. I turni erano massacranti: sveglia alle quattro, appello, distribuzione di un misero rancio, lavoro dalle 6 alle 17 – con un’interruzione di soli trenta minuti per consumare una zuppa e, quattro giorni su sette, un po’ di carne e marmellata – e coprifuoco alle 21. Per sopravvivere (al freddo, alla malnutrizione, alle percosse) era indispensabile “arrangiarsi”, ovvero procurarsi – magari grazie alla conoscenza del tedesco – pane e vestiti pesanti. Per chi si ammalava, infatti, la sorte era segnata: condotti nell’ospedale del campo, i detenuti in cattiva salute erano utilizzati come cavie umane per condurre esperimenti (celebre, al riguardo, è il caso del dottor Mengele).
Auschwitz fu abbandonato a partire dal 20 gennaio 1945, per sfuggire all’avanzata sovietica. Nei giorni seguenti circa 58.000 prigionieri furono costretti ad intraprendere le cosiddette «marce della morte» verso ovest: lunghe colonne umane vennero fatte avanzare nella neve in direzione del nodo ferroviario di Gliwice, dove i superstiti furono caricati su treni merci diretti ai campi di concentramento di Buchenwald, Sachsenhausen e Ravensbruck. Per tentare di nascondere al mondo le proprie atrocità, le SS rimaste ad Auschwitz appiccarono il fuoco alle parti più compromettenti della struttura (in particolare i forni e il settore «Canada» – così nominato per evocare la presunta enorme ricchezza di quel paese –, dove erano conservati i beni sottratti alle vittime).
Il 27 gennaio i russi fecero il loro ingresso nel lager. Vi trovarono circa 7.000 prigionieri (abbandonati dalle SS perché ritenuti non in grado di sopravvivere alla marcia), in condizioni di salute drammatiche. In totale è stato calcolato che ad Auschwitz, in appena quattro anni, furono sterminate oltre un milione di persone.

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lunedì 21 luglio 2014

GULag: l’arresto, il viaggio e la vita nei campi di concentramento in URSS

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 luglio 2014)

