(articolo apparso su Prima Pagina del 27 luglio 2014)
Esprimere un giudizio obiettivo su Ernesto Che Guevara
richiede uno sforzo non indifferente, poiché – in un modo o nell’altro – è
sempre forte il rischio di subire il fascino che promana dalla sua persona. Il
problema, si badi, non è quello di mettere in risalto questo o quell’aspetto
del suo carattere o delle sue azioni; e nemmeno quello di restituire il vero
Guevara alla storia, sottraendolo alla leggenda. Ciò che rende delicata ogni
riflessione che abbia per oggetto il rivoluzionario di Rosario è il timore di
compromettere la credibilità di un’icona che è universalmente considerata
sinonimo di valori nei quali ogni testa pensante è obbligata a riconoscersi.
Valori (tutti riconducibili all’altruismo, all’ardente volontà di sacrificare
se stessi per una causa) che Guevara, pur con i suoi limiti, ha indubbiamente
incarnato e a cui – ancora oggi – continua a prestare un volto; valori che
molti temono potrebbero essere messi in discussione insieme con il loro alfiere
se al Comandante col basco fossero sostituiti i panni dell’eroe senza macchia
con quelli di un più semplice guerrigliero rivoluzionario. E allora è lecito
chiedersi: conviene sul serio percorrere questa strada irta di ostacoli?
Il punto debole di questo ragionamento è racchiuso in una
semplice constatazione: Che Guevara è un mito positivo per la nostra società
solo a patto di non travisarlo. Di nuovo, non si tratta di condannarne gli
errori, l’ingenuità e nemmeno una certa innegabile propensione al fanatismo ideologico,
bensì di stabilire se tutto ciò che è connesso alla sua icona sia “spendibile”,
a beneficio di tutti, per un futuro migliore. Il che equivale, di fatto, a
porsi un’altra, duplice domanda: quali sono i valori di chi inneggia al
rivoluzionario argentino? E, soprattutto, in che misura essi coincidono con
quelli per i quali Guevara ha sacrificato la vita?
Ripercorriamo, brevemente, la vita del Che. Figlio di una
coppia mediamente benestante, poco più che ventenne si separa dalla famiglia
per intraprendere un lungo viaggio (in sella ad una sgangherata motocicletta)
un po’ lungo tutta l’America latina. È in cerca di se stesso, studia medicina
nei ritagli di tempo e si dedica con passione ad opere di volontariato, in
particolare prestando cure ai lebbrosi. Soffre d’asma (un male che lo
affliggerà per tutta la vita), ma non se ne cura più di tanto.
Rientrato in Argentina, Guevara consegue la laurea in
medicina. La vita sedentaria, però, non fa per lui, e quindi riparte per un
lungo viaggio in Sud America, alla ricerca di nuovi stimoli. Le peregrinazioni
offrono altresì l’occasione di toccare con mano la miseria e la sopraffazione
cui sono soggetti i ceti popolari, e di maturare la convinzione che l’imperialismo
statunitense avrebbe costantemente avversato qualsiasi tentativo volto ad
abbattere i governi autoritari del continente latinoamericano. Risale a questo
periodo l’incontro con il manipolo di esuli cubani facenti capo a Fidel Castro,
i quali – oltre a coniare per lui il celebre appellativo «Che», prendendo
spunto da un’interiezione equivalente, grosso modo, all’italiano «ehi» – lo
assoldano in vista dell’imminente sbarco a Cuba, finalizzato a spodestare il dittatore
dell’isola, Batista.
Da qui in avanti la storia è nota: capeggiato da Castro, il
Movimento 26 luglio (cosiddetto in ricordo della data dell’assalto alla Caserma
Moncada, episodio che nel 1953 inaugura la rivoluzione cubana) riesce nell’impresa
di conquistare il potere, grazie soprattutto al deciso appoggio della
popolazione contadina locale. Guevara, che durante le fasi di guerriglia dà
prova di grande coraggio (ma anche di intransigenza: un guerrigliero della sua
unità, colpevole di aver sottratto un po’ di cibo, viene immediatamente
fucilato), riveste in rapida successione importanti incarichi diplomatici (in
pratica diviene ambasciatore della rivoluzione cubana nel mondo) e di governo.
Dapprima è a capo dell’Istituto nazionale per la riforma agraria (lo
smantellamento dei latifondi e la distribuzione della terra ai contadini sono
il suo principale cruccio); poi è nominato presidente della Banca nazionale di
Cuba e, successivamente, Ministro dell’industria.
Nel frattempo, passando attraverso un doppio grave
incidente diplomatico con gli USA (dall’invasione della Baia dei Porci alla
crisi dei missili), la rivoluzione si consolida, grazie soprattutto all’appoggio
dell’Unione Sovietica di Krusciov. Ma, proprio perché si sente un
rivoluzionario e non un uomo di governo, Guevara ritiene conclusa la propria
esperienza a Cuba. «Altre terre del mondo richiedono il concorso dei miei
sforzi», scrive a Castro il 31 marzo 1965. Ha in mente il Congo (a suo dire, l’anello
debole dell’imperialismo), dove spera di ripetere il successo del Movimento 26
luglio. Ma, in questa circostanza, fallisce, anche perché non si ripete il
miracolo di qualche anno prima: la popolazione infatti non segue i ribelli, e
il Che è costretto ad ammettere l’impossibilità di «liberare da soli un Paese
che non vuole combattere».
