lunedì 24 marzo 2014

La duchessa dimenticata: Adelgonda di Baviera nel centenario della morte

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 marzo 2014)

Monaco, 28 ottobre 1914: all'età di novantun anni moriva Adelgonda di Baviera, moglie di Francesco V d'Austria-Este, ultimo duca di Modena, Reggio, Massa e Carrara. Da quel giorno è trascorso un secolo esatto, ovvero i canonici cento anni che, normalmente, sono presi a pretesto per l'organizzazione di cerimonie commemorative e per riempire qualche vuoto negli scaffali delle librerie. Eppure della duchessa Adelgonda – a dispetto dell'occasione propizia – quasi nessuno parla (forse anche perché solo una sparuta minoranza ha sentito pronunciare il suo nome almeno una volta). Un secolo esatto, si diceva, è trascorso: cento anni come quelli che ci separano dallo scoppio della Grande Guerra, evento di ben altra portata di cui, già in questi primi mesi del 2014, si sta parlando e scrivendo moltissimo. Si dirà: un conflitto mondiale merita senz'altro maggiore risonanza della morte della moglie di un duca. Il che è sacrosanto, purché però non si passi all'eccesso opposto. Da una parte, infatti, finisce per trovare posto – accanto, s'intende, a numerose iniziative meritorie – anche una fastidiosa retorica, non di rado alimentata da un profluvio di pubblicazioni scadenti e tutt'altro che rigorose sotto il profilo scientifico; dall'altra, al contrario, regna incontrastato il più assoluto disinteresse.
Elena Bianchini Braglia, autrice di un'appassionata biografia di Adelgonda (pubblicata da Terra e Identità nel 2003), fornisce la seguente spiegazione del silenzio che ha avvolto per tutti questi anni la figura dell'ultima duchessa di Modena: «Il regime ducale è morto ormai da un secolo e mezzo e nessuno può ragionevolmente pensare ad un suo possibile ritorno. Eppure ci si ostina a trattare gli sconfitti da acerrimi nemici, spesso coprendoli di menzogne o, quando ciò proprio non risulta possibile, come nel caso della Duchessa Adelgonda, facendoli scivolare nell'oblio».
Si tratta di un'opinione difficilmente confutabile: Modena, basta consultare un banale Tuttocittà e cercare riscontri nell'odonomastica cittadina per averne conferma, sembra non ricordare volentieri il proprio passato di capitale sotto la dinastia degli Este. Nessuna via – lo sottolineiamo, nessuna – del tessuto urbano è intitolata a un duca estense; nemmeno a Cesare – giusto per fare un nome significativo, trattandosi del duca che nel lontano 1598 scelse Modena come capitale dopo aver perso Ferrara, incamerata dallo Stato pontificio – è stato riservato questo privilegio. E non si dica, a meno che non si voglia sprofondare nel grottesco, che manca lo "spazio": illustri personaggi vissuti nel periodo ducale e di certo non fautori di un cambio di regime (anzi!) – si pensi a Lodovico Antonio Muratori, a Raimondo Montecuccoli, a Gerolamo Tiraboschi –, seppur anch'essi poco conosciuti e studiati, sopravvivono quantomeno nelle targhette che identificano alcune strade della città. Se poi si riflette sul fatto che l'odonomastica modenese, con tutto il rispetto che si deve alla memoria di questi uomini, trascura gli Estensi per intitolare vie a Che Guevara, Kennedy o Lumumba (figure sulle quali ognuno è libero di pensarla come meglio crede, ma che – si converrà – non hanno nulla a che vedere con la storia di un capoluogo padano), ecco che risulta chiaro che le istituzioni non hanno interesse per un certo tipo di storia, che pure è la storia della dinastia che ha governato Modena per secoli.
C'è poi, forse, un'altra ragione per la quale – scrive Elena Bianchini Braglia – Adelgonda di Baviera è pressoché sconosciuta ai più: per l'intera sua vita, la duchessa, «da un punto di vista strettamente politico, fu tutt'altro che un personaggio di primo piano». Al contrario, si può dire che «deliberatamente scelse di vivere all'ombra del marito». Sestogenita di Ludwig I, re di Baviera, e di Teresa Carlotta di Sassonia-Hildburghausen, quando il 30 marzo 1842 sposò Francesco (figlio ed erede del duca Francesco IV d'Austria-Este), la giovane principessa aveva da poco compiuto diciannove anni. Giunse a Modena accolta da calorosi festeggiamenti, che si protrassero per giorni. Donna dotata di spiccata intelligenza, colta e profondamente devota, Adelgonda fu molto apprezzata dal popolo, al punto che – ha scritto Paolo Forni – nessuno, «nemmeno i più agguerriti avversari del regime ducale, hanno osato levare voci men che riguardose» sul suo conto.