La principale caratteristica della repressione sovietica ai tempi di Stalin fu l’assoluta arbitrarietà degli arresti. A fare la differenza tra la vita e la morte non era infatti l’accertamento di una colpa: era sufficiente un sospetto, il più delle volte pretestuoso, per essere fagocitati dal sistema GULag e deportati in Siberia o in zone fredde ed inospitali dell’Asia centrale. Chi non moriva di stenti aveva comunque il destino segnato: prigionia in condizioni disumane e lavori forzati per portare avanti il programma di industrializzazione forzata della Russia voluta dai vertici comunisti.
Scrive lo storico Giorgio Vecchio: «Si era presi nottetempo solo perché appartenenti a una certa classe sociale, a una famiglia, a un gruppo. Oppure si era catturati in pieno giorno, sul posto di lavoro, per strada, magari da quelle stesse persone con cui fino a pochi istanti prima si era conversato amichevolmente. Quello che contava era la sorpresa e lo stordimento psicologico che doveva colpire la vittima. Capitava di essere colpiti solo perché parenti di un leader politico che Stalin voleva tenere sotto controllo […]. Oppure perché si era figli di condannati e quindi si era potenzialmente vendicatori. O perché coniugi di un condannato. O perché non si era denunciato il proprio coniuge. O perché qualche gerarca desiderava la moglie di un altro. O anche solamente perché non si era ancora raggiunto il numero prefissato (!!!) di arresti da fare e quindi si mettevano le mani sui primi malcapitati».
Dopo l’arresto, il detenuto doveva subire pesanti pressioni psicologiche (minacce, ricatti, isolamento) e, assai spesso, tremende torture (i cui esempi più blandi – giusto per tacere delle violenze fisiche – consistevano nell’impedire il sonno, nel razionamento estremo del cibo, nell’investire giorno e notte il detenuto con fasci di luce abbagliante, e così via). L’obiettivo dei carcerieri era quello di indurre il prigioniero a firmare una confessione, quasi sempre inverosimile ma più che sufficiente per giustificare l’arresto. Si cercava cioè, paradossalmente, di spingere il detenuto a fornire “spontaneamente” le prove della propria colpevolezza. E, vista la durezza dei metodi utilizzati, pressoché tutti gli interrogati finivano per cedere, firmando quella che di fatto era una condanna a morte.
All’arresto seguiva direttamente la deportazione (il processo, pura formalità, consisteva il più delle volte nella semplice lettura della sentenza precedentemente stabilita), solitamente imposta secondo condanne irrogate sulla base temporale della cinquina e della decina (cinque o dieci anni di lager). Ai familiari non veniva comunicato nulla ad eccezione della durata della pena. E, visto il clima, era consigliabile non fare troppe domande.
La fase successiva, drammatica, era quella del viaggio, che avveniva nella maggior parte dei casi in treno. Stipati in carrozze in condizioni al limite della sopportabilità (si arrivava persino a ridurre al minimo l’acqua da bere, così che le guardie – sottolinea Vecchio – potevano limitarsi «ad accompagnare i prigionieri ai gabinetti una sola volta al giorno»), rinchiusi come bestie in scompartimenti-gabbie, i detenuti dovevano compiere tragitti interminabili prima di giungere a destinazione. Se si apparteneva alla categoria dei deportati politici la situazione era poi ancora peggiore: questi ultimi, infatti, erano il bersaglio preferito delle angherie dei delinquenti comuni, i quali, in combutta con le guardie con cui successivamente spartivano il bottino, spesso li depredavano di ogni avere. Quanto alle donne, la violenza sessuale era il minimo che potesse loro capitare. Si capisce quindi che, in siffatte condizioni, giungere vivi al campo di concentramento era, già di per sé, un’impresa.
