giovedì 29 maggio 2014

«Storia dell'idea d'Europa»: un grande classico della storiografia (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 maggio 2014)

Continuamente ristampato per i tipi di Laterza dal 1961, Storia dell'idea d'Europa è sicuramente uno dei libri più belli e affascinanti di Federico Chabod, una lettura illuminante per comprendere il travagliato percorso che ha trasformato (o quantomeno ha preteso di trasformare) un'entità geografica in un organismo che sta tuttora sforzandosi di trovare ragioni di intesa comune. Il volume, si badi, non è una storia dell'Europa in senso tradizionale: non descrive, cioè, fatti, ma si concentra sull'acquisizione di coscienza dei fatti. Chabod, in altre parole, non prende in esame i processi storici che hanno portato l'Europa ad acquisire le caratteristiche riscontrabili oggi, dal momento che oggetto del suo interesse è lo studio dei processi che hanno portato gli europei a sentirsi tali (il che significa, inevitabilmente, diversi dagli altri abitanti del pianeta). «Quel che a noi interessa – precisa infatti lo storico – è il concetto di Europa dal punto di vista culturale e morale; dell'Europa che forma un quid a sé, distinta dalle altre parti del globo, proprio soprattutto per certe determinate caratteristiche del suo modo di pensare e di sentire, dei suoi sistemi filosofici e politici; dell'Europa, come "individualità" storica, che ha una sua tradizione, che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato, nei secoli, una impronta incancellabile».
La prima cosa da stabilire è, naturalmente, il quando. A partire da quale epoca storica è possibile, concretamente, parlare di Europa come entità culturale? Per rispondere è necessario premettere una considerazione: l'identità (vale tanto per le persone quanto per i popoli) è frutto della contrapposizione. Vale a dire: io sono A perché non sono B, sono, appunto, europeo perché non sono altro. Ebbene, questo altro è, innanzitutto, l'Asia, che viene percepita come non-Europa per la prima volta dai Greci. Nell'arco di tempo che va dalle guerre persiane all'epopea di Alessandro Magno comincia cioè a formarsi una frattura tra Occidente e Oriente, sulla base dell'antitesi libertà (europea)-dispotismo (asiatico). Beninteso, si tratta di un Occidente ancora essenzialmente greco (e infatti Aristotele distingue sì l'Europa dall'Asia, ma anche la Grecia dall'Europa): ma è quantomeno lecito individuare in questa prima contrapposizione gli incunaboli di una seppur acerba idea di Europa.
In cosa consiste, però, la differenziazione libertà-tirannide? Fondamentalmente, i Greci si considerano liberi in quanto cittadini, non sudditi. Nella polis, libertà è sinonimo di partecipazione alla vita pubblica secondo le regole stabilite dalla legge (la quale per Erodoto è l'unico «padrone» che si possa riconoscere al di sopra dei singoli individui). L'inferiorità asiatica è dunque per i Greci una conseguenza del dispotismo, a partire dal presupposto che mentre il suddito persiano combatte per un sovrano, il cittadino ellenico è pronto a sacrificarsi per se stesso, in difesa della propria libertà. Si tratta di una bipartizione destinata negli anni ad essere in parte superata, anche se riemergerà con prepotenza alla vigilia della battaglia di Azio, scontro di civiltà – secondo la propaganda romana – tra Augusto e l'orientale Cleopatra (rea di aver sedotto e corrotto Antonio).
La contrapposizione Europa-Asia non regge però di fronte alle travolgenti conquiste di Alessandro Magno (il quale dà vita ad un'ecumene ellenistica) e, soprattutto, al forte impatto con la romanità, che di certo non può essere incardinata in una ristretta dimensione continentale. Con l'espansione dell'Impero la vera contrapposizione diviene quella tra romano e barbaro, destinata a cedere il passo, con l'avvento del cristianesimo, all'opposizione cristiano-pagano (anche se, per quanto attiene al Medioevo, non bisogna commettere l'errore di considerare equivalenti barbaro e pagano, essendo il primo sinonimo di rozzo, incivile – non romano, per l'appunto – e il secondo di non cristiano). In epoca medievale il termine Europa non fa quindi concorrenza – contrariamente a quanto si sarebbe indotti a pensare – a quello di cristianità. Carlo Magno, infatti, è «rex pater Europae» in quanto tutore della cristianità occidentale, ben diversa da quella bizantina. L'accezione del termine è pertanto ancora essenzialmente geografica.
