martedì 21 gennaio 2014

Il Partito socialista italiano dalla svolta liberale di inizio Novecento all'avvento del fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 gennaio 2014)
 
Con il nuovo secolo si apriva quella che gli storici hanno definito «età giolittiana», individuando nello statista di Dronero il principale protagonista della vita politica italiana. Giolitti riteneva che lo Stato liberale non avesse nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e che la politica repressiva si sarebbe rivelata, a lungo andare, nociva. Per questo, una volta giunto al potere, mantenne l'esecutivo su posizioni di rigida neutralità in materia di conflitti sul lavoro e promosse un programma di riforme per il quale si avvalse del dialogo coi socialisti, giungendo persino a proporre a Turati – che tuttavia rifiutò per timore di non rispecchiare le aspettative della base del partito – di entrare nel governo.
La svolta liberale di inizio secolo venne incoraggiata dall'atteggiamento collaborativo dei socialisti, che appoggiarono in Parlamento i governi disposti a varare un piano concreto di riforme. Nel primo Novecento il notevole sviluppo delle organizzazioni operaie sembrava inoltre corroborare la linea riformista di Turati, sempre più determinato a difendere il sodalizio con Giolitti. Tuttavia, man mano che si palesavano i limiti del liberalismo-progressista e in risposta ai sempre più frequenti scontri tra lavoratori e forze dell'ordine, venne emergendo in seno al partito la corrente rivoluzionaria, influenzata dal sindacalismo soreliano e più che mai decisa a combattere in termini classisti lo Stato monarchico e borghese.
Nell'aprile del 1904, al Congresso di Bologna, i rivoluzionari riuscirono ad imporsi alla guida del partito. Pochi mesi dopo, in seguito all'eccidio proletario verificatosi a Buggerru, in Sardegna, durante una manifestazione di minatori, si ebbe il primo sciopero generale della storia d'Italia, che ebbe un impatto psicologico notevole sull'opinione pubblica. A dispetto delle forti pressioni ricevute affinché intervenisse con durezza, Giolitti mantenne fede al metodo utilizzato in passato e lasciò che la manifestazione si esaurisse da sé. Successivamente convocò nuove elezioni per sfruttare il clima politico avverso alle sinistre che lo sciopero aveva generato, ed ottenne un esito favorevole, palesando gli evidenti limiti dei socialisti, soprattutto per quanto concerneva la mancanza di coordinamento tra le organizzazioni operaie e il partito.
Nel 1906 i riformisti riconquistarono la guida del PSI e promossero la fondazione della Confederazione Generale del Lavoro. L'unificazione del movimento sindacale che in tal modo si determinò segnò l'emarginazione del gruppo rivoluzionario, che peraltro non si squagliò, continuando a soffiare sul fuoco delle proteste popolari. Ma anche tra i riformisti sorsero divisioni ed emerse una corrente revisionista, facente capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi, che intendeva strutturare il PSI come partito privo di connotazioni ideologiche rigide, in funzione di una più stretta collaborazione con le forze democratico-liberali. Se in un primo tempo le differenze rimasero confinate su un mero piano teorico, la mancata opposizione di Bissolati e Bonomi all'impresa libica del 1911 inasprì notevolmente le divergenze. Al Congresso di Reggio Emilia dell'anno seguente, i rivoluzionari, tra i quali emerse la figura di Benito Mussolini, riuscirono a riconquistare il comando del partito e a imporre l'espulsione dei leader revisionisti e di altri esponenti di spicco della destra riformista (i quali diedero vita al Partito socialista riformista italiano). Il futuro capo del fascismo fu poi chiamato alla direzione dell'«Avanti!», che trasformò in un moderno strumento di propaganda rivolto alle masse per preparare «psicologicamente il proletariato all'uso della violenza liberatrice».
Benché i riformisti conservassero il controllo del gruppo parlamentare e della CGL, la sconfitta nel partito subita a Reggio Emilia rappresentò l'inizio di un momento di crisi per la componente moderata del movimento operaio. Come sottolinea Maurizio Degl'Innocenti, «il limite dell'integrazione sociale e politica delle masse popolari in età giolittiana, nonostante la "svolta liberale" [...], fu evidenziato dalla permanenza della vasta area del sovversivismo, antidemocratica e antiriformista».