Nei lager sovietici finivano soprattutto uomini (solo durante la Seconda guerra mondiale – per via del massiccio reclutamento di detenuti – la percentuale delle donne salì, passando dal 10 al 30% circa). Tutti comunque vivevano in condizioni di promiscuità, con conseguenze facilmente intuibili: violenze sessuali e prostituzione erano all’ordine del giorno, e non infrequente era persino la formazione di coppie stabili. In simili condizioni – scrive Giorgio Vecchio –, «per una donna era assolutamente indispensabile avere uno o più “mariti”-“protettori”», pena la certezza pressoché assoluta di dover prima o poi subire violenze. Ad ogni modo, date le circostanze, i lager furono presto dotati di asili e nidi d’infanzia, dove venivano accolti (si fa per dire) i bambini frutto di gravidanze più o meno volute.
Il lavoro forzato assorbiva quasi l’intera giornata del detenuto, fino anche a quindici ore, a seconda della stagione. Le condizioni di vita erano estreme. Non va dimenticato, infatti, che nelle regioni settentrionali della Russia (come nel bacino minerario della Kolyma) il termometro è capace di raggiungere i 60 gradi sotto zero. E se alla durezza del clima si aggiungono la mancanza di igiene e la malnutrizione (oltre ovviamente alle violenze delle guardie e dei capisquadra, spesso reclutati, questi ultimi, tra i delinquenti più pericolosi), è facile comprendere il motivo per il quale la condanna alla deportazione equivaleva, il più delle volte, a una condanna a morte.
Per ogni squadra e ogni detenuto vigeva poi un rigido sistema di controlli, attraverso i quali si intendeva verificare il raggiungimento della cosiddetta norma, ovvero della quota di produzione prefissata (per esempio un certo quantitativo di minerale estratto o di legna tagliata). Chi non si atteneva ai livelli prestabiliti veniva punito con la distribuzione di un rancio ridotto (laddove, di contro, si premiavano con porzioni più consistenti i lavoratori più efficaci); ma va precisato che, con l’esperienza, i detenuti imparavano che non valeva la pena cedere al ricatto: le quote, infatti, erano pressoché irraggiungibili – essendo stabilite a tavolino da funzionari di partito che, da Mosca, per lo più ignoravano le reali condizioni di lavoro nei campi –, e il supplemento di fatica richiesto per tentare di raggiungerle non era certo compensato da un adeguato aumento delle razioni di cibo. Certo è però che i detenuti politici, a causa soprattutto della connivenza delle guardie con i delinquenti comuni, dovevano lavorare più di tutti: essi erano infatti, tra le varie categorie di prigionieri, i più penalizzati e disprezzati.
Un simile spregio per la vita dei prigionieri pose tuttavia all’ordine del giorno il problema della mortalità nei campi. Le necessità economiche imposero perciò di migliorare le condizioni di vita nei lager, col risultato che il tasso di mortalità scese dal 10% del periodo prebellico al 5% del post-1945 (anche se nei lager più duri – in particolare quelli di Vorkuta e della Kolyma – si raggiunsero picchi del 30%). Ma al di là delle cifre, l’aspetto più inquietante – più ancora della morte – era la perdita, da parte dei detenuti, della dignità umana. Quando infatti la violenza diventa prassi, la giustizia è calpestata impunemente e l’arbitrio del più forte assume valore di legge non scritta, viene a mancare, inesorabilmente, ogni distinzione tra l’uomo e la bestia. Al riguardo, merita di essere letto un brano tratto dai Racconti di Kolyma di Salamov: «Vedere il lager è orribile e nessun uomo al mondo dovrebbe mai conoscere un simile luogo. L’esperienza del lager è assolutamente negativa, in ogni suo momento. Non può che peggiorare l’uomo, senza alternative. Nel lager ci sono molte cose che l’uomo non dovrebbe mai vedere. Ma vedere il fondo più oscuro della vita non è ancora la cosa peggiore. La cosa peggiore è quando l’uomo comincia a sentire questo fondo oscuro – e per sempre – come parte della propria vita, quando informa i propri criteri morali all’esperienza del lager, quando la morale dei malavitosi viene applicata alla propria vita di “libero”. Quando la ragione dell’uomo non si limita più a giustificare questi sentimenti del lager, ma si è ormai messa al loro servizio […]. Ci sono svariati esempi di questa corruzione indotta dal lager. Le frontiere morali, il confine tra bene e male, sono molto importanti per il detenuto. Costituiscono anzi il problema principale della sua vita. Se sia rimasto uomo, oppure no».