Resta ora da chiedersi quali siano i confini della cristianità. Teoricamente, essi abbracciano – in prospettiva – l'intera umanità; in pratica, però, è possibile far coincidere la cristianità con l'Europa, la quale, ancora lontana da quella attuale, di fatto comprende l'Occidente e il Mezzogiorno romano. E l'Oriente? Riferendosi a Costantinopoli, nel Paradiso Dante la colloca «ne lo stremo d'Europa», il che è un segno evidente che l'Oriente – si passi il gioco di parole – si sta progressivamente espandendo ad ovest. Nel tardo Medioevo, infatti, Germania e Inghilterra hanno ormai rimpiazzato la Grecia e l'est europeo, portando a compimento un processo avviatosi già verso la fine dell'età imperiale, con la bipartizione dell'ecumene romana. A Bisanzio, del resto, più che al mito di Roma ci si richiama alla tradizione greca preesistente; e, da una parte e dall'altra, si diffondono rapidamente speculari pregiudizi (le accuse più comuni sono relative alla fiacchezza dei costumi). «Tutto è dunque diverso – spiega Chabod –, fra Occidente e Oriente. Ma se in tale contrasto riappaiono taluni dei motivi già emersi nel V-IV secolo a. C., v'è una differenza fondamentale tra quel lontano periodo e il Medioevo: ed è che allora l'Oriente voleva dire l'Asia e l'Occidente la Grecia, cioè l'Europa civile; ora, l'Occidente significa le regioni ad ovest dell'Adriatico e il disprezzato Oriente comprende la Grecia».
Al riguardo, eventi decisivi sono lo scisma d'Oriente del 1054 (con la separazione della Chiesa greca da quella romana), le Crociate e la conquista ottomana di Costantinopoli (1453) e della Grecia. L'aspetto più importante da rilevare è che proprio la regione dove prende forma il senso di appartenenza ad un'unità morale che anticipa indirettamente la nascita dell'Europa si trova ad essere esclusa dal blocco occidentale. «I Greci – sottolinea Chabod – non appaiono nemmeno più veri cristiani, anzi, un che di mezzo tra cristiani e Saraceni; sono "eretici" poco meno pericolosi dei Turchi». Tant'è che il termine Europa comincia a designare, in pratica, solo Franchi e Latini (e significativamente, dopo la quarta crociata, Costantinopoli diviene la capitale dell'impero latino d'Oriente).
Le fonti del tempo contrappongono pertanto Latini e Greci, sulla base di consolidati stereotipi. Così, se per i primi gli orientali sono infidi, scaltri e traditori, per i secondi gli occidentali sono avidi di dominio, ottusi e senza scrupoli. Ma non solo: il feudo e la cavalleria diventano istituti tipicamente europei, mentre anche gli Arabi cominciano a distinguere tra Franchi e Greci. L'Europa vera e propria, sia chiaro, è ancora lontana; tuttavia è significativo che proprio nel XV secolo, con Enea Silvio Piccolomini, faccia la sua comparsa il termine «europeo», che ha una marcata accezione culturale, oltre che geografica. Il solco scavato tra i due mondi pare insomma incolmabile, specialmente all'indomani della conquista turca. Se infatti in un primo tempo si era registrato un riavvicinamento (in nome della cristianità) tra le due aree, la caduta di Costantinopoli non fa altro che accentuare il reciproco senso di estraneità. Con la conseguenza, per certi versi paradossale, che l'uscita dei Greci dall'Europa sancisce l'ingresso dei popoli (in particolare Ungheria, Transilvania e Polonia) che, trovandosi al confine con l'impero ottomano, fungono da baluardo difensivo contro gli infedeli.