Divenne duchessa nel 1846, quando il marito, morto Francesco IV, colse l'eredità paterna assumendo il nome di Francesco V. La sua, però, non fu affatto una vita semplice. Già nel 1848 prese la via dell'esilio, per prevenire eventuali eccessi della rivoluzione che in quell'anno minacciava di sovvertire gli equilibri europei. Lontano da Modena, nei pressi di Bolzano, Adelgonda diede alla luce una bambina (l'unico figlio che ebbe), che tuttavia sarebbe morta appena pochi mesi dopo.
Per non dover affrontare il viaggio durante la gravidanza, e in seguito per non mettere a repentaglio la salute della primogenita, la duchessa rientrò nella capitale estense solo nel giugno del 1849 (Francesco V, anch'egli allontanatosi da Modena durante i tumulti, l'aveva preceduta di qualche mese per ottemperare ai suoi impegni di governo, dopo che l'Austria, vittoriosa nella battaglia di Custoza, aveva posto termine alla prima guerra d'indipendenza). In breve tempo la vita nel ducato tornò alla normalità: per altri dieci anni Francesco e Adelgonda governarono in una Modena dove si registrarono ben pochi disordini, riscuotendo in più di un'occasione un tangibile consenso popolare, come quando, nel 1855, si prodigarono con dovizia di mezzi per contenere gli effetti di una devastante epidemia di colera, che costò la vita a 6.700 persone. Il regime ducale, in altre parole, pareva saldo, come del resto la decisione di papa Pio IX di recarsi in visita nella capitale estense si incaricò di dimostrare. Quando il pontefice fece il suo ingresso trionfale in città era il 2 luglio 1857: difficile, per i contemporanei, prevedere che appena due anni dopo il duca e sua moglie avrebbero di nuovo abbandonato Modena, ma questa volta definitivamente.
Il 1859 fu infatti l'anno in cui maturarono le premesse dell'unificazione nazionale, con la travolgente vittoria dei franco-piemontesi a Magenta (4 giugno) nel quadro della seconda guerra d'indipendenza contro l'Austria. A quella data, per precauzione Adelgonda era già lontana dalla capitale estense, mentre Francesco V salutò Modena l'11 giugno, seguito dagli oltre tremila soldati di quella che sarebbe passata alla storia come Brigata Estense. Sei giorni dopo, in città giunse il commissario regio piemontese Luigi Carlo Farini, il quale, assunta dopo l'armistizio di Villafranca la carica di dittatore e in seguito quella di Governatore delle Provincie dell'Emilia, resse il governo nei territori dell'ormai ex ducato, coordinando le operazioni di voto in occasione dei plebisciti che l'11 e il 12 marzo 1860 decretarono l'annessione al Regno di Sardegna.
Il clima di fermento rivoluzionario travolse in poco più di un anno l'intera penisola. In cambio di Nizza e della Savoia, Napoleone III non si oppose alle annessioni nell'Italia centrale, mentre la spedizione dei Mille, la benevola neutralità inglese e l'isolamento dell'Impero asburgico di fatto consentirono che il Risorgimento terminasse con un esito imprevisto. Il 17 marzo 1861, il primo Parlamento nazionale sanciva la nascita del Regno d'Italia, proclamando Vittorio Emanuele II re «per grazia di Dio e volontà della nazione».
A questi eventi, Adelgonda e Francesco assistettero con rassegnazione dall'esilio. Trascorsero il resto della vita prevalentemente a Vienna e nel castello di Wildenwart, in alta Baviera. L'ultimo loro atto di sovrani fu lo scioglimento della Brigata Estense, che prese congedo il 24 settembre 1863, a Cartigliano Veneto, al termine di una commossa cerimonia. Rimasta vedova nel 1875, Adelgonda visse ancora a lungo, spegnendosi il 28 ottobre 1914, all'età di novantun anni. Come Francesco V, è sepolta nella cripta della chiesa dei Cappuccini di Vienna, dove riposano i membri della dinastia imperiale asburgica.
Oggi, a distanza di un secolo dalla sua morte, si presenta l'occasione di celebrarne la memoria. A prescindere dal giudizio che è possibile dare della sua vita, sarebbe opportuno tenere conto del fatto che l'obiettivo primario della storia non è emettere sentenze: anche ammesso – e non è certo questo il caso – che Adelgonda fosse espressione di un regime tirannico e sanguinario, non avrebbe comunque senso rifiutarsi di conoscere il suo passato. Perché questo è, in definitiva, il vero compito della storia: permettere all'uomo, nel bene e nel male, di ricordare. Nessuno infatti merita la damnatio memoriae. Più che la voce dei morti, un paese libero dovrebbe temere il silenzio dei vivi.