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venerdì 11 luglio 2014

GULag: il sistema dei campi di concentramento in Unione Sovietica

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 luglio 2014)

Anche se ormai, nel vocabolario comune, è diventata sinonimo di campo di concentramento sovietico, la parola GULag indicava, in origine, una sigla, ovvero Glavnoie Upravlenie Lagerej (Amministrazione Centrale dei Campi). Con essa ci si riferiva pertanto ad uno specifico ente statale preposto alla gestione del sistema di detenzione forzata in URSS. Solo in seguito la sigla venne utilizzata per definire il complesso dei campi di lavoro vero e proprio.
Il ricorso alle deportazioni di massa non fu un'invenzione sovietica, essendo una pratica ampiamente diffusa già in epoca zarista. Secondo una legge del 1736, infatti, per decretare una condanna all'esilio forzato in Siberia era sufficiente che un soggetto esercitasse una «cattiva influenza». La carcerazione prevedeva inoltre i lavori forzati, giacché i campi avevano una non secondaria finalità economica. Le dure condizioni di detenzione migliorarono leggermente nei primi anni del XX secolo, in coincidenza con i timidi progetti di modernizzazione della Russia contemplati in quel periodo dalla politica zarista, per poi peggiorare drasticamente in seguito alla rivoluzione bolscevica.
Fu Lenin in persona – convinto che occorresse «purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi» – a pretendere, nel 1918, che i semplici «sospetti» (non i colpevoli provati) fossero rinchiusi in apposite strutture lontane dalle città: e il governo fu così solerte nell'accontentarlo che appena tre anni dopo il loro numero ammontava già a 84 unità. La gestione di questi campi – nei quali era previsto il «lavoro fisico obbligatorio» di tutti i detenuti – fu affidata dapprima a più enti, tra cui la ČEKA (Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio). Questa nel 1922 fu riorganizzata nella GPU (Amministrazione Politica Centrale) e, l'anno successivo, nella OGPU (Amministrazione Politica Statale Unificata). In totale, nel 1927 il numero dei detenuti sfiorava le 200.000 unità (dato grosso modo equivalente a quello della Russia zarista nel 1912).
La svolta si ebbe con l'avvento di Stalin, e il 1929 fu l'anno decisivo: in ottemperanza ai piani di industrializzazione forzata predisposti dal dittatore georgiano, i massimi dirigenti sovietici stabilirono di intensificare lo sfruttamento del lavoro forzato dei prigionieri nelle regioni del nord. Seguì, l'anno seguente, la riorganizzazione  del dipartimento dell'OGPU competente in materia di campi e la conseguente nascita del GULag. Infine, nel 1934, la stessa OGPU fu trasformata nell'NKVD (Commissariato del popolo agli Affari Interni), il padre del più celebre KGB. Quella degli anni Trenta fu un'autentica svolta poiché a quel periodo – una volta varato il piano di collettivizzazione forzata della terra – risale la prima grande ondata di deportazioni dei kulaki (i contadini piccoli proprietari): nel solo biennio 1930-31 furono inviate nei campi 1.800.000 persone. Si trattò della prima cosiddetta "fiumana" (ovvero la deportazione di una precisa categoria sociale), ma certo non dell'unica: per via dell'ossessione di Stalin – che vedeva traditori un po' ovunque –, interi gruppi di persone (come i dirigenti comunisti nel 1937-38, le etnie poco "affidabili" e i reduci dalla prigionia di guerra nel 1944-46; e poi ancora i trockijsti, i tecnici – accusati, con i loro calcoli scientifici, di frenare l'avanzata industriale del paese fissata sulla carta dal partito – e i presunti sabotatori – magari semplici operai che non riuscivano a raggiungere le quote di produzione prestabilite) furono letteralmente spazzati via dalla repressione sovietica. Fu così che nei bacini minerari di Vorkuta e della Kolyma – dove sorgevano numerosi campi – fu inviato, di fatto, un esercito di manodopera servile, nel quadro della grande politica dei lavori pubblici finalizzata alla costruzione di canali e ferrovie.
Altro anno decisivo nella storia del GULag fu il 1937, che coincise con l'inizio del cosiddetto terrore staliniano. Il dittatore dispose infatti, a partire da quella data, che si rispettassero delle precise quote di deportazione (da lui precedentemente fissate): si stabilirono persino delle categorie, in base alle quali per i singoli detenuti era prevista l'immediata pena di morte (il che, già di per sé, fu una novità, dal momento che fino ad allora i decessi nei campi erano stati provocati più che altro dalle dure condizioni di vita) o la semplice carcerazione. Di fatto, la repressione non risparmiò nessuno, nemmeno le più alte cariche. Volendo fare due nomi, nel biennio 1938-39 furono fucilati il capo dell'NKVD Genrih Jagoda – che fu sostituito da Nikolaj Ežov – e colui che era stato il capo del GULag sino al 1937, Matvej Berman.