Il 1913 vide una forte accelerazione delle lotte sociali, che, sotto l'impulso della propaganda mussoliniana, sfociarono in numerosi scioperi e agitazioni nelle campagne. Tuttavia, il vero banco di prova per il PSI furono le elezioni, le prime a suffragio universale maschile. In un clima caratterizzato da una forte radicalizzazione dei contrasti, i socialisti riscossero un discreto successo (72 seggi, comprendendo i riformisti), anche se il contributo cattolico conseguente al patto Gentiloni premiò nuovamente i liberali. La nuova maggioranza ebbe però vita breve: a causa di inconciliabili divisioni, alla prima difficoltà Giolitti fu costretto alle dimissioni e venne sostituito da Salandra. Contrariamente a quanto più volte accaduto in passato, non si trattò di un abbandono temporaneo, ma della fine di un'epoca. In poco più di due mesi infatti due avvenimenti scossero nel profondo la vita politica italiana. Nel giugno del 1914 la cosiddetta «settimana rossa» (ondata di scioperi e manifestazioni provocata dalla morte di tre dimostranti in uno scontro con le forze dell'ordine durante un comizio antimilitarista ad Ancona) sconvolse la penisola, finendo per rafforzare le tendenze conservatrici in seno a una classe dirigente che si mostrava sempre più insofferente nei confronti della linea tollerante di Giolitti. Appena un mese dopo, lo scoppio della Grande Guerra convinse definitivamente l'opinione pubblica dell'inadeguatezza dello Stato liberale, che pareva del tutto impreparato ad affrontare le difficoltà della nascente società di massa.
Il grande conflitto europeo scosse profondamente i socialisti dell'intero continente. La Seconda Internazionale, dopo aver invitato i proletari di tutti i paesi a manifestare contro la guerra, cessò praticamente di esistere in seguito alla decisione dei principali partiti socialisti di aderire alle rispettive azioni di governo. L'Italia si divise tra neutralisti e interventisti. Questi ultimi annoverarono tra le proprie file anche molti esponenti della sinistra, dai socialriformisti di Bissolati ai sindacalisti rivoluzionari. Molto netta fu invece in senso neutralista la posizione assunta dal PSI, con l'importante eccezione di Mussolini, che per il suo «tradimento», dopo aver lasciato la direzione dell'«Avanti!», fu espulso dal partito.
L'ingresso dell'Italia nel conflitto nel maggio del 1915 mise in difficoltà i socialisti, che, incapaci di reagire con efficacia, si limitarono a ribadire la loro ostilità alla guerra attraverso l'ambigua formula «né aderire, né sabotare». La crisi del PSI si protrasse per tutta la durata del conflitto ed è ben inquadrata dall'acuta analisi di Benedetto Croce, il quale rilevò che il partito, avversando una guerra comunque avvertita come suprema prova di patriottismo, di fatto lasciò «che in Italia la minoranza rivoluzionaria assumesse la parte nazionale». 
L'eredità politica del conflitto si concretizzò nell'avanzata dei partiti di massa. Il PSI, al cui interno la sinistra si trovava in netta maggioranza, fece registrare una crescita impetuosa, divenendo il primo partito italiano (con il 32% delle preferenze) dopo le elezioni del 1919. Obiettivo dei massimalisti, guidati dall'esempio della rivoluzione bolscevica, era l'instaurazione immediata della dittatura del proletariato. Tuttavia le strategie adottate a tal fine si rivelarono presto inadeguate: il PSI ebbe infatti troppo a lungo un atteggiamento attendista, probabilmente derivante dalla convinzione che la rivoluzione – inevitabile nel lungo periodo, secondo il dogma socialista – fosse imminente. Fu l'estrema sinistra, facente capo a Bordiga e Gramsci, a rilevare per prima il problema e fare pressioni affinché il partito giocasse la carta dell'insurrezione.
Il clima politico-sociale era del resto infuocato. Tra 1919 e 1920 (il cosiddetto «biennio rosso») le principali città italiane furono teatro di violenti tumulti, di scioperi e di agitazioni agrarie, che culminarono nell'occupazione di numerosi stabilimenti metallurgici e meccanici da parte degli operai aderenti alla Fiom. Questi ultimi presero il controllo della produzione, presidiando gli impianti con guardie armate e issando la bandiera rossa sui tetti delle officine. La rivoluzione pareva ad un passo, ma ancora una volta le indecisioni dei socialisti – divisi tra un partito a maggioranza massimalista e un gruppo parlamentare e una CGL guidati dai riformisti – preclusero alla rivolta un concreto sbocco politico. Giolitti, tornato al governo nel giugno del 1920, fu come suo solito abile nel proporre una mediazione che, se da un lato prevedeva importanti concessioni economiche e sindacali, dall'altro scongiurava esiti anticostituzionali. Il fallimento dell'occupazione delle fabbriche rese improponibile ogni ulteriore intesa tra massimalisti e riformisti. La resa dei conti si ebbe al Congresso di Livorno del 1921, quando gli esponenti della sinistra abbandonarono il PSI per dare vita al Partito comunista d'Italia, che si diede un programma rigorosamente leninista.
La conseguenza più rilevante del biennio rosso fu l'isolamento delle forze progressiste. Lo spettro del comunismo e la sensazione diffusa che fosse indispensabile approfittare delle incertezze delle sinistre spinsero la borghesia tra le braccia del nascente fascismo. «Molta gente – ha scritto Denis Mack Smith – preferì credere che la rivoluzione avrebbe potuto venire solo da sinistra» e, puntando su Mussolini, si fece sedurre dal mito dell'uomo forte, necessario per riportare ordine in una realtà, come quella italiana, dilaniata dai conflitti sociali. Il fascismo pertanto nacque – o almeno così fu inizialmente interpretato – come reazione a una minaccia sovversiva che non aveva trovato nel PSI un organismo politico capace di tradurla in rivoluzione.
 