Focus:

Martedì 25 marzo, su invito dell’associazione culturale Terra e Identità, sarà a Modena il Console Generale Aggiunto della Repubblica Federale Tedesca Peter Von Wesendonk, per visitare i luoghi della vita modenese di Adelgonda di Baviera. In mattinata il Console incontrerà il Sindaco Giorgio Pighi, poi, accompagnato da alcuni componenti del Comitato che si è creato per organizzare le celebrazioni di Adelgonda, visiterà il Palazzo Ducale aperto per l’occasione, con la consueta disponibilità, dalle autorità militari.
Questa visita riveste una particolare importanza, poiché si tratta del primo passo per creare una collaborazione tra Modena e lo Stato della Baviera nell’organizzazione di celebrazioni che possono assumere un risvolto promozionale reciproco, con ricadute positive sul turismo.
Chi fosse interessato a ricevere informazioni sui lavori del Comitato per le celebrazioni del centenario della morte di Adelgonda di Baviera, può contattare l’associazione Terra e Identità, che fornisce l’appoggio logistico. Tel. 059 212334 - E-mail info@terraeidentita.it

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mercoledì 19 marzo 2014

«L'uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare»: Mussolini, Pio XI e le trattative per il Concordato

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 marzo 2014)

Nel clima turbolento dei mesi immediatamente seguenti alla Marcia su Roma si tenne a Torino, nell’aprile del 1923, il congresso del Partito popolare. Il principale argomento di discussione fu la convivenza con il fascismo, tema scottante anche in considerazione del fatto che nel governo Mussolini, nonostante don Sturzo avesse manifestato il suo disaccordo, erano presenti due ministri del PPI. Il sacerdote di Caltagirone pronunciò un discorso dal quale – rileva Francesco Malgeri – «usciva chiaro il disegno di un partito che nella concezione dello Stato, nella visione internazionale, nelle rivendicazioni sociali, nel rispetto della democrazia, delle libertà costituzionali e del parlamento, si poneva in antitesi con l’ideologia e i metodi del fascismo». La replica di Mussolini fu quanto mai scaltra. Siccome aveva in mente di far approvare una nuova legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo) – ed era al corrente che su questo terreno si sarebbe inevitabilmente scontrato con i popolari –, da un lato minacciò di intraprendere una dura campagna antireligiosa se il PPI avesse votato contro, dall’altro fece varare la riforma della scuola elaborata da Giovanni Gentile, che sapeva gradita ai vertici della Chiesa. Era la cosiddetta tattica «del bastone e della carota», che mirava a fare concessioni al Vaticano in cambio, sostanzialmente, della testa di don Sturzo e del suo partito. Come ha notato sempre Malgeri, oltre alle blandizie Mussolini «non mancò di usare veri e propri ricatti nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche, al fine di liquidare Sturzo, approfittando del fatto che il segretario politico del Partito Popolare era un sacerdote, soggetto alla disciplina e al dovere dell’obbedienza». E la Santa Sede – temendo che le violenze contro i cattolici si intensificassero – accontentò il capo del governo, invitando il segretario del PPI a dimettersi. La legge Acerbo fu così approvata, e il fascismo si consolidò ulteriormente. «Il Partito fascista avrebbe realmente tradotto in effetti la sua minaccia?», si è chiesto Gabriele De Rosa. Una risposta netta non è possibile. Certo è che – argomenta lo storico – don Sturzo, al di là delle pressioni, non se la sentì di rischiare e preferì cedere al ricatto fascista onde evitare ripercussioni sul partito.
Privato del carisma del suo storico leader, abbandonato al suo destino dalla politica di Pio XI e fatto oggetto di continui attacchi e devastazioni da parte dei fascisti, il PPI non seppe più risollevarsi. Alle successive elezioni del 1924 ottenne solo 40 seggi alla Camera e, in seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti, aderì alla «secessione dell’Aventino». Quando, il 16 gennaio del 1926 – ovvero pochi giorni dopo l'instaurazione della dittatura –, i deputati popolari decisero di rientrare a Montecitorio, i fascisti li allontanarono con la forza. Nel novembre di quello stesso anno, infine, in applicazione delle misure repressive emanate in seguito all’attentato di Anteo Zamboni al duce, il prefetto di Roma sciolse definitivamente il PPI. Parallelamente al partito furono soppresse anche le organizzazioni economiche e sociali del movimento cattolico: in particolare alla CIL fu negata la possibilità stessa di esistere, dal momento che i datori di lavoro sottoscrissero il Patto di Palazzo Vidoni, secondo il quale veniva riconosciuta ai soli sindacati fascisti la rappresentanza dei lavoratori.