Nel frattempo è entrata in Europa anche la Germania, che ha ormai completato il suo processo di civilizzazione. In quest'ottica si ripresenta dunque la vecchia contrapposizione con i barbari, coloro cioè – come sottintende Piccolomini quando parla di europei – che sono rimasti estranei alla tradizione di Roma e non sono imbevuti di cultura classica. Con tutta evidenza, è presente in questa concezione dell'Europa la rivendicazione di una pretesa superiorità culturale, sulla base di quelli che di lì a poco diventeranno i pilastri dell'Umanesimo. Anticipando quindi per certi versi Voltaire, i dotti del Rinascimento immaginano l'Europa come una comunità di letterati, uniti – scrive Chabod – «nel culto della intelligenza». Dapprima – è bene specificarlo – questa affermazione di preminenza culturale si diffonde tra gli umanisti italiani, che tendono ad emarginare in quanto barbaro tutto ciò che proviene dal nord Europa (si pensi alla chiusa del Principe di Machiavelli, il quale esorta Lorenzo de' Medici con le parole: «A ognuno puzza questo barbaro dominio»); ma con gli anni l'Umanesimo si espande, e in autori quali Erasmo da Rotterdam il senso di Europa si fa vivo, forse proprio perché ha varcato i confini dell'Italia. Nel Rinascimento Europa è quindi sinonimo di cultura. Di una cultura, si badi, ancora strettamente connessa con la religione, ben diversa da quella che avranno in mente, secoli più tardi, gli illuministi. «La cultura – conclude Chabod – è [...] cresciuta di statura, quasi portandosi all'altezza della fede, ma quest'ultima resta pur sempre "primogenita" per dirla con parole dantesche, degna di reverentia da parte della cultura. Ecco perché [...] il termine generalmente usato, e con perfetta coerenza, è ancora christianitas». (Continua)

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venerdì 23 maggio 2014

La travagliata ricerca di una religione civile per l'Italia unita (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 maggio 2014)

All'inizio del Novecento, anche per contrastare sul piano della mobilitazione socialisti e cattolici, nella veste di nuovi e agguerriti sacerdoti del culto della patria si proposero i nazionalisti, i quali però non si professavano più semplici seguaci della religione civile (di stampo liberale) della tradizione risorgimentale, bensì apostoli di un credo incentrato sulla devozione alla nazione-divinità. Enrico Corradini, fondatore del movimento nazionalista, aveva come riferimento il culto giapponese degli eroi, della natura e dell'imperatore. Scriveva infatti nel 1904: «Il Giappone è il Dio del Giappone. La forza che questo popolo attinge alla religione è forza attinta nelle sue stesse viscere, gli eroi sono popolo del passato, la natura è la patria: v'è un'autoadorazione».
Il culto degli eroi era dunque fondamentale. Esso non andava inteso secondo la connotazione del rimpianto, ma come celebrazione delle eccellenze della nazione. «Mercé gli eroi – scrisse sempre Corradini – la nazione diventa patria, l'azione diventa religione». L'eroe, in altre parole, non è per i nazionalisti un semplice defunto da commemorare: esso, al contrario, incarna lo spirito della patria perpetuandolo, tenendolo in vita. L'accento è sulla morte come sacrificio, non più sulla morte come perdita, con la conseguenza che, giacché si riteneva fosse doveroso rendere devoto omaggio a chi avesse fatto dono di sé per la patria, ad essere celebrata era, indirettamente, anche la guerra. E dal momento che il sangue di chi si immola per la nazione acquistava valore salvifico, la guerra cessava di essere un mero teatro di morte, assurgendo a scenario dove la patria si mostra viva, ad occasione quasi provvidenziale per mettere alla prova i sentimenti nazionalistici di un popolo.
Nel caso della nazione italiana, che certo non poteva vantare un'esaltante tradizione di vittorie militari, la religione della patria a inizio secolo si connotò sempre più come culto del sacrificio. L'Italia aveva cioè bisogno di martiri, di passare attraverso una rivoluzione che consacrasse nel sangue il patriottismo dei suoi figli. La conseguenza di questa premessa era che, da atto barbarico, la violenza veniva riqualificata come mezzo purificatore, poiché – nelle previsioni dei nazionalisti – avrebbe consentito alla patria di rigenerarsi, di dare prova di vitalità. La guerra e la rivoluzione, scrive Emilio Gentile, acquistavano pertanto il significato di «eventi catastrofici attraverso i quali avviene una rigenerazione dell'uomo e si forma, attraverso l'esperienza della lotta e del sacrificio, un "uomo nuovo". Il mito della "rivoluzione italiana", alla vigilia del conflitto europeo, era già pervenuto a fondere guerra e rivoluzione nell'idea del "grande evento" palingenetico, che doveva creare finalmente la "nuova Italia", facendo compiere un altro passo, nell'ambito del mito nazionale, alla sacralizzazione della politica».
  Decisiva, nel favorire il consolidamento del culto della nazione, fu con tutta evidenza anche la crisi dei valori religiosi tradizionali, percepiti (dalle classi colte, s'intende) come sempre più inadeguati ad affrontare la progressiva secolarizzazione del mondo occidentale. Alla vigilia della Grande Guerra molti giovani – che avevano ricevuto un'educazione profondamente intrisa di patriottismo, ma proprio per questo si consideravano appartenenti ad una generazione "di mezzo" che aveva ereditato il Risorgimento e non aveva ancora avuto l'occasione di dar prova del proprio valore – ritenevano pertanto che fosse giunta l'ora del cimento, nella quale finalmente attuare una drastica rivoluzione dello spirito di un intero popolo. Essi, scrisse nel 1914 Vito Fazio-Allmayer su «La Voce», si comportavano da «increduli che cercano con ogni sforzo di crearsi una religione»; convinti di attraversare una crisi epocale di valori e certezze, avevano assoluto bisogno di credere in una causa, di crearsi una nuova fede. Questo, come sottolineò Carlo Rosselli, fu il motivo per il quale molti volontari combatterono nella Prima guerra mondiale: essi si sentivano animati dal desiderio di «immolarsi anima e corpo ad una causa – quale che fosse – purché capace di trascendere i meschini motivi della vita di ogni giorno».