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giovedì 16 gennaio 2014

Il Partito socialista italiano dalle origini alla svolta liberale di inizio Novecento

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 gennaio 2014)
 
L'Italia della seconda metà dell'Ottocento era un paese scarsamente industrializzato, essenzialmente agricolo e privo di un moderno proletariato di fabbrica. Le uniche organizzazioni operaie di un certo rilievo consistevano nelle cosiddette società di mutuo soccorso: si trattava di associazioni aventi principalmente scopi di solidarietà, che peraltro rifiutavano categoricamente lo sciopero e la lotta di classe come strumento di affermazione politica. Le campagne costituivano di fatto l'ambiente più idoneo allo sviluppo delle idee socialiste, che soprattutto nel nord della penisola si diffusero prima della formazione, a partire dai primi anni del Novecento, di una vera e propria struttura produttiva capitalistica. Quelli che la propaganda indicava come «operai» erano per lo più artigiani o lavoratori manuali, che spesso integravano la propria attività con il lavoro nei campi.
Fu in seguito all'inasprimento dei conflitti sociali negli anni '70 che in Italia si sviluppò l'internazionalismo socialista, inizialmente fedele, più che alle dottrine marxiste, al credo bakuniniano basato sull'insurrezione e sulle agitazioni nelle campagne. Il pressoché completo fallimento di questi moti indusse Andrea Costa ad intraprendere un percorso completamente nuovo attraverso l'elaborazione di un programma politico più coerente e la fondazione, nel 1881, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna. Si trattava di una svolta significativa, che nelle intenzioni dell'agitatore imolese avrebbe dovuto portare alla fondazione di un Partito rivoluzionario italiano e che, nell'immediato, fruttò a quest'ultimo l'elezione a deputato nel 1882.
In quello stesso anno, per iniziativa di alcune associazioni operaie milanesi, sorse il Partito operaio italiano, che si strutturò su base rigorosamente classista e antiborghese e fu promotore dei grandi scioperi che si tennero nel Mantovano e nel Polesine tra il 1884 e il 1885. Rimaneva tuttavia sostanzialmente irrisolto il problema della frammentazione politica delle singole associazioni (il Partito operaio era in realtà una federazione di organizzazioni locali), dal momento che anche le numerose Camere del lavoro sorte a partire dalla seconda metà degli anni '80 avevano un raggio d'azione tutto sommato limitato. La questione era di non poco conto: il marxismo faticava ancora ad imporsi, col risultato che il movimento socialista si mostrava privo di quello che sarebbe stato l'indispensabile perno ideologico-dottrinario del futuro partito. Un contributo decisivo alla conoscenza delle opere di Marx venne dal filosofo materialista Antonio Labriola, che tuttavia concepiva il socialismo secondo principi rigorosamente intellettuali ed elitari.
Fu Filippo Turati, avvocato milanese di formazione positivistica, il principale artefice del drastico cambio di rotta che portò alla nascita del Partito socialista italiano. Gaetano Arfé, nell'illustrare i tratti salienti della svolta, si è soffermato sul «legame con le organizzazioni operaie, tra le quali la teorizzazione dell'inconciliabile antagonismo tra le classi dava contenuto alla nascente coscienza della propria autonomia e della propria funzione, mentre le suggestioni fatalistiche, ammantate di scientismo, che attribuivano al socialismo l'ineluttabilità dei fenomeni naturali, andavano a costituire il nucleo di una massiccia, incrollabile fede, destinata a colmare il vuoto lasciato negli strati più avanzati e vivaci delle classi popolari dalla religione tradizionale, in seguito all'opposizione del clero al moto risorgimentale prima, al nascente movimento operaio dopo».
Il movimento operaio trovò nel marxismo un'ideologia politica omogenea, capace di superare i localismi e i contrasti tra le varie correnti che dividevano il socialismo delle origini. Decisive si rivelarono alcune idee-guida, secondo le quali il capitalismo, per la sua stessa natura contraddittoria, avrebbe da sé prodotto le condizioni politiche per il suo superamento e per l'instaurazione di una società basata sull'egualitarismo e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. La fede in un'inevitabile evoluzione sociale consentiva inoltre di impostare la lotta politica non più soltanto sul mito della rivoluzione e dell'insurrezione, aprendo di fatto la via del riformismo.
Rispetto quindi alla linea intransigente di Labriola, Turati aveva in mente un partito che si battesse su scala nazionale sul campo delle rivendicazioni economiche e delle riforme, e che fungesse da organo di mediazione politica tra la base e i vertici della società. Il Partito dei lavoratori italiani (il cui nome cambiò in Partito socialista dei lavoratori italiani nel 1893 e in Partito socialista italiano nel 1895), che sotto la sua guida vide la luce in occasione del Congresso di Genova del 1892, veniva pertanto impostato con l'obiettivo di ottenere la socializzazione attraverso una duplice lotta per la conquista, a lungo termine, del potere politico e per il miglioramento, nell'immediato, delle condizioni della classe operaia. Pur con tutti i contrasti che rendevano ardua una costante unità di intenti, il socialismo italiano aveva trovato in Turati come rileva Franco Livorsi «l'uomo giusto al momento giusto», capace di agire «da amalgama» tra tendenze politiche parse sino ad allora inconciliabili.