Mussolini, nonostante il suo schietto anticlericalismo, si rendeva perfettamente conto che la risoluzione della «questione romana» avrebbe procurato alla sua persona un enorme consenso. In quest’ottica, nel 1923 chiese ed ottenne un incontro con il cardinal Pietro Gasparri, il quale – in sintonia con il capo del governo – convenne sull’opportunità di migliorare i rapporti tra Stato e Chiesa. I contatti si mantennero frequenti fino al 1926, quando cominciarono le trattative vere e proprie. Il 5 agosto Domenico Barone, consigliere di Stato, e Francesco Pacelli, fratello del futuro papa Pio XII, si incontrarono per la prima volta, e nell’ottobre dello stesso anno furono ufficialmente incaricati da governo e Santa Sede di condurre le trattative. Le difficoltà incontrate furono diverse. In particolare, in seguito all’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla, fu approvata una norma che vietava ogni altra organizzazione per l’educazione dei giovani e stabiliva lo scioglimento di quelle esistenti nei centri che contavano meno di 20.000 abitanti. Il papa volle evitare disordini e non protestò più di tanto; ma al contempo si irrigidì in materia di Concordato, ossia rispetto ai principi secondo cui regolare i rapporti tra Stato e Chiesa. Gli ostacoli furono comunque superati, anche perché un accordo era nell’interesse di tutti. L’11 febbraio 1929 vennero firmati i Patti lateranensi, che constavano di tre parti: un Trattato, secondo il quale veniva risolta la «questione romana» e la Santa Sede riconosceva «il Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano», in cambio dell’elevazione del cattolicesimo a religione di Stato e del riconoscimento di alcuni privilegi (su tutti la sovranità sul territorio del Vaticano); una Convenzione finanziaria, che prevedeva che lo Stato pagasse un risarcimento alla Santa Sede per la perdita del Patrimonio di S. Pietro; un Concordato, in base al quale venivano regolati i rapporti tra Stato e Chiesa. Quest’ultimo, tra le altre cose, aboliva gli strumenti della passata politica giurisdizionalista (placet ed exequatur), riconosceva effetti civili al matrimonio religioso e rendeva obbligatoria l’istruzione religiosa sia nella scuola elementare che nella media.
La firma dei Patti lateranensi segnò uno dei punti più alti della parabola di Mussolini. Lo stesso Pio XI definì il duce «l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare», e in questo modo – come ha rilevato Giorgio Candeloro – implicitamente diede «al regime fascista un riconoscimento morale […] che i suoi predecessori avevano sempre negato ai governi liberali». Di fatto, la fiducia del pontefice in Mussolini si dimostrò così salda da reggere ad urti potenzialmente destabilizzanti, come gli assassinii di don Minzoni (23 agosto 1923) e di Matteotti. A nulla valsero gli appelli dei popolari antifascisti affinché il Vaticano prendesse le distanze da quello che Emilio Gentile ha definito «“cesaropapismo” in camicia nera», ovvero un novello paganesimo che «idolatrava la nazione e lo Stato come le divinità di una nuova religione». Pio XI aveva ormai scelto di puntare su Mussolini sia per la tradizionale ostilità della Chiesa nei confronti di quello Stato liberale che l'aveva privata del potere temporale, sia per il timore che la democrazia costituisse l'anticamera del bolscevismo.
È sufficiente, del resto, rileggere due giudizi del pontefice a proposito di Mussolini – espressi nei primi anni Venti – per comprendere che difficilmente la Santa Sede avrebbe fatto marcia indietro.
Nel 1921, durante un colloquio privato cui assistette un giornalista francese, il futuro Pio XI si era sbilanciato a proposito del duce: «Mussolini, un uomo formidabile: avete compreso bene? Formidabile [...] che avanza a grandi passi e invade tutto come una forza di natura. È un neoconvertito, perché viene dai ranghi dell’estrema sinistra, e dei novizi ha lo zelo che lo spinge ad andare avanti. E poi, afferra dai banchi di scuola i suoi seguaci e, in un colpo, li innalza alla dignità di uomini, e di uomini armati. E li seduce, li fanatizza, regna sulla loro immaginazione. Vi rendete conto di quel che ciò significa, e quale forza è nelle sue mani? [...]. Lui è l’avvenire».
E ancora, due anni dopo, durante un colloquio con l'ambasciatore belga, il papa non aveva lesinato entusiastici elogi al capo del governo: «Mussolini non è un Napoleone, e forse neppure un Cavour, ma egli solo ha avuto una comprensione precisa di ciò che era necessario al suo paese per liberarlo dall’anarchia alla quale l’avevano ridotto un parlamentarismo impotente e tre anni di guerra. Vedete come abbia la nazione dietro di sé. Possa egli rigenerare l’Italia».
Nelle aspettative di Pio XI, Mussolini era quindi l'uomo inviato dalla Provvidenza per mezzo del quale Stato e Chiesa si sarebbero finalmente riconciliati dopo oltre mezzo secolo di «questione romana». Come ha scritto Gentile, si trattava di «restituire la Chiesa all’Italia e l’Italia alla Chiesa»: un progetto ambizioso, che riuscì solo in parte.