La tragedia della guerra, nella quale molti sperimentarono i drammatici effetti della morte di massa, favorì da un lato il recupero del sentimento religioso tradizionale, ma dall'altro diede impulso proprio alle forme più estreme di divinizzazione della patria in armi, schierata contro il secolare nemico in quella che la propaganda militarista descriveva come la quarta guerra d'indipendenza. Si doveva credere, in sostanza, che nelle trincee si andava a morire per un motivo valido, per una nobile causa. Il conflitto europeo fece sì che i miti del sacrificio e del cameratismo, uniti al culto dei caduti, dei martiri e degli eroi, fossero trasferiti dai campi di battaglia alla politica, con l'idea che se la nazione era in grado di portare finalmente a compimento il progetto rivoluzionario di Mazzini con le armi in pugno, tanto più avrebbe dovuto mostrarsi animata da fervore patriottico nella gestione dei propri affari interni. Come bene intuì D'Annunzio, la guerra creava le premesse perché anche la politica, come già la patria, divenisse oggetto di culto. Il poeta pescarese fu il primo grande fautore della sacralizzazione della politica, un sacerdote laico che mutuò dalla religione tradizionale una congerie di simboli, liturgie e riti al fine di rafforzare la mistica della nazione. Il risultato fu la fusione di religione, politica ed arte, nel senso che la partecipazione alla vita pubblica doveva risultare, spiritualmente ma anche esteticamente, appagante e gratificante.
Nel dopoguerra, all'interno dell'arricchita simbologia nazionalista ricoprì un ruolo decisivo il culto dei caduti. Cimiteri di guerra e, soprattutto, monumenti alla memoria dei martiri della patria – che sorsero un po' ovunque per iniziativa di comuni, gruppi di cittadini e associazioni varie – divennero autentici spazi sacri in cui celebrare riti di sacralizzazione della nazione. Tra questi, il più solenne fu senz'altro la tumulazione sotto l'Altare della patria a Roma della salma del Milite Ignoto – trasportata in un vagone speciale che fu accolto ovunque da ali di folla giunta appositamente sul luogo di transito per rendere omaggio al feretro –, commovente cerimonia che si tenne il 4 novembre 1921, anniversario della vittoria della Grande Guerra. Le cerimonie della capitale furono, in assoluto, le più sentite nell'ancor breve storia dell'Italia unita. «L'apoteosi del Soldato ignoto è il ritorno alla religione della patria», commentò «L'Illustrazione italiana»: una religione di cui i fascisti, di lì a poco, si sarebbero proclamati unici e agguerriti custodi.
Il fascismo, infatti, ereditò e allo stesso tempo portò a maturazione il culto sacrale della nazione. Esso, come affermò Giovanni Gentile nel 1923, era «forza spirituale e religione», e come tale non era più disposto a tollerare la presenza di "miscredenti", insensibili al richiamo della nazione divinizzata. Dice bene lo storico Giordano Bruno Guerri quando scrive: «La giovane generazione che tornava dal fronte [...] aveva sviluppato una sensibilità fortissima a determinati richiami: la violenza come necessità, l'obbedienza ferrea alla gerarchia, le celebrazioni liturgiche, il culto dei caduti, l'esaltazione dell'azione e del sangue, la scarsa valutazione per la vita del nemico. Il fascismo avrebbe avuto gioco facile nell'applicare gli stessi atteggiamenti alla propria ideologia, che venne presentata come la sintesi, il culmine e il passo successivo del Risorgimento e del conflitto mondiale».
Non è sbagliato, pertanto, affermare che all'inizio degli anni Venti il fascismo trovò terreno fertile per l'affermazione (e l'imposizione) di una politica sacralizzata, incentrata sul culto totalizzante della nazione. Nelle intenzioni di Mussolini, il neonato PNF doveva assolvere la missione di portare finalmente a compimento la rivoluzione italiana avviata con il Risorgimento. Al riguardo, già sul finire del 1920 – come scrisse su «Il Popolo d'Italia» – il futuro duce aveva le idee chiare: «Noi lavoriamo alacremente per tradurre nei fatti quella che fu l'aspirazione di Giuseppe Mazzini: dare agli italiani il "concetto religioso della nazione" [...]. Gettare le basi della grandezza italiana nel mondo, partendo dal concetto religioso dell'italianità [...], deve diventare l'impulso e la direttiva essenziale della nostra vita».