Il Congresso di Genova rappresentò pertanto una tappa decisiva per la storia del movimento operaio italiano. Decretò in primo luogo la scissione tra socialisti e anarchici; diede al partito un programma unitario e marxista; fece infine emergere la corrente riformista di Turati, che si sarebbe imposta per più di un decennio.
Nei suoi primi anni di vita il partito fu costretto ad affrontare una grave crisi politico-parlamentare, dovendo peraltro difendersi dai ripetuti attacchi del governo miranti a minarne le basi. La fase più critica si ebbe nel 1894. Come reazione ai Fasci siciliani – vasto movimento di protesta sociale contro tasse e malgoverno che fra '92 e '93 si era propagato in Sicilia, coinvolgendo organizzatori di matrice socialista –, in gennaio Crispi proclamò lo stato d'assedio, facendo seguire a questo provvedimento una generale operazione di polizia rivolta contro giornali, leghe e circoli socialisti. Con l'approvazione, in luglio, delle leggi cosiddette «antianarchiche», che imponevano rigorosi limiti alle libertà di stampa e di associazione e che portarono allo scioglimento, qualche mese più avanti, del Partito socialista dei lavoratori italiani, i dirigenti socialisti furono costretti a rivedere parte delle loro strategie. In particolare, in occasione del Congresso che si tenne clandestinamente a Parma nel gennaio del 1895, si decise, pur con qualche resistenza, di aprire a radicali e repubblicani – allo scopo di costruire un'alleanza capace di affrontare l'imminente tornata elettorale – e, soprattutto, di organizzare il partito non più come federazione di organizzazioni operaie, bensì sulla base dell'adesione personale dei suoi membri.
«Fu questa – osserva Giorgio Candeloro – una conseguenza positiva della dura reazione che si era abbattuta sul Partito e sul movimento operaio, la quale aveva colpito indiscriminatamente le associazioni aderenti al Partito, ivi comprese molte cooperative e società di mutuo soccorso. [...] Si era quindi imposta l'esigenza di distinguere nettamente il movimento economico (sindacale, cooperativo, mutualistico ecc.) dal movimento politico del proletariato». Le conseguenze più immediate furono la compilazione di un nuovo statuto e l'acquisizione del nuovo nome di Partito socialista italiano.
Nonostante le difficoltà, alle elezioni del maggio 1895 i socialisti riuscirono a fare eleggere dodici candidati. Fu una dimostrazione di forza, che si avvalse anche della crescente simpatia che veniva mostrata verso il partito da parte di numerosi intellettuali e uomini di cultura, contrari per principio alle persecuzioni e ai provvedimenti liberticidi. Il clima di quella che è nota come «crisi di fine secolo» favoriva peraltro inevitabilmente le forze di opposizione, che ebbero buon gioco a trarre giovamento da una serie di fallimenti del governo, primo fra tutti la disfatta di Adua del 1896. In seguito all'approvazione di nuove misure repressive volte a rafforzare l'esecutivo, la situazione precipitò nel 1898. L'aumento del costo del pane provocò infatti in tutta la penisola una lunga ondata di agitazioni che culminò nei tumulti di Milano. In quell'occasione la violenza della repressione raggiunse il suo acme: il generale Bava Beccaris ordinò di sparare sulla folla, provocando la morte di circa 80 manifestanti. Seguirono la proclamazione dello stato d'assedio in diverse province e l'arresto di numerosi esponenti socialisti, tra cui Turati.
Riportato l'ordine nel paese, la maggioranza moderata e conservatrice volle trasferire lo scontro in Parlamento, allo scopo di dare vigore di legge all'azione repressiva. Ma quando il primo ministro Pelloux presentò una serie di provvedimenti miranti a ridurre drasticamente le libertà di sciopero, di stampa e di associazione, i gruppi della sinistra ricorsero alla pratica dell'ostruzionismo, paralizzando i lavori. La lotta si protrasse per quasi un anno, indebolendo un governo che, tra le diverse difficoltà, doveva affrontare la crescente opposizione del gruppo liberal-progressista guidato dal duo Zanardelli-Giolitti. A Pelloux non rimase che sciogliere la Camera, nella speranza, tramite il voto, di trarre appoggio alla sua politica. L'esito premiò invece ancora una volta i socialisti, che salirono a 33 deputati. Umberto I fu così costretto a prendere atto del fallimento di quella politica illiberale che egli stesso aveva incoraggiato. Prima di cadere vittima dell'attentato dell'anarchico Gaetano Bresci il 29 luglio 1900, nominò a capo del governo Giuseppe Saracco, un moderato al di sopra delle parti. I tempi per una svolta liberale parevano maturi. (Continua)