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giovedì 13 marzo 2014

La tassa volontaria: l’origine dello sfruttamento statale del gioco d'azzardo

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 marzo 2014)

Si sente spesso ripetere, in televisione o sui giornali, che gli italiani sono un popolo allergico alle tasse. Alte o basse che siano, quando si pronuncia la parola «imposta» l'abitante del Bel Paese storce inevitabilmente il naso, avvertendo come un senso di frustrazione per quello che non riesce a considerare altro che un furto legalizzato. La pressione fiscale – quante volte l'abbiamo sentito! – è così elevata che sembra quasi di lavorare gratis: avanti di questo passo, e in tasca alla gente (a quella che si dà da fare, s'intende) non resteranno nemmeno gli spiccioli.
Eppure, tra rate IMU, bolli, accise e chi più ne ha più ne metta, c'è – e non sono pochi – chi trova la voglia di pagare una gabella che lo Stato non impone, una sorta di contributo volontario a beneficio di un erario che, evidentemente, fa pena quanto un mendicante sul sagrato di una chiesa: si tratta della tassa del gioco. Cos'altro è, infatti, il gioco d'azzardo se non una tassa che il cittadino decide volontariamente di pagare, sedotto dalla prospettiva di riuscire a guadagnare ingenti somme di denaro senza il minimo sforzo? Al di là della legittima facoltà che ciascuno ha di spendere i propri soldi come meglio crede, il punto è che questo libero contributo in favore delle casse dello Stato sta assumendo rapidamente proporzioni preoccupanti: di fatto, nel momento in cui raggiunge il livello della dipendenza, il gioco – si passi il bisticcio di parole – cessa di essere un gioco, trasformandosi in grave patologia. La ludopatia, infatti, non è per nulla uno scherzo. Come ha messo in evidenza il dottor Claudio Ferretti (responsabile del Servizio Dipendenze Patologiche dell'AUSL di Modena) in occasione di un incontro del LIONS Estense tenutosi lo scorso 6 febbraio, quando il gioco diventa ossessione significa che dal vizio si è passati alla malattia, con conseguenti sintomi psichici, fisici e sociali. Giusto per fornire qualche dato, nel comune di Modena i giocatori sarebbero circa 70.000, dei quali oltre 2.000 patologici. E il trend, a causa soprattutto di slot-machine e videopoker – che, oltre ad essere presenti pressoché in tutti i bar, hanno il "vantaggio" di dare risposte immediate al giocatore sull'esito della puntata –, è in costante aumento.
Se si è deciso, con un pizzico di ironia, di giustapporre la ludopatia e l'insofferenza nei confronti dell'elevata pressione fiscale, non è stato – va da sé – per mancanza di rispetto nei confronti di un problema tutt'altro che trascurabile. Anzi, l'idea sarebbe proprio quella – suggerita anche nel corso dell'incontro summenzionato – di predisporre adeguate linee difensive sotto forma di prevenzione primaria, invitando i potenziali giocatori a riflettere su un dato di fatto: chi ci guadagna è, in primis, lo Stato. Altro che condanna morale del gioco e prese per i fondelli – ahimè così diffuse nelle pubblicità televisive – del tipo «gioca con cautela»!
Per lo Stato, infatti, il gioco d'azzardo è una gallina dalle uova d'oro. Cosa c'è di meglio, in effetti, che farsi regalare dei soldi dai cittadini? È questo, del resto, il ragionamento che sta alla base di quella che è senz'altro la svolta epocale nella storia del gioco d'azzardo, ovvero l'intuizione, da parte dell'autorità, che è molto più conveniente e redditizio sfruttare il gioco d'azzardo piuttosto che punirlo e condannarlo. Non si tratta, si badi, di una cosa scontata. Il gioco d'azzardo esiste più o meno da sempre, ma solo nel corso del XIII secolo (quindi in piena età comunale) si cominciò a pensare che una legittimazione controllata delle pratiche ludiche con scommesse di denaro avrebbe procurato enormi benefici di natura fiscale. È la comparsa, in altre parole, del cosiddetto datium ludi la prova che alla condanna morale del gioco – mai venuta meno, nemmeno ai giorni nostri – si era accostata una certa tolleranza, secondo una logica che, a ben vedere, è molto simile a quella che in molti paesi è oggi all'origine della tassazione delle prostitute. Trarre profitto dal gioco, in sostanza, equivale a degradare (o ad elevare, a seconda dei punti di vista) alcune forme di immoralità da reato a diritto, seppur censurabile, del singolo.