Gli anni 1937-38 sono tristemente passati alla storia come quelli delle cosiddette grandi purghe. Secondo le stime sovietiche del 1953 (l'anno della morte di Stalin), solo in quel biennio furono arrestate circa 1.600.000 persone, 680.000 delle quali furono in seguito giustiziate. Tuttavia, come precisa Andrea Graziosi in un suo recente studio sull'URSS, «la cifra non tiene [...] conto di quelle morte sotto tortura o eliminate "illegalmente" nei campi e nelle prigioni, ed è perciò ragionevole presumere che i morti furono di più, almeno 750 mila». Se si presta fede, invece, al calcolo dello storico britannico Robert Conquest – autore di un corposo volume sul grande terrore, ormai divenuto un classico della storiografia –, il numero dei decessi sale a «1 milione circa».
Un aspetto tristemente singolare di questa vertiginosa impennata delle esecuzioni è legato all'abbandono della politica rieducativa: a partire dal 1937 cessò infatti ogni forma di pubblicizzazione del sistema dei campi, che in precedenza, invece, era stato in più occasioni apertamente elogiato per il suo (presunto) elevato valore sociale. E, a riprova del fatto che quella della repressione era ormai divenuta l'esigenza primaria, i lager furono persino cancellati dalle carte geografiche.
L'ovvia conseguenza del terrore fu però un drastico calo della produttività dei campi. A questo inconveniente intese porre rimedio il successore di Ežov (fucilato nel 1940), Lavrentij Berija, il quale stabilì che – cessate le fucilazioni di massa – il GULag dovesse diventare il fulcro dell'economia sovietica. Fu così dato l'ordine di utilizzare i prigionieri in funzione delle loro capacità professionali e, soprattutto, di organizzare officine e laboratori. Il risultato fu notevole, al punto che – come rileva Giorgio Vecchio – alla vigilia della guerra era già possibile parlare di un «complesso industriale carcerario» che incorporava «ogni tipo di attività: costruzione di canali, strade, linee ferroviarie; sfruttamento di miniere; taglio dei boschi e produzione di legname; agricoltura e allevamento, lavorazione del pesce; industrie meccaniche e chimiche, siderurgiche, cantieri edili, e così via».
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale ebbe profonde ripercussioni sulla politica di gestione dei campi. Molti detenuti furono arruolati per far fronte all'emergenza bellica, ma, di contro, nuovi deportati giunsero ad affollare i lager: si trattava dei prigionieri arrestati dai sovietici nei territori (appartenenti alla Polonia e ai paesi baltici) annessi all'URSS nel biennio 1939-40. Molti altri però dovettero subire lo stesso destino nel corso della guerra: milioni di persone appartenenti alle etnie ritenute sospette (come i tedeschi residenti nella regione del Volga, i tatari della Crimea, gli ingusci e i ceceni) furono confinate nei campi della Siberia e dell'Asia centrale per espresso volere di Stalin. Singolare fu, infine, al termine del conflitto la sorte dei reduci dalla Germania (quasi tre milioni di lavoratori civili e più di un milione di prigionieri di guerra): essendo ritenuti poco "affidabili" per via del loro prolungato contatto con il mondo occidentale, furono rinchiusi in particolari "campi di filtraggio". Circa la metà di essi transitò successivamente nel sistema GULag.
Drammatica fu altresì l'esperienza dei circa mille italiani che in Russia persero la vita tra il 1919 e il 1951: oltre a centinaia di emigrati che subirono la deportazione per i più svariati motivi, ad essere fagocitati dalla macchina repressiva stalinista – per lo più con l'accusa di trockijsmo e di bordighismo – furono anche diversi comunisti che avevano abbandonato l'Italia fascista con la convinzione di approdare nel paradiso dei soviet.
Solo dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953) il sistema GULag fu riformato. In particolare, furono riesaminate le condanne dei detenuti politici (per i quali nel 1948 erano stati creati campi speciali, in condizioni di particolare durezza) e soppresse le Commissioni speciali, fino ad allora investite del potere arbitrario di infliggere, senza alcun processo, la pena della deportazione. Nel 1956, infine, con il consolidamento al potere di Krusciov, l'amministrazione del GULag fu sciolta. Si chiudeva così la drammatica esperienza di un'organizzazione che, per lungo tempo, fu il cardine di un sistema repressivo-coercitivo costato la vita, nel complesso della pluridecennale storia dell'Unione Sovietica, a circa venti milioni di persone.