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venerdì 16 maggio 2014

La travagliata ricerca di una religione civile per l'Italia unita (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 maggio 2014)

La Rivoluzione francese lasciò in eredità, tra le altre cose, quella che lo storico Emilio Gentile definisce «la concezione dello Stato come educatore del popolo nel culto della nazione». Si trattava, in sostanza, di un patriottismo mistico, già individuato da Rousseau come l'essenza di un'autentica religione civile fondata sul valore dominante della sacralità della collettività nazionale. Il che, in altre parole, significava appunto conferire carattere religioso alla politica e investire lo Stato di una missione civilizzatrice ed educatrice.
In Italia questi elementi sono riscontrabili durante l'intero corso del Risorgimento. Precursori del culto della patria erano stati tanto i giacobini – i quali sul finire del XVIII secolo avevano diffuso la parola d'ordine della rigenerazione morale attraverso la rivoluzione – quanto la massoneria, che all'indomani dell'unità aveva gettato le basi di una religiosità laica necessariamente anticattolica. Lo stesso Gioberti, seppur da un'opposta prospettiva volta a conciliare patriottismo e religione tradizionale, aveva educato intere generazioni al culto di una Terza Italia destinata ad esercitare un «primato morale e civile» sugli altri popoli. Tuttavia fu Giuseppe Mazzini il primo vero apostolo dell'italianità, intesa come religione di una patria alla quale il popolo doveva donarsi integralmente mediante atto di fede. Per il rivoluzionario genovese la mistica della nazione aveva come caposaldo la formazione di una comunità di credenti pronti al sacrificio per il bene della nazione. A suo parere una vera unità politica non poteva prescindere dall'unità morale. Il suo progetto politico prevedeva pertanto «un'Italia sorta per sagrificio e virtù del suo popolo dal sepolcro, purificata d'ogni colpa da una espiazione d'oltre a tre secoli, splendida d'entusiasmo e di fede, forte della coscienza nelle battaglie combattute e di vittorie conquistate col proprio sangue».
La delusione di Mazzini per l'esito insoddisfacente (a causa della mancata unificazione morale del popolo italiano) di un Risorgimento che altro non era stato che un ingrandimento territoriale del Piemonte sabaudo fu all'origine della nascita del mito della rivoluzione nazionale incompiuta. Questa idea, che si basava sul presupposto che l'Italia monarchica avesse fallito la sua missione civilizzatrice, sarebbe rimasta a lungo latente, per poi riemergere con prepotenza a sostegno dell'interventismo del 1914-15 prima, e della rivoluzione fascista poi. Mazzini, va precisato, non concepiva la sacralizzazione della patria come rinuncia alla libertà da parte del singolo. Tuttavia è difficile immaginare, nel concreto, di riuscire a conciliare la dedizione mistica alla causa nazionale con la concessione all'individuo di un'ampia autonomia decisionale.
Se però il mazzinianesimo fu la premessa di forme radicali di religione politica, questo non significa che anche lo Stato italiano postunitario non avvertisse come urgente il problema della formazione di un culto laico della patria. «Fare gli italiani», secondo la celebre formula di D'Azeglio, divenne pertanto un obiettivo dichiarato dei governi liberali della seconda metà dell'Ottocento, essendo evidente alla classe dirigente dell'epoca che occorreva legittimare un Risorgimento cui le masse erano rimaste estranee (quando non apertamente ostili), al fine di plasmare una coscienza collettiva che prendesse il posto delle divisioni che ancora laceravano la comunità nazionale. Francesco De Sanctis, storico della letteratura e ministro dell'Istruzione nel governo Cavour, fu molto chiaro su questo punto: «Fatta l'unità politica – disse nel 1874 tenendo una lezione su Mazzini –, manca l'unità intellettuale e morale fondata sull'unità religiosa». E con religione intendeva «il sentimento del sacrifizio individuale, il dovere uscir da sé e mettersi in comunicazione con gli altri pel bene di tutti».
Il problema, fermi restando questi propositi, era però di duplice natura. Quale religione adottare per fare gli italiani? E, soprattutto, quali mezzi adoperare? La volontà comune era quella di conciliare patriottismo e libertà, risultato che si tentò di raggiungere puntando essenzialmente sulla scuola e sull'esercito. Da un lato, infatti, i governi liberali si preoccuparono di diffondere l'istruzione elementare, nella convinzione che la scuola potesse fungere da chiesa laica dove insegnare – come previsto dalla legge Coppino del 1877, che estese l'obbligo scolastico fino ai nove anni di età – «le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino». Dall'altro si volle trasformare il servizio militare in un'occasione per affratellare gli italiani, in una sorta di palestra in cui "allenare" il patriottismo di una comunità che, sotto le armi, trovava finalmente modo di celebrare il culto, unificante, della nazione.