La questione, con tutta evidenza, è niente affatto secondaria. A partire dal Duecento, un po' in tutta Europa inizia a delinearsi una società dalla quale, pian piano, emerge un costume che oggi viene dato per scontato, ma che invece ha incontrato molte difficoltà prima di affermarsi. La condanna tradizionale del gioco – che in epoca romana e ancora nell'Alto Medioevo nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione – si fondava sul disprezzo per le forme di guadagno ottenuto non in conseguenza di attività meritorie, bensì con l'esclusivo aiuto della buona sorte. Ad essa poi, in età comunale, si aggiunse lo sdegno per lo spreco, dal momento che dopo la lunga depressione della tarda antichità il denaro aveva acquistato un valore come distintivo di qualità.
Non fu dunque un percorso facile quello che portò alla legalizzazione del gioco d'azzardo. Basti pensare che il re di Francia Luigi IX (il Santo), per contrastare quella che reputava un'abitudine degenerata, non solo proibì ai suoi funzionari di frequentare bische e taverne, ma giunse persino a vietare, nel 1254, la fabbricazione di dadi in tutto il regno. E ancora nel 1336, a Bologna, dove già da tempo si lucrava sul gioco d'azzardo, la gabella sulla baratteria (era questo il termine diffuso nel Medioevo, che va distinto dalla moderna accezione di reato di corruzione commesso da un pubblico ufficiale) destava immensum scandalum e non modica infamia, al punto che si decise di ripristinare, anche se solo per qualche mese – constatata l'impossibilità di arginare una pratica enormemente diffusa –, i vecchi divieti.
L'aspetto più importante che va evidenziato è però il generale fallimento di simili provvedimenti. Quando si comprese che il vizio del gioco era così ben radicato da risultare inestirpabile, cominciò a farsi largo l'idea che, scandalo per scandalo, tanto valeva guadagnarci su. Del resto quelli erano anni di grandi innovazioni nel campo della pratica finanziaria (si pensi alle banche, alle assicurazioni, alla legittimazione del prestito a interesse, alle società in nome collettivo: tutti concetti e strumenti che vennero perfezionati nel corso del Medioevo, in particolar modo in Italia), e certo non deve stupire più di tanto che fossero approntate politiche fiscali sempre più raffinate. Si assistette così a un ripensamento generale, caratterizzato da una maggiore tolleranza per il modicum ludere e, in particolare, per quei giochi che non si basavano esclusivamente sulla fortuna, ma prevedevano una non trascurabile componente di abilità.
Il percorso che portò all'accettazione del gioco d'azzardo "pubblico", certo, non fu lineare. In un primo momento si procedette con la concessione di deroghe in occasione delle principali feste religiose (secondo la stessa logica che è alla base del carnevale); e in breve si giunse ad un'espansione della permissività che coinvolse anche il calendario laico, fino all'abolizione della temporaneità dei permessi in favore dell'individuazione di luoghi ben definiti deputati, stabilmente, ad ospitare il gioco. In questo modo, confinando le pratiche ludiche in apposite aree controllate, veniva trovato un soddisfacente compromesso tra la tradizionale condanna morale del gioco d'azzardo e la pressione esercitata dalla capillare diffusione di comportamenti sociali giudicati, oramai, incontrastabili.
Il fenomeno cui assistiamo oggi è dunque solo la fase terminale di un processo avviato secoli fa. Sono cambiati gli strumenti, ma la febbre del gioco non è certo un'invenzione dei nostri tempi. Se anche Leonardo Fibonacci (il grande matematico fiorentino vissuto tra XII e XIII secolo) nel suo Liber abaci (l'opera, per intendersi, che introdusse in Europa le cifre arabe e il sistema numerico decimale) si prese la briga di inserire alcune annotazioni su come calcolare i punti usciti lanciando tre dadi, significa che anche i nostri antenati erano, in fondo, un po' ossessionati dalle scommesse. Oggi come ieri è quindi il caso di farsi la stessa domanda: ne vale la pena?