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mercoledì 2 luglio 2014

«Venti di guerra»: i travagliati mesi della neutralità italiana

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 giugno 2014)

Nell'anno del centenario dello scoppio del primo conflitto di portata mondiale, le librerie pullulano di volumi sulla Grande Guerra. In pratica, tra ristampe e nuove edizioni, gli scaffali dedicati alla storia sono pressoché "monopolizzati" da un solo argomento. In questa sede segnaliamo un libro uscito poche settimane fa, stampato da Il Fiorino: si tratta del lavoro di Gian Luigi Rinaldi, intitolato Venti di guerra. Uno studio del periodo della neutralità italiana (conclusasi ufficialmente il 24 maggio 1915), corredato da un ampio apparato di immagini (tra le quali spiccano numerose riproduzioni fotografiche di articoli e titoli tratti da testate, anche modenesi, dell'epoca).
Ma che Italia era quella che, dopo un anno di riflessioni, imbracciò il fucile a fianco delle potenze dell'Intesa? Ripercorriamo brevemente, da un punto di vista politico, la storia del biennio 1914-1915.
28 giugno 1914. Esattamente un secolo (e un giorno) fa uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip freddava a colpi di pistola l'arciduca Francesco Ferdinando (erede al trono d'Austria) e la moglie Sofia, mentre a bordo di un'auto scoperta attraversavano le vie di Sarajevo. L'attentatore faceva parte di un'organizzazione irredentista serba, e questo bastò per suscitare la dura reazione del governo di Vienna: il 23 luglio fu inviato un durissimo ultimatum alla Serbia, il quale – tra le altre cose – prevedeva l'ammissione di funzionari austriaci alle indagini sull'attentato (e quindi, di fatto, una rinuncia alla sovranità).
L'ultimatum fu accettato solo in parte, e l'Austria – giudicando la risposta insoddisfacente – il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. La decisione mise in moto il meccanismo delle alleanze incrociate. La Russia, che già aveva assicurato il proprio sostegno alla Serbia, ordinò la mobilitazione delle forze armate (di fatto il preludio a una formale dichiarazione di guerra) su tutto il confine occidentale, compreso quello con la Germania. La mossa, com'era prevedibile, scatenò la reazione tedesca, con conseguente invio di un ultimatum per l'immediata sospensione dei preparativi bellici. Ignorato dai russi l'avvertimento, il 1° agosto da Berlino giunse la dichiarazione di guerra, cui seguirono – nel giro di tre giorni – la mobilitazione della Francia (alleata della Russia), un nuovo ultimatum tedesco e la successiva dichiarazione di guerra.
La strategia tedesca, elaborata sulla base del cosiddetto piano Schlieffen (capo di stato maggiore dell'esercito agli inizi del Novecento), prevedeva un rapido attacco a ovest per mettere fuori combattimento la Francia nel giro di poche settimane e per potersi poi rivolgere con maggiori forze a est, contro la Russia. Per la riuscita dell'operazione era però necessario violare la neutralità del Belgio, al fine di colpire lo schieramento nemico nella sua parte più debole e di puntare direttamente su Parigi. L'invasione ebbe inizio il 4 agosto, e – oltre a scuotere profondamente l'opinione pubblica europea – convinse l'Inghilterra della necessità di un intervento, giacché veniva considerata inaccettabile l'aggressione ad un paese neutrale che si affacciava sulla Manica. Il giorno seguente anche Londra dichiarò guerra alla Germania.
E l'Italia? L'Italia sostanzialmente prese tempo, affrettandosi (il 2 agosto) a dichiarare la propria neutralità. Il pretesto fu il carattere difensivo della Triplice alleanza: da un punto di vista formale era legittimo mantenersi estranei al conflitto, giacché l'Austria non era stata direttamente attaccata e non aveva consultato Roma prima di muovere contro la Serbia. Al di là dei tatticismi, era però evidente che la decisione presa non fosse definitiva. In sostanza, si preferì attendere sviluppi, giusto per farsi un'idea dei reali rapporti di forza tra le potenze in gioco. E, tra gli interventisti, quando fu chiaro che l'assalto austro-tedesco era fallito, prevalse rapidamente il partito di coloro che caldeggiavano l'entrata in guerra a fianco dell'Intesa (che avrebbe, a loro parere, garantito il completamento del processo risorgimentale).
Quello che è certo è che non fu una scelta facile, se non altro perché l'Italia dal 1882 faceva parte – insieme con Austria e Germania – della Triplice alleanza. Ma quali furono i sentimenti – a lungo andare decisivi – che animavano la nutrita schiera degli interventisti?