Guevara però non demorde, e sul finire del 1966 è già in
Bolivia per un nuovo tentativo insurrezionale. Tentativo che, tuttavia, gli
risulta fatale: l’8 ottobre 1967 viene infatti catturato dall’esercito regolare
(coadiuvato da agenti della CIA) e, il giorno seguente, giustiziato. Ha appena
trentanove anni.
Di Che Guevara ha scritto il suo biografo Jorge
Castaneda: «Da quando, ragazzo, giocava a rugby a Cordoba fino al giorno della
sua esecuzione nella foresta della Bolivia, egli si attenne sempre allo stesso
presupposto: basta volere fermamente una cosa per farla accadere». Poche parole
che svelano il segreto del suo successo: una forza di volontà mai doma, anche a
costo del sacrificio della vita. Perché non si rinuncia alla gloria e al potere
per inseguire un sogno rivoluzionario, se non si è altruisti, se non si è
animati da un profondo, pressoché invincibile, senso del dovere. Il Che indubbiamente
credeva in quello che faceva: il suo anelito di libertà per le popolazioni
oppresse era sincero, nobile. E non si può certo affermare che lo sfruttamento
capitalistico del Terzo Mondo e le ingiustizie sociali non fossero motivi
validi per imbracciare il fucile.
Ci sono, va detto, anche delle ombre nella carriera
politica del Comandante. Il Libro nero
del comunismo evidenzia che, quando si tennero i processi per crimini di
guerra contro i dissidenti batistiani (ma anche contro dissidenti tout court) all’indomani della vittoria
della rivoluzione, il Che – che era stato nominato procuratore ed era
incaricato di esaminare le richieste di appello – negò sistematicamente la
grazia ai condannati. Secondo alcune stime – accreditate, tra gli altri, da Alvaro
Vargas Llosa, figlio del più celebre Mario, Nobel per la letteratura nel 2010 –,
i giustiziati furono circa duecento.
Sempre il Libro
nero del comunismo sottolinea che fu Guevara ad inaugurare, nel 1960, il
primo campo di concentramento castrista. Il che è confermato dalla
testimonianza di Régis Debray – che fu con il Che in Bolivia –, secondo cui «è
stato lui e non Fidel a ideare [...], sulla penisola del Guanaha, il primo
“campo di lavoro correzionale” (noi diremmo lavoro forzato)».
E quindi? Ce n’è abbastanza per demolire un mito, o si
tratta di danni collaterali inevitabili, un po’ come accade in ogni rivoluzione
che si rispetti? Ancora una volta, non è questo il punto. Guevara non era un
santo, ma è innegabile che sia un simbolo, oggi forse – per la verità – un
tantino sbiadito. Simbolo – certo – di un’epoca ben precisa, giacché è
difficile immaginare Guevara senza la contestazione studentesca; ma proprio per
questo ancor più significativo, in quanto icona di una generazione che diventa
essa stessa personaggio storico. Fare i conti con il Che significa, in altre
parole, dover prendere atto del suo fascino, senza pretendere di negarlo in
nome di un pregiudizio ideologico-culturale.
Questa premessa è d’obbligo allorché si tenti di
esprimere un giudizio serio sul Che. Si parta dunque dalla constatazione dell’universalità
del suo mito (e di universalità è bene parlare, poiché – non tutti lo sanno –
il Comandante è un’icona anche di alcune frange della destra militante), per
riconoscere che c’è del buono nell’immagine di un uomo pronto a tutto pur di raggiungere
un obiettivo. Poi si giudichi quest’obiettivo: frutto – d’accordo – di un’ingenuità
alla Don Chisciotte (e che dire allora di Garibaldi, o di Mazzini? Altri miti
da buttare?), ma l’emancipazione – dal basso, cioè per volontà del popolo
oppresso – del Terzo Mondo non è certo un progetto da censurare. Quindi si
valutino le conseguenze delle sue azioni: e qui si può essere critici, giacché
Guevara, nel caso di Cuba, contribuì ad instaurare un regime equiparabile a
quelli contro i quali combatté per tutta la vita. Ma va anche detto che un
conto è Castro («Il potere non mi interessa. Dopo la vittoria voglio tornare
nel mio paese e riprendere il mio lavoro di avvocato», aveva detto nel 1957.
Chiara la differenza?), diverso è il caso del Che. Infine, messo da parte
Guevara, si considerino gli ideali dei guevariani. Ed è qui che è possibile
affondare il colpo più duro. Per molti sessantottini il Che fu sinonimo di
ribellione fine a se stessa. Ribellione opportunistica, disgiunta da ogni forma
di sacrificio o di merito; e rifiuto di ogni regola, perché tutto ciò che era
proibito era fascista. Come ha scritto Marcello Veneziani, il Sessantotto di
chi inneggiava al Comandante «produsse nel tempo un cambiamento nella sinistra,
passata da una versione proletaria, classista, fortemente imperniata sulla
giustizia sociale, ad una sinistra radical-borghese, imperniata sulla
liberazione e sui diritti civili, che non difende gli oppressi ma libera i
repressi». E oggi? Oggi il mondo occidentale somiglia molto ad un paese dei
balocchi per ipocriti. Guevara spopola su cappellini e magliette, ma guai a
parlare di sacrificio, di rispetto delle regole, di studio, di punizioni. Chissà
cosa penserebbe il Che – lui che, per dare il buon esempio, si metteva
pazientemente in fila alla mensa del ministero con in mano una scodella d’alluminio
– dei guevariani del Duemila che la fila, perché no con un bel paio di Nike ai
piedi, la fanno volentieri per accaparrarsi l’ultima versione dell’iPhone!
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