Focus:


Lo scorso 6 febbraio, in occasione di un incontro organizzato dal LIONS Estense, sul tema delle ludopatie sono intervenuti il dottor Claudio Ferretti (responsabile del Servizio Dipendenze Patologiche dell'AUSL di Modena), che ha illustrato dati, ricerche e rimedi inerenti al gioco patologico; il dottor Luciano Casolari (psichiatra e psicoterapeuta); e Nives Cattelani (psicologa), che ha presentato il servizio «Scommetti su di te», promosso dal CEIS (Centro Italiano di Solidarietà) di Modena. Scopo dell'iniziativa è stata, da un lato, la sensibilizzazione dell'opinione pubblica su un tema di scottante attualità; dall'altro, quello di suggerire possibili percorsi di recupero destinati alle persone affette da ludopatia. 

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mercoledì 5 marzo 2014

Il Partito popolare italiano tra biennio rosso e biennio nero

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 marzo 2014)
 
In virtù dell'inaspettato successo conseguito alle elezioni del novembre del 1919, il PPI assunse responsabilità di governo. Tuttavia il rapporto con il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, si rivelò alquanto complicato, soprattutto poiché quest’ultimo mostrò in più occasioni maggiore condiscendenza verso il PSI che nei confronti di don Sturzo. Un esempio concreto fu l’atteggiamento di superficialità con cui il governo tollerò le ripetute violenze dei socialisti a danno dei popolari, forse per timore che la situazione degenerasse e gli scontri assumessero carattere rivoluzionario. La situazione parve migliorare con il ritorno al potere di Giolitti. Il programma politico dello statista di Dronero piacque ai popolari, in particolare per l’impegno in favore dell’attuazione di importanti riforme sociali ed economiche. Filippo Meda e Giuseppe Micheli entrarono nel governo, a riprova di una sintonia che fece ben sperare buona parte dell’opinione pubblica rispetto alla possibilità di uscire dalla turbolenta crisi del dopoguerra. Presto però ci si accorse che si era ben lontani dal raggiungimento di un clima di pace. Nel settembre del 1920, dopo che agitazioni e violenze avevano creato scompiglio in tutto il paese, lo sciopero degli operai metallurgici a Torino e Milano culminò con l’occupazione delle fabbriche. Don Sturzo, allarmato da queste vicende, convocò a Roma alcuni rappresentanti politici e sindacali e fece votare un ordine del giorno in cui si approvava il progetto della CIL mirante a favorire la compartecipazione degli operai alla gestione e agli utili delle aziende. Giolitti, sul cui appoggio i cattolici avevano confidato, emanò un decreto per l’istituzione di una «Commissione paritetica per la soluzione del conflitto metallurgico», ma a far parte di essa chiamò solo i rappresentanti dei sindacati socialisti. Fu l’inizio delle incomprensioni tra l’anziano politico piemontese e i popolari, le quali avrebbero inesorabilmente favorito l’avanzata fascista.
La conclusione pacifica dello sciopero (furono concessi alcuni benefici salariali agli operai, ma al contempo svanì il sogno delle forze di sinistra di far assumere alla protesta una valenza rivoluzionaria) diede forza al movimento mussoliniano, che da questo momento divenne il principale punto di riferimento della lotta antisocialista. Le violenze perpetrate nel corso del cosiddetto «biennio rosso» furono utilizzate dai fascisti come pretesto per legittimare le proprie spedizioni punitive, che godettero di una certa tolleranza da parte di istituzioni sempre più incapaci di far rispettare l’autorità dello Stato. Giolitti si illuse di poter sfruttare Mussolini per rafforzare i liberali: indisse così nuove elezioni per il maggio del 1921, favorendo l’ingresso dei fascisti nei blocchi nazionali. Questi ultimi ottennero 35 seggi; il PPI si mantenne stabile (20,4%), mentre il PSI (24,7%) arretrò di circa 200.000 voti.
Subito dopo le elezioni Giolitti fu costretto alle dimissioni in seguito ad un dissidio sorto sull’indirizzo della politica estera e l’incarico di formare un nuovo governo fu assunto da Ivanoe Bonomi, che ebbe tre ministri popolari. Il maggior peso politico del partito sturziano spinse le squadre fasciste a colpire con atti di violenza numerose organizzazioni cattoliche. L’obiettivo di Mussolini, che nel frattempo strinse rapporti sempre più amichevoli con la Santa Sede, era quello di emarginare il PPI dalla vita politica italiana: se le devastazioni servivano per colpire alla base l’organizzazione del movimento cattolico, i contatti con il Vaticano miravano a creare un rapporto di collaborazione tra fascismo e Chiesa, allo scopo di indurre il pontefice a fare a meno del PPI come strumento di tutela indiretta degli interessi dei cattolici.
La difficile situazione fu affrontata dai popolari nel corso del congresso di Venezia, tenutosi nell’ottobre del 1921. L’ordine del giorno che venne approvato giudicò la collaborazione di governo coi liberali «una necessità imposta dal dovere di far funzionare l’istituto parlamentare», ma non prese una posizione netta in merito al comportamento che il partito avrebbe dovuto tenere per fronteggiare la crisi. Sottolinea al riguardo Giorgio Candeloro: «La possibilità di una collaborazione coi socialisti, o con una parte di essi, era indicata in questo ordine del giorno in modo indiretto, vago e cauteloso, mentre d’altra parte mancava una presa di posizione nei riguardi del fascismo. In sostanza, il partito popolare assumeva a Venezia una posizione attesista».