L'aspetto più singolare è che le motivazioni (ideali e pratiche) di coloro che si dicevano favorevoli all'intervento a fianco di Francia e Inghilterra erano assai variegate. Non ci fu, in altre parole, un unico interventismo. Ve ne fu uno di sinistra (condiviso da repubblicani, radicali, socialriformisti, irredentisti e da frange "eretiche" del movimento operaio), che considerava la guerra agli Imperi Centrali un'occasione da cogliere per battersi in difesa del diritto di nazionalità e della democrazia (i quali, si credeva, sarebbero stati di certo messi in discussione in caso di vittoria austro-tedesca). Ma vi furono anche un interventismo nazionalista – desideroso che l'Italia, al pari degli altri grandi Stati europei, si affermasse come potenza imperialista – ed uno liberal-conservatore, espressione di coloro che erano convinti che una prolungata neutralità avrebbe compromesso irrimediabilmente il prestigio internazionale dell'Italia e della monarchia sabauda (laddove, di contro, una vittoria militare avrebbe rafforzato il governo e le istituzioni).
Altrettanto consistente era però lo schieramento neutralista. Esso annoverava i cattolici (in parte pacifisti, in parte contrari a una guerra combattuta a fianco della Francia repubblicana – e, sotto sotto, anticlericale – contro la cattolicissima Austria), i cosiddetti giolittiani (preoccupati per le conseguenze di un conflitto che – nelle loro previsioni – sarebbe stato logorante ed infruttuoso ed altresì convinti di poter ricevere dagli Imperi Centrali sostanziosi compensi territoriali in cambio della neutralità) e i socialisti (fermi – seppur con la clamorosa eccezione di Mussolini – nella condanna della guerra quale mezzo per affermare un qualunque diritto).
Sostanzialmente, come spesso è accaduto nella nostra storia, l'Italia del 1914 era un paese spaccato a metà. Ma si trattava, a ben vedere, di due metà tra loro molto diverse. Mentre il fronte interventista, pur tenendo conto della sua eterogeneità, era unito da una comune avversione all'Austria e alla politica giolittiana, quello neutralista risentiva della profonda spaccatura che divideva i socialisti dalle altre forze politiche. Da una parte, poi, si respirava contagioso entusiasmo, e si diede prova di una sorprendente capacità di mobilitazione (erano interventisti – dato già di per sé significativo – molti studenti e intellettuali); dall'altra, invece, ci si intendeva solo mettendo in comune le paure legate alla guerra. Col senno di poi, è fin troppo facile rilevare quanto le divisioni interne al blocco neutralista abbiano contribuito in maniera determinante a spostare l'ago della bilancia in direzione del partito della guerra. Ed è proprio sfruttando questa debolezza che la propaganda interventista ebbe buon gioco a presentare Giolitti come un vile conservatore, i cattolici come reazionari che intendevano ostacolare il compimento dell'unità nazionale e i socialisti come sovversivi incompatibili con ogni forma di patriottismo.
Mario Isnenghi, certamente uno dei più autorevoli studiosi italiani della Grande Guerra, sottolinea a proposito dei neutralisti (e in particolare dei socialisti) un dato di enorme rilevanza: «Ma si può essere la metà del paese e non avere in sé la fiducia di programmare almeno uno sciopero? Dopodiché non si può arrivare qualche decennio dopo e dire che la guerra è una brutta bestia. Sarà anche una brutta bestia, ma quando si trovano di fronte le emozioni dei volontari della guerra, le emozioni dei detrattori della guerra cosa hanno saputo produrre? Il "né aderire, né sabotare" [dei socialisti]. [...] "Né aderire, né sabotare" è una parola d'ordine nel segno dell'impotenza: aderire non posso, cioè dentro di me ti dico di no, ma sabotare non me la sento, sennò ridiventerei quell'anarchico che ero trent'anni fa».
Questo, a ben vedere, è il punto cruciale. L'Italia del biennio 1914-1915 era un paese nel quale si contrapponevano due opposte volontà: ma, tra le due, ce n'era una – si passi il gioco di parole – che voleva la guerra "meglio" di quanto l'altra volesse la neutralità. E, con queste premesse, non è certo un caso che al termine del conflitto le forze neutraliste si siano disgregate. Perché, se la politica tradizionale puzzava ormai di vecchio, i socialisti si trovarono nella delicata condizione di dover spiegare che, a loro parere, si era combattuto (e vinto) per niente. E i 600.000 morti? E la gloria, l'onore, la patria? Aveva ragione Benedetto Croce, quando scrisse: «Praticamente, i socialisti italiani non posero grandi ostacoli, e neppure dettero molto fastidio al governo; ma, idealmente, si staccarono dal popolo a cui appartenevano, e con ciò si tolsero autorità sopr'esso nel caso di vittoria, e, in quello di sconfitta, sperarono (e forse nel loro cuore non la sperarono) la triste autorità, che è nel poter avvantaggiarsi delle sventure nazionali, rigettandone da sé sofisticamente e demagogicamente la colpa, e accrescere con l'obbrobrio il comune avvilimento. Ciò percepì acutamente quello dei socialisti che era a capo dell'estrema sinistra del partito, il Mussolini [...]. Così i socialisti italiani si condussero proprio all'opposto dei loro colleghi tedeschi, assumendo essi la parte antinazionale che assunse colà la minoranza rivoluzionaria, e lasciando che in Italia la minoranza rivoluzionaria assumesse la parte nazionale».

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