domenica 22 dicembre 2013

Un regime «che perde elezioni a ripetizione»: lo strano “fascismo” di Silvio Berlusconi

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 dicembre 2013)

A proposito di Silvio Berlusconi, dieci anni fa lo storico inglese Paul Ginsborg azzardò una previsione su cui vale la pena riflettere: «Sarebbe forse del tutto fantasioso – scrisse in un suo saggio – immaginare che nel 2013 i "piccoli forzisti" vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935?».
Occorre innanzitutto prevenire un'obiezione: Ginsborg non riteneva che l'Italia di inizio Terzo Millennio fosse paragonabile a quella degli anni Trenta. Ciò che intendeva suggerire era che Berlusconi rappresenta per i suoi seguaci un autentico mito, il classico personaggio rispetto al quale è impossibile restare indifferenti. O lo si ama, o lo si odia. In questo lo studioso britannico aveva indubbiamente visto giusto, anche se, passati dieci anni dall'uscita del saggio da cui sono tratte le righe appena citate, la fama del Cavaliere è senza dubbio in declino e – con buone probabilità – sono pochi i novelli Balilla che si addormentano abbracciando un medaglione con le sue iniziali.
Ciò che invece non accenna per nulla a placarsi è il forte, a tratti ossessivo, sentimento antiberlusconiano radicato in quella porzione di italiani che al fondatore di Forza Italia non ha mai accordato il proprio consenso. Per buona parte di questa consistente fetta di cittadinanza l'accostamento Berlusconi-Mussolini non è affatto fuori luogo: pur riconoscendo che il regime del duce era altra cosa, che – come ironizza Giovanni Orsina nello studio che è all'origine di questo articolo – oggi «Umberto Eco a Ventotene ci va – se lo vuole – in vacanza», gli antiberlusconiani continuano ad associare il Cavaliere al fascismo. Basta consultare Google per imbattersi in decine di fotomontaggi come quelli qui riportati: immagini innocue, non c'è dubbio, ma che acquistano per il semplice fatto di essere così diffuse un'innegabile valenza politica. Per quale motivo Berlusconi è considerato un fascista? In che senso, poi, potrebbe esserlo entro i confini di uno Stato repubblicano che ha bandito il fascismo dalle proprie istituzioni?
Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro e riflettere brevemente sul concetto di antifascismo. Giovanni Orsina, nel suo saggio contenuto nel volume L'ossessione del nemico (miscellanea a cura di Angelo Ventrone edita da Donzelli nel 2006), distingue tra antifascismo e Antifascismo, intendendo con il primo «l'opposizione al fascismo storico e a quel che ha significato», e con il secondo un «patrimonio  ideologico» che ha subito un «sovraccarico concettuale».
Per prima cosa, l'Antifascismo legge la storia d'Italia individuando nell'esperienza resistenziale una forte cesura tra l'intero periodo monarchico-unitario (fascista e prefascista) e quello repubblicano. L'interpretazione «assai forzata» della Resistenza come movimento popolare di massa consente di vedere in quello che è stato considerato un secondo Risorgimento non soltanto una prosecuzione dell'esperienza unificatrice ottocentesca, ma anche – secondo prospettive più radicali – un'autentica rivincita nei confronti di quest'ultima. Perché questa interpretazione sia possibile è però necessario considerare il fascismo non come una parentesi o il risultato di una concatenazione di prevaricazioni, bensì come il naturale prodotto di una congerie di vizi tradizionalmente italici sui quali è necessario affondare il bisturi del rinnovamento. L'ovvia conseguenza di questo processo non può che essere il suddetto sovraccarico ideologico, in base al quale l'accusa di essere un fascista può essere facilmente rivolta contro chiunque «impersoni quei fattori storici dei quali si presume che il regime mussoliniano sia stato il prodotto». Paradossalmente, persino il PCI – cui è stata a lungo contestata una sorta di apatia rivoluzionaria – ha subito in passato tentativi di delegittimazione che andavano in questa direzione.
L'aspetto più radicale dell'Antifascismo è senza dubbio la pretesa superiorità morale rispetto agli avversari (come visto, potenzialmente infiniti). Al "fascista", in altre parole, è proibito fare concessioni. In quanto nemico, egli sarà sempre un individuo spregevole guidato esclusivamente dai propri interessi; non un uomo dalla cultura distorta, ma un uomo di non-cultura; non un italiano in errore, bensì un non-italiano indegno di far parte della comunità nazionale.
Su questo terreno l'Antifascismo è giunto gradualmente.
Negli anni Cinquanta, in epoca centrista, la riflessione storiografica sulla Resistenza aveva interessato pressoché solo le forze progressiste, essendo la cultura moderata preoccupata che l'enfasi sulla lotta di liberazione e le origini dell'Italia repubblicana potesse giovare oltremodo al PCI. Di conseguenza, quando nel decennio successivo l'antifascismo tornò alla ribalta – come unica possibile piattaforma d'intesa tra i partiti che si apprestavano ad inaugurare la stagione del centro-sinistra –, esso finì per connotarsi secondo il paradigma Antifascista, dal momento che le interpretazioni non-Antifasciste delle vicende inerenti alla recente storia d'Italia avevano ormai accumulato un ritardo culturale impossibile da ignorare. Di fatto, isolando per anni la sinistra, la DC le concesse una sorta di esclusiva sull'utilizzo di un antifascismo destinato a gonfiarsi a dismisura.
Decisivo si rivelò, in questo processo degenerativo, il fallimento dell'esperimento di Tambroni di aprire al MSI, che di fatto rese improponibile, per il futuro, qualunque ipotesi di governo sorretto, seppure democraticamente, dalla destra. Di lì a poco – precisa Orsina –, la svolta degli anni Sessanta e il progetto del centro-sinistra coincisero con il battesimo dell'Antifascismo quale «ideologia ufficiale» della politica italiana, con la conseguente «estensione dell'area dell'illegittimità repubblicana oltre i confini del neofascismo, al conservatorismo e al moderatismo». Con questo, si badi, non si deve intendere che le forze moderate furono escluse dal governo: tutt'altro. Semplicemente esse dovettero subire in quegli anni, sul piano culturale, l'emarginazione del proprio conservatorismo – sospinto al di fuori della legittimità repubblicana –, e si trovarono costrette a «mascherarsi sotto volti posticci». Il che creò quello iato tra prassi di governo e cultura politica che fu alla base delle contestazioni sessantottine e che a lungo andare consentì il radicarsi della convinzione, tuttora largamente condivisa, che «la soluzione dei mali d'Italia» risieda «in una rivoluzione di carattere morale più che economico e sociale», ovviamente di stampo rigorosamente Antifascista.
Questo aspetto è, a ben vedere, determinante. Il fallimento del progetto riformistico del centro-sinistra e la parallela degenerazione, sul piano etico, del sistema dei partiti crearono le premesse, grosso modo a partire dagli anni Settanta, per uno slittamento del paradigma Antifascista dal terreno economico a quello culturale. L'enfasi che Enrico Berlinguer – segretario del principale partito Antifascista – pose sulla