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venerdì 10 gennaio 2014

La politica estera del fascismo: un precario equilibrio tra prudenza e aggressività (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 gennaio 2014)

Anni 1935-1939


 

Quando Mussolini si sentì più forte e più libero di osare decise di imboccare la strada dell'espansione militare. Si trattava di un'esigenza che dipendeva dalla natura stessa del fascismo. Come ha infatti precisato Emilio Gentile, «ai fascisti, la dimensione nazionale appariva troppo angusta per poter contenere l'orizzonte massimo delle loro ambizioni rivoluzionarie, che trascendevano la realtà della nazione per elevarsi alla contemplazione di vasti panorami, europei e mondiali, verso i quali proiettare le future conquiste della "rivoluzione fascista"». L'Italia – a parere del duce – doveva necessariamente mettersi alla pari delle altre potenze per quanto riguardava i possedimenti coloniali, anche a costo di una guerra che, comunque, sarebbe rimasta circoscritta al territorio africano.
Mussolini si sentiva infatti sicuro che Francia e Inghilterra non lo avrebbero intralciato più di tanto. Per quanto riguardava la prima, il duce aveva avuto rassicurazioni dal primo ministro Laval (accordi del gennaio 1935), il quale aveva accettato di dare mano libera in Etiopia, in cambio della rinuncia italiana alle rivendicazioni sulla Tunisia; quanto alle intenzioni della seconda, Mussolini ritenne che l'esito della conferenza di Stresa – dove nell'aprile del 1935 Italia, Francia e Gran Bretagna avevano confermato gli accordi di Locarno e posto le basi per una politica di opposizione al riarmo tedesco – lo mettesse al riparo dalle insidie.
La campagna di Etiopia, al di là delle valutazioni contrastanti che hanno diviso gli storici, a livello politico fu un successo per Mussolini. Il duce poté ancora una volta vantare una vittoria che lo elevava al di sopra dei fallimenti dell'Italia liberale e fu abile nello sfruttare propagandisticamente le sanzioni economiche inflitte all'Italia dalla Società delle Nazioni. Il regime ne uscì rafforzato, tanto che anche il leader comunista Togliatti, dopo aver invano sperato che la guerra portasse il fascismo alla rovina, firmò nell'agosto del '36 un appello intitolato Per la salvezza dell'Italia, riconciliazione del popolo italiano!, rivolto anche ai «fratelli in camicia nera».
Pochi mesi dopo la conquista di Addis Abeba, Mussolini decise per l'immediato intervento nella guerra civile spagnola, il primo conflitto europeo che coinvolse tutti i principali paesi protagonisti sulla scena internazionale. Per l'Italia la guerra ebbe essenzialmente il carattere di scontro ideologico tra fascismo e antifascismo, anche perché il duce si convinse – scrive Elena Aga Rossi – «che si era di fronte a un momento importante per l'affermazione internazionale del fascismo e, nello stesso tempo, a una seria minaccia per la sua stessa sopravvivenza di fronte all'ipotesi di una vittoria repubblicana». Il comune impegno bellico determinò un netto avvicinamento tra Italia e Germania, che culminò nella firma, da parte del neo ministro degli Esteri Ciano, di un accordo politico passato alla storia come Asse Roma-Berlino (ottobre 1936). Hitler si impegnò a garantire un consistente aiuto militare a Franco e si disse disponibile a riconoscere il ruolo di potenza egemone nel Mediterraneo che l'Italia ambiva a ricoprire; Mussolini promise di difendere gli interessi tedeschi in seno alla Società delle Nazioni e lasciò intendere che non si sarebbe nuovamente opposto all'Anschluss (che i nazisti avrebbero effettuato nel marzo del '38). Nel 1937 seguirono, in questa deriva totalitaria, l'adesione dell'Italia al patto anti-Comintern (con Germania e Giappone) e l'uscita dalla Società delle Nazioni, che costituiva un segnale inequivocabile delle intenzioni di Mussolini di stravolgere l'ordine europeo.
L'alleanza italo-tedesca indusse il governo di Londra a ristabilire buone rapporti con Roma, dopo i contrasti legati alle sanzioni. Nel gennaio del '37 un gentlemen's agreement impegnò i due paesi a rispettare lo status quo nel Mediterraneo (con l'evidente incongruenza della partecipazione fascista alla guerra di Spagna), mentre l'anno successivo con un nuovo accordo la Gran Bretagna riconobbe la sovranità italiana sull'Etiopia, in cambio della promessa dell'immediato ritiro dei «volontari» italiani dal suolo iberico al termine della guerra civile. In questo modo, se l'Italia poteva rallegrarsi per aver dimostrato la propria autonomia rispetto ai tedeschi, la Gran Bretagna si illudeva di aver allontanato Mussolini da Hitler in vista di un'eventuale guerra europea.
Il duce si convinse in quei mesi che all'Italia sarebbe spettato il ruolo di ago della bilancia per dirimere le controversie internazionali. Di conseguenza, quando Hitler minacciò di risolvere con la forza l'intricata questione dei Sudeti (dove vivevano oltre 3 milioni di tedeschi) e si preparò all'invasione, Mussolini sollecitò la convocazione di un vertice a quattro a Monaco con Daladier, Chamberlain e il Fuhrer (29-30 settembre 1938). L'esito, scontato, delle trattative fu l'accettazione della volontà di Hitler da parte delle potenze occidentali, che pagarono il prezzo voluto dal dittatore con l'illusione che questi si sarebbe accontentato e non avrebbe trascinato l'Europa in un conflitto. Ma appunto di illusione si trattava, come l'occupazione nazista della Boemia e della Moravia (ottobre '38) e l'aggressione alla Polonia (1° settembre '39) si incaricarono di dimostrare.
Quanto all'Italia – come rileva Giorgio Candeloro –, a Monaco «Mussolini ottenne un successo di prestigio, che fu molto strombazzato dalla propaganda fascista e fu a lungo giudicato effettivo, mentre poteva divenire tale solo se Mussolini avesse cambiato da quel momento la sua politica estera». Ma non lo fece, e anzi, forse per spirito di emulazione nei confronti di Hitler, predispose in tutta fretta l'attacco all'Albania (aprile '39), con l'obiettivo di rinforzare l'influenza italiana sui Balcani. 

L'epilogo


 

Un mese dopo la conquista dell'Albania, Italia e Germania siglarono il Patto d'acciaio, vera e propria alleanza militare. Gli accordi prevedevano che «se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti Contraenti, dovesse accadere che una di Esse venisse trascinata in complicazioni belliche con un'altra o più Potenze, l'altra Parte Contraente si porrà immediatamente come Alleato al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari per terra, per mare e nell'aria». Si trattava quindi non di un accordo difensivo, bensì per la guerra, nonostante Mussolini avesse fatto presente a Hitler che l'Italia avrebbe necessitato di un periodo di pace di qualche anno (almeno fino al '42) per preparasi a un conflitto europeo.
Il Fuhrer aveva però ben altri progetti e preparava già l'invasione della Polonia all'insaputa dell'alleato. Solo l'11 e il 12 agosto, incontrando Ribbentrop e Hitler a Salisburgo, Ciano apprese le reali intenzioni dei tedeschi. La sua preoccupazione, come traspare dalle pagine del diario riferite a quei giorni, consente di comprendere quanto l'Italia, al di là delle ambizioni e della propaganda, fosse impreparata ad affrontare una guerra. Mussolini rischiava di diventare schiavo dell'immagine che di sé aveva costruito. Temeva un conflitto, ma non avrebbe mai accettato l'umiliazione di ammetterlo pubblicamente. Fu così costretto, non senza imbarazzo, a dichiarare la «non belligeranza» quando le armate hitleriane, varcando il confine polacco, diedero inizio alla seconda guerra mondiale.
Per il duce i primi mesi di guerra furono una sorta di agonia, dal momento che la valutazione realistica delle forze disponibili tarpava inesorabilmente le ali della sua ambizione. Di fatto, solo le travolgenti vittorie tedesche del maggio 1940 spinsero Mussolini a rompere gli indugi.
Con l'ingresso in guerra (10 giugno 1940) si chiudeva così una lunga fase della politica estera italiana. Iniziata nel rispetto e nella ricerca costante dell'equilibrio, quella politica si concludeva con la rinuncia, di fatto, all'unico ruolo di rilievo che l'Italia fosse riuscita a ricoprire tra i due conflitti mondiali: quello di mediatrice tra le nazioni europee. L'obiettivo di elevare l'Italia al rango delle grandi potenze fallì proprio a causa dell'abbandono della politica del «peso determinante». Legandosi a Hitler, infatti, Mussolini perse la propria autonomia, e il fallimento dell'estremo tentativo di ignorare questa verità – la conduzione di una guerra parallela – finì per ridurre l'Italia a satellite politico-militare della Germania.

Un bilancio conclusivo


 

Le indecisioni, i ripensamenti e le ambiguità che la caratterizzarono per vent'anni rendono difficile arrivare a un'interpretazione univoca e condivisa della politica estera del fascismo. Soprattutto gli ultimi anni, dopo l'impresa etiopica, furono quanto mai ricchi di contraddizioni: basti pensare ai rapporti con la Germania  – a cui si guardò, alternativamente, con ammirazione, invidia e timore –, all'ambizione, più volte frustrata, di stravolgere l'equilibrio internazionale al fine di costruire la «nuova Europa», al ruolo sempre più decisivo che acquisì l'ideologia nella determinazione di scelte politiche che avrebbero richiesto, invece, una più attenta meditazione sulle conseguenze. Le sorti di un intero paese furono sostanzialmente decise dalla volontà di un uomo solo, determinato a fare dell'Italia, contro ogni valutazione realistica della realtà, una grande potenza imperialista. La sua condotta altalenante, sempre più incerta nell'imminenza del conflitto, costituì probabilmente il fattore maggiormente destabilizzante della politica estera italiana e finì per trascinare la nazione nel baratro di una guerra mai completamente voluta, ma accettata per (errato) calcolo politico. Mai Mussolini ebbe progetti di collaborazione internazionale che non fossero strumentali ad accrescere il suo prestigio personale e a dare sfogo all'innata aggressività del fascismo. Per il duce l'Europa non fu altro che uno scacchiere, un tavolo su cui giocare d'azzardo ma senza le carte vincenti. E il bluff, alla fine, non riuscì.
 
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La politica estera del fascismo: un precario equilibrio tra prudenza e aggressività (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 dicembre 2013)
 
«La politica estera dell'Italia fascista è una politica di realtà e di giustizia internazionale. È la politica di una Nazione vittoriosa, la quale è conscia dell'eredità di una passata grandezza e sente il dovere di esserne degna e di continuarla nell'avvenire. È la politica estera di un popolo giovane ed esuberante che, pena la soffocazione, deve fatalmente espandersi in un più vasto respiro».
Con queste parole il sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri Dino Grandi, a conclusione di un lungo discorso tenuto alla Camera il 19 maggio 1926, illustrava le linee guida che avevano improntato la politica estera italiana durante i primi quattro anni del governo Mussolini. Al di là della retorica, è evidente una certa ambiguità, sia per quanto concerneva gli obiettivi – decisamente contraddittori –, sia (soprattutto) per quanto atteneva ai mezzi per conseguirli. Come conciliare – si chiedeva in effetti Mussolini – la volontà di dar prova, anche a fini propagandistici, di energia e vitalità, di fare del XX «il secolo del fascismo [...] [e] della potenza italiana», con la riluttanza ad affrontare la prova di un conflitto europeo?
L'Italia uscita dalla Grande Guerra era un paese debole, assolutamente incapace di far valere con la forza le proprie ragioni in contrasto con le maggiori potenze europee. Mussolini ebbe sempre presente questa fragilità e, anche se volutamente si mostrava talvolta aggressivo per ragioni di prestigio personale e per distogliere l'attenzione dai problemi di politica interna, non si sarebbe mai fatto trascinare nel secondo conflitto mondiale se la fulminea avanzata tedesca in territorio francese non gli avesse fatto ritenere imminente la cessazione delle ostilità. «Nessun uomo di Stato – scrisse il diplomatico Mario Luciolli – ebbe, fra il 1918 e il 1939 tanta paura della guerra quanta ne ebbe Mussolini».
La riluttanza di Mussolini era in sostanza figlia della consapevolezza dei limiti della potenza militare italiana. Il duce non voleva la guerra poiché si rendeva realisticamente conto che l'Italia non era preparata ad affrontarla. Allo stesso tempo, però, il fascismo, per la sua stessa natura politico-militaresca, fu sin dall'inizio un movimento logicamente propenso alla violenza, nei modi come nei toni. Mussolini, del resto, subordinava la politica estera a una duplice concezione dei rapporti internazionali, destinata a concretizzarsi in manifestazioni aggressive: la visione secondo la quale i popoli seguono, nella loro evoluzione, gli stadi di giovinezza, maturità e decadenza (la democrazia, in quest'ottica, altro non è che una forma di governo tipica delle nazioni in declino); l'idea che la storia sia continuo movimento e che la guerra costituisca l'esito naturale delle controversie tra i popoli. Uno scontro con le «demo-plutocrazie» era quindi da considerarsi inevitabile: il problema era la palese impreparazione militare dell'Italia, che – come detto – il dittatore non ignorava. Si trattava in sostanza di mantenere una posizione di equilibrio tra le grandi potenze, in attesa del momento propizio per imporsi a livello internazionale.
Questo atteggiamento produsse di frequente nell'animo del duce un senso di forte frustrazione, che si acuì alla vigilia della seconda guerra mondiale. Due giorni prima dell'invasione tedesca della Polonia (il 30 agosto 1939), scrisse infatti Ciano sul suo diario, riferendosi al suocero: «L'idea della nostra forzata neutralità gli pesa sempre di più. Non potendo fare la guerra, prende tutte quelle disposizioni che, in caso di soluzione pacifica, potranno permettergli di dire che l'avrebbe fatta. Richiami, oscuramenti, requisizioni, chiusure di locali». Al di là della prudenza, quindi, Mussolini avrebbe voluto recitare anche sul campo di battaglia il ruolo del protagonista, come dimostrò, all'indomani dell'ingresso dell'Italia nel conflitto, la conduzione della cosiddetta «guerra parallela» in autonomia rispetto alla Germania. Ma la politica calcolatrice del «bastone e della carota» rivelò tutta la sua ambiguità e pericolosità quando il dittatore azzardò la carta dell'entrata in guerra, nell'illusoria convinzione che fosse giunto il momento di compiere – scrive Emilio Gentile – la «missione universale della rivoluzione fascista nella ricostruzione della Nuova Europa».

 

La politica estera fascista fino al 1934


 

Nei primi anni, durante i quali prevalse una certa prudenza, Mussolini ottenne alcuni preziosi successi, che si rivelarono tali soprattutto per le reazioni positive che suscitarono in politica interna.
Nel 1923 una missione italiana incaricata di delimitare il confine greco-albanese venne attaccata e subì la perdita di quattro uomini. Il duce, dopo che la Grecia ebbe respinto alcune condizioni dell'ultimatum inviatole dal governo italiano, ordinò l'occupazione di Corfù, accettando poi in seguito alle pressioni della Società delle Nazioni di sgomberare l'isola in cambio di un compenso in denaro. Il messaggio per quanto basato su una mossa di facciata era chiaro: con l'Italia fascista non si poteva scherzare. Per Mussolini, che certamente non avrebbe potuto opporsi a lungo alle potenze occidentali, fu un colpo da maestro: nascondendo con la sua aggressività il reale intento di guadagnare prestigio in Italia e all'estero, poté vantare l'ardire di essersi spinto oltre un limite che nessun politico di scuola liberale avrebbe mai osato varcare. 
Altri successi furono, nel 1924, l'accordo su Fiume e la conclusione delle trattative per il riconoscimento diplomatico della Russia sovietica. Nel primo caso venivano superati i patti siglati quattro anni prima a Rapallo tra l'Italia di Giolitti e la Jugoslavia, che avevano dato vita allo Stato Libero di Fiume. La città istriana, alla quale molti italiani erano sentimentalmente legati dopo l'impresa dannunziana, fu annessa al territorio della penisola e Mussolini fu elogiato per essere riuscito là dove il «poeta armato» aveva fallito. Nel secondo, il regime bolscevico otteneva di uscire dall'isolamento in cui era stato relegato dalle potenze occidentali dopo la Rivoluzione d'Ottobre, mentre l'Italia poté garantirsi la firma di un trattato di commercio e navigazione, importante soprattutto per l'importazione di carbone.
Nei rapporti con gli altri paesi europei, la questione tedesca costituiva uno dei problemi più intricati. Mussolini era convinto – precisa Elena Aga Rossi – che «la potenza tedesca sarebbe presto rinata e che l'Italia dovesse farsi antesignana del revisionismo internazionale [...] per acquistare maggiore spazio in Europa». Il suo obiettivo era quello di sfruttare le tensioni europee per guadagnare prestigio personale e inserire l'Italia nel novero delle grandi potenze continentali. Fu così che nel 1925 accettò di ricoprire, a fianco della Gran Bretagna, il ruolo di garante nella firma del Patto di Locarno, siglato da Francia, Germania e Belgio per decretare l'inviolabilità dei comuni confini, in ossequio a quanto stabilito a Versailles.
Il patto avvicinò ulteriormente l'Italia alla Gran Bretagna, grazie anche ai buoni rapporti personali instauratisi tra Mussolini, il ministro degli esteri Austen Chamberlain e Churchill. Al governo inglese interessava soprattutto il mantenimento dell'ordine europeo, e il duce sembrava offrire garanzie in questo senso, in virtù del suo interesse ad ottenere per l'Italia un più netto riconoscimento internazionale. In particolare raggiunse il suo acme la cosiddetta politica del «peso determinante», così descritta da Grandi (nel 1929 nominato ministro degli Esteri e nel 1932 ambasciatore a Londra) in un discorso al Gran Consiglio del Fascismo del 2 ottobre 1930: «La Nazione italiana non è ancora abbastanza potente, politicamente, militarmente ed economicamente, da potersi considerare come una nazione protagonista della vita europea [...]. Ma la Nazione italiana è già tuttavia abbastanza forte per costituire col suo apporto politico e militare il peso determinante alla vittoria dell'uno o dell'altro dei protagonisti del dramma europeo».
In quegli anni Mussolini cercò di rafforzare la propria immagine di statista prudente e di evitare pericolosi eccessi. La nomina del filo-inglese Grandi rispondeva a questa esigenza, che si concretizzò nell'impegno italiano nella politica del disarmo e nell'appoggio del ministro alla Società delle Nazioni. I risultati furono incoraggianti, come testimoniano i numerosi elogi che il duce ricevette oltre Manica, e non solo.
I rapporti internazionali mutarono radicalmente nel 1933 con l'ascesa al potere di Hitler. «In questa situazione – sottolinea Aga Rossi – l'Italia assunse per la prima volta un ruolo primario nel mantenimento dell'equilibrio europeo», appoggiando da un lato parte del revisionismo tedesco e proponendo dall'altro un Patto a quattro (tra Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia) per ribadire l'impegno comune alla non belligeranza. Il testo tuttavia fu approvato solo dopo che ad esso furono apportate drastiche modifiche, che lo trasformarono, in pratica, in una semplice dichiarazione di intenti (e l'inefficacia dell'accordo si palesò pochi mesi dopo con l'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni).
Mussolini godeva dell'ammirazione di Hitler, ma non stimava e anzi temeva il dittatore nazista. Il duce era perfettamente conscio del pericolo che una Germania rinforzata militarmente avrebbe rappresentato per l'Italia; tuttavia riteneva – e in questo fu incoraggiato dalle potenze occidentali – di poter sfruttare il suo ascendente sul Fuhrer per giocare un ruolo da protagonista come mediatore sulla scena europea. Nel 1934 ebbe la forza di reagire con vigore alla notizia del putsch nazista di Vienna (che costò la vita al cancelliere austriaco Dolfuss), ordinando che venissero mobilitate le divisioni italiane di stanza al Brennero; ma le ambizioni imperiali del fascismo, una certa affinità ideologica col nazismo e l'accresciuto peso internazionale dell'Italia finirono inesorabilmente per avvicinare i due dittatori. (Continua)

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