La volontà di definire una religione della patria non interessò, ad ogni modo, solo la scuola e l'esercito. Altre iniziative di rilievo furono l'istituzione delle feste civili (quella dello Statuto e dell'Unità d'Italia, ma anche quella del 20 settembre – anniversario della breccia di Porta Pia –, che divenne occasione per ribadire il proposito di contendere alla Chiesa il primato nel campo dell'educazione delle coscienze) e le celebrazioni liturgiche in occasione di funerali o dell'inaugurazione di monumenti commemorativi. Grandiosi, in tal senso, furono nel 1878 l'estremo saluto al «padre della patria» Vittorio Emanuele II (un rito finalizzato all'esaltazione della monarchia quale principale artefice dell'unità nazionale) e l'edificazione, tra il 1870 e il 1893, dell'Ossario e della Torre – dedicata al re sabaudo – nei luoghi della battaglia di San Martino.
Tuttavia, tanto le celebrazioni quanto i monumenti (concepiti come spazi sacri nei quali celebrare il culto della patria) ebbero un'efficacia pedagogica tutto sommato relativa. Il problema di fondo della liturgia civile era il forte accento posto sul rimpianto, sul dolore, sul senso di vuoto per la perdita. Come sottolinea Emilio Gentile, «mancava, a questi riti funebri, lo spirito vitalistico ed esaltante del mito comunitario della rigenerazione e della rinascita attraverso il sacrificio della vita»; col risultato che «piuttosto che riti di fede nella vita e nel futuro della patria, essi finivano con l'apparire come strazianti manifestazioni di cordoglio di una collettività che si sentiva abbandonata dai suoi santi protettori».
Oltre a ciò, un grosso ostacolo era rappresentato dalle continue divisioni in seno a una comunità che si era costituita in nazione attraverso un processo da più parti interpretato come frettoloso. Il Risorgimento, a ben vedere, aveva lasciato in eredità una religione della patria che non poteva non risentire dei contrasti tra monarchici e mazziniani, tra liberali e cattolici e, sul finire del secolo, tra istituzioni in senso lato e l'arrembante movimento socialista. La classe dirigente dell'epoca era inoltre decisamente diffidente nei confronti delle masse, e si dimostrò per questo riluttante a ricorrere sistematicamente a riti e simboli in grado di suscitare entusiasmo tra le folle. Specialmente dopo la nascita del PSI, l'immagine di piazze stracolme evocava immediatamente quella della rivolta popolare, il più angosciante degli spauracchi.
Con l'inizio del nuovo secolo i ceti borghesi si convertirono, pertanto, a forme più controllate di patriottismo, lasciando in sostanza che ad occuparsi della rigenerazione morale degli italiani fossero gli intellettuali, per i quali – forse anche per reazione alla fiacchezza generalizzata dei costumi – il culto della nazione era assurto a supremo valore e dovere civico. Il risultato fu un inevitabile ribellismo: nel momento cioè in cui lo Stato faceva un passo indietro, il patriottismo di stampo religioso cominciò ad essere vissuto come forma di antagonismo vitalistico da opporre all'apatia di una classe dirigente considerata inadeguata. Se poi a questa diffusa frustrazione si aggiunge il senso di vuoto provocato dal declino della religione tradizionale, ecco che risulta più comprensibile l'enorme importanza che molti intellettuali del primo Novecento attribuivano al culto di una patria intesa quale comunità di individui animati da una nuova fede. Pur trattandosi di movimenti elitari (si pensi a «La Voce» di Giuseppe Prezzolini), era già ben delineato in essi l'ardente desiderio di plasmare l'italiano, rigenerato, dell'avvenire. Chi aveva le idee chiare in tal senso era Mussolini. Prima ancora che lo scoppio della Grande Guerra imponesse una riflessione generale e a più livelli sul significato del patriottismo, il futuro duce – all'epoca fervente socialista – si esprimeva in questi termini: «Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l'umanità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne perché dà l'illusione che le montagne si muovano. L'illusione è, forse, l'unica realtà della vita». Un concetto, questo, in cui è facile riscontrare l'essenza della sacralizzazione della politica di epoca fascista. (Continua)

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venerdì 9 maggio 2014

Rinaldo d'Este, il cardinale che rinunciò alla porpora per diventare duca

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 maggio 2014)

Nel 1694, alla morte – prematura e senza eredi – di Francesco II, la successione nei domini estensi fu raccolta dal cardinal Rinaldo, figlio di Francesco I, e quindi zio del precedente duca. Giunto al potere per volontà testamentaria del nipote, il nuovo sovrano non ebbe difficoltà ad ottenere dal papa il permesso di rinunciare alla porpora cardinalizia, ricevendo immediatamente anche il riconoscimento imperiale.