L’incalzare degli avvenimenti non favorì del resto lo sviluppo di un programma comune con i socialisti. Nel febbraio del 1922 una crisi extraparlamentare fece cadere il governo Bonomi. Don Sturzo, che con gli anni aveva maturato un deciso antigiolittismo, si oppose al ritorno al potere dello statista piemontese con un «veto», che Luigi Salvatorelli ha giudicato – in quanto escludeva dal governo il politico più esperto ed abile – «il principale antefatto della Marcia su Roma». Presidente del Consiglio fu eletto allora il debole Luigi Facta, nel cui gabinetto entrarono tre ministri popolari. Ma ormai la situazione era compromessa. Incapace di replicare alle continue prove di forza dei fascisti, che agivano sempre più indisturbati nell’illegalità, il governo fu di fatto esautorato dal re, che consegnò il potere a Mussolini prendendo atto della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Nel frattempo, il 22 gennaio di quello stesso anno era morto Benedetto XV, cui era succeduto, assumendo il nome di Pio XI, Achille Ratti. Sin dai primi mesi del pontificato il nuovo papa si preoccupò di riorganizzare la struttura dell’Azione cattolica, allo scopo di legarla più strettamente all’autorità ecclesiastica. L’associazione fu divisa in quattro rami: Federazione italiana uomini cattolici, Società della gioventù cattolica italiana, Federazione universitaria e Unione femminile cattolica italiana. La Giunta centrale rimaneva l’organo supremo di direzione e di coordinamento, cui vennero successivamente affiancati alcuni Segretariati (per scuola, per la cultura, per la moralità). In questo modo, spiega Alfredo Canavero, «il campo di attività dell’Azione cattolica veniva a coincidere con quello della Chiesa, eminentemente spirituale e non terreno, religioso e non politico»; e il Vaticano ebbe così a disposizione uno strumento potenziato e più controllabile per interagire con la società italiana.
Al riguardo, vista l'importanza del tema, giova leggere l'acuta analisi di Guido Formigoni: «All’interno di questo disegno va letta la strategia impressa dal papa a tutta la Chiesa, nella fase storica resa difficile soprattutto dal fenomeno dei totalitarismi a sfondo ideologico. La condanna delle ideologie totalitarie non era in discussione […]. Ma dal punto di vista pratico, nella situazione italiana, papa Ratti non giudicava negativamente l’avvento di un regime conservatore e autoritario, che ponesse fine ai disordini permessi dall’irresistibile decadenza della liberaldemocrazia italiana, che non potevano non preoccupare fortemente per la stessa continuazione della vita pastorale. Fin dal 1922, e poi con sempre maggiore convinzione, egli riteneva perciò che la Chiesa dovesse trovare un modus vivendi con il nuovo governo, confermando successivamente questa convinzione anche di fronte alla costituzione di un regime dittatoriale. La via praticabile per questo obiettivo pareva identificabile nella ricerca di buone relazioni di vertice con lo Stato, anche in vista della possibile soluzione della questione romana, ma soprattutto per poter ottenere una serie di garanzie per la missione ecclesiale di ricristianizzazione integrale della società. In questo quadro un importante ruolo era rivestito dall’AC, come strumento laicale per salvaguardare uno spazio storico per la missione della Chiesa nella società, capace di rispondere alla preoccupante “apostasia delle masse”. Ciò implicava una revisione del passato, in primo luogo attuata con una decisa “spoliticizzazione” dell’AC, che da questo momento inaugurò la nota formula per cui riteneva se stessa “al di fuori e al di sopra della politica”. L’organizzazione fu indotta a prender le distanze dalla vita politica, soprattutto nel senso di rompere i legami con il PPI e le altre organizzazioni cattoliche sociali. Ciò sia per non essere coinvolti dalla repressione fascista, sia per evitare che le contrapposizioni di vedute politiche, ormai molto nette tra i cattolici, intaccassero l’unità ecclesiale. Al fondo riemergeva la tesi dell’indifferenza verso la politica, di lunga tradizione nel cattolicesimo intransigente».
Per il PPI la riforma di Pio XI fu quindi un altro duro colpo. Sottolineare l’apoliticità dell’Azione cattolica significava imporre ai cattolici l’accettazione del potere costituito, ossia il fascismo. La Santa Sede, del resto, divenne sempre più scettica di fronte alla reale utilità del partito di don Sturzo. Ora che lo Stato liberale era crollato – ha rilevato Francesco Malgeri –, «la funzione del popolarismo, di difesa degli interessi della Chiesa e dei cattolici in un ambiente politico anticlericale e laico diveniva superflua di fronte ad un governo che proclamava il suo ossequio alla Chiesa e assumeva gli interessi cattolici». Tanto valeva trattare direttamente con Mussolini, il quale peraltro stava aumentando i consensi tra quella piccola e media borghesia oggetto delle attenzioni del PPI. Al programma socialmente orientato a sinistra di quest’ultimo (che fu peraltro accusato di rivoluzionarismo e di «bolscevismo bianco»), si preferirono i metodi fascisti, cui si doveva, nonostante tutto, il ritorno all’ordine. 

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