Il suo primo significativo atto di governo fu il matrimonio con Carlotta Felicita di Brunswick Lüneburg, nipote di Ernesto Augusto, elettore di Hannover del Sacro Romano Impero nonché discendente – al pari degli Este – di Alberto Azzo II. La scelta della consorte fu dettata dalla volontà di ricongiungere le due casate, al fine di cementare l'alleanza con il partito imperiale, dopo che la politica di Francesco II aveva di fatto allontanato gli Estensi dall'orbita francese. Cinque anni dopo il matrimonio, celebrato con grande sfarzo per procura ad Hannover nel 1695, Rinaldo richiamò a Modena Lodovico Antonio Muratori – che si trovava a Milano in qualità di bibliotecario dell'Ambrosiana –, commissionandogli il vaglio delle carte dalle quali dovevano emergere prove documentali che attestassero la storicità del legame con la casata della moglie.
Il riavvicinamento all'Impero fu confermato in quegli anni con un altro matrimonio, quello – celebrato a Modena nel 1699 – tra Amalia, sorella di Carlotta Felicita, e Giuseppe d'Asburgo, figlio dell'imperatore Leopoldo I. Nelle intenzioni di Rinaldo la scelta di campo non implicava però la rinuncia al tradizionale principio della neutralità in caso di conflitto europeo, strategia pressoché obbligata per un piccolo Stato incapace di opporsi alle grandi potenze. Così, quando nel 1702 scoppiò la guerra di successione spagnola (aspra contesa tra la Francia e la Spagna da una parte e gli Asburgo dall'altra, motivata dal rifiuto di questi ultimi di riconoscere il duca d'Angiò Filippo di Borbone – nipote di Luigi XIV – quale legittimo erede di Carlo II, nella prospettiva di scongiurare una futura unione, ventilata dal Re Sole, delle corone di Parigi e Madrid), il duca – scrive Luciano Chiappini – «cercò di non rompere i ponti con nessuno, accontentando nei limiti del possibile francesi e spagnoli da un lato ed imperiali dall'altro».
Il tentativo di mantenere una rigida neutralità era tuttavia destinato a fallire. Intricati nodi, infatti, vennero al pettine allorché il principe Eugenio di Savoia, comandante delle truppe imperiali, intimò agli Este di cedere il forte di Brescello, in precedenza negato ai francesi. Per tutta risposta questi ultimi – dopo che l'esercito franco-spagnolo aveva respinto gli imperiali – occuparono Reggio e Modena (tempestivamente abbandonata dal duca, il quale, dopo avere nominato una reggenza, era riparato con la sua corte a Bologna), e in seguito smantellarono le fortificazioni della stessa Brescello. Per il ritorno di Rinaldo si dovette attendere il 1707, ovvero la fine della guerra con il conseguente abbandono delle terre estensi da parte dei francesi sconfitti.
Modena, del tutto impossibilitata a fare la voce grossa, aveva di fatto subito le conseguenze di un conflitto in nessun modo voluto o provocato. Al suo ritorno nella capitale Rinaldo dovette pertanto far fronte ad una situazione critica, dal momento che i francesi, durante l'occupazione, avevano vessato la popolazione con pesanti tributi e, evidentemente non paghi, si erano persino fatti ingolosire dalle argenterie e dagli arredi del guardaroba ducale. Le difficoltà incontrate dal duca nel tentativo di risanare le casse dello Stato e nella gestione della delicatissima politica estera post-bellica sono state così inquadrate da Luigi Amorth: «Rinaldo cercò dall'Impero qualche compenso ai molti danni subiti ed ebbe promesse di indennizzi, che si ridussero poi alla vana speranza di poter rivendicare Comacchio, occupata da truppe imperiali in un momento di urto col Papa, e all'acquisto di Mirandola e Concordia, confiscate al duca Pico che si era battuto dalla parte francese, per la bella somma di oltre duecentomila dobloni spagnoli e con la conseguenza di comprometterlo definitivamente nella sua teorica situazione di principe neutrale. Da allora fu decisamente considerato partigiano dell'Impero».
La questione che più assillava il duca era, ad ogni modo, quella finanziaria. Già nel 1695 egli aveva infatti prospettato un quadro decisamente allarmante nella sua corrispondenza con Vienna: «Siamo indebitati e tutte le sicurezze si sono adoperate: le gioie e gli argenti furono dal Sig. Duca mio nipote impegnate. Noi abbiamo contratti nuovi debiti in Venezia, Genova, Bologna e Roma». L'emergenza (forse, va detto, in parte ingigantita dalle parole di Rinaldo, intenzionato a sottrarsi all'onere – divenuto prassi ai tempi del suo predecessore – del mantenimento di truppe imperiali sul territorio estense) si tradusse quindi in una politica di rigida austerità e di rigorosa moralizzazione dei costumi. Balli e divertimenti furono ridotti al minimo, venne curata con severità la riscossione delle imposte e ci si preoccupò di migliorare le rese agricole. Lo stesso Rinaldo, seppur dispotico e autoritario, voleva dare il buon esempio: per questo – scrive Riccardo Rimondi – «si alzava presto, seguiva con rigore i precetti religiosi e si coricava alle dieci».
A turbare il sonno del duca non era però solo il delicato problema dell'indebitamento dello Stato: altrettanto spinosa fu l'aspra controversia con Roma per il caso di Comacchio, feudo di investitura imperiale che, all'epoca della Devoluzione di Ferrara alla Santa Sede (1598), era stato (indebitamente, secondo il parere degli Estensi) incamerato dalla Chiesa. La questione, da anni oggetto di continui botta e risposta tra Modena e la Corte pontificia, era tornata di attualità nel 1708, con l'occupazione di Comacchio da parte delle truppe imperiali (motivata non tanto dalla volontà di assecondare le richieste estensi, quanto dall'intento di fare pressioni su Clemente XI affinché riconoscesse Carlo d'Asburgo – il rivale di Filippo di Borbone, che successivamente sarebbe diventato imperatore come Carlo VI – quale legittimo re di Spagna). Logico che, in quelle circostanze, Modena scorgesse il pretesto per ribadire le proprie rivendicazioni, che furono saggiamente affidate da Rinaldo alla penna di Muratori. Questi, incaricato di trovare nei documenti le prove che potessero legittimare il recupero delle terre contese nel Ferrarese, diede infine alle stampe, nel 1712, la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio, in cui abilmente confutava le argomentazioni addotte dalla Santa Sede. Tuttavia, come del resto ampiamente previsto dallo stesso Muratori («Le carte e l'erudizione non conquistano Stati», aveva realisticamente scritto a Leibniz), ogni sforzo fu vano, e nel 1725 la Chiesa rientrò pienamente in possesso delle terre contese.
Uguale sorte ebbe il tentativo di intromettersi nella successione a Parma e in Toscana. Rinaldo, dando prova di una certa ingenuità, avanzò la propria candidatura a uno dei due troni, cercando appoggi presso la corte di Versailles. Risultato delle trattative fu il matrimonio del primogenito Francesco con Carlotta Aglae, figlia del reggente di Francia Filippo d'Orleans: un'unione che non solo non servì a nulla a livello politico, ma che si rivelò anche in tutti i sensi fallimentare a causa del difficile carattere della futura duchessa.
Non per questo, ad ogni modo, Rinaldo rinunciò alla strategia delle alleanze matrimoniali (una delle poche armi in dotazione ai piccoli Stati dinastici dell'epoca). Nel 1728 fu infatti la volta della figlia Enrichetta, data in sposa ad Antonio Farnese, ultimo duca di una casata in estinzione. L'obiettivo era evitare che Parma, in assenza di successori, cadesse nelle mani di una potenza europea, con tutti i rischi che una tale prospettiva comportava per il debole Stato estense. Ma la mancata nascita di un erede vanificò anche questo disegno: morto Antonio nel 1731, Parma passò dai Farnese ai Borbone di Spagna.
Nel frattempo Rinaldo, che certo si può dire non fosse assistito dalla buona sorte, aveva perso nel 1727 il figlio prediletto, il giovane Gian Federico. Per il duca, ormai anziano, fu un duro colpo, cui si aggiunse, sei anni più tardi, l'umiliazione per un nuovo esilio a Bologna. Era infatti scoppiata la guerra di successione polacca e Rinaldo, prontamente dichiaratosi ufficialmente neutrale, incappò nell'ennesimo episodio sfortunato: una lettera segreta in cui offriva il proprio aiuto all'Impero fu intercettata dai francesi, che non esitarono ad occupare Modena.
Nella capitale estense il duca poté tornare solo nel 1736, accolto da grandi festeggiamenti. Per la sua lealtà (anche se non può escludersi che si trattasse in realtà del conguaglio di un precedente prestito) l'imperatore gli concesse l'investitura dei feudi di Novellara e Bagnolo; ma Rinaldo non ebbe il tempo di godere di questo – seppur limitato – successo diplomatico. L'anno seguente, all'età di ottantadue anni, si spense lasciando il ducato in eredità al figlio Francesco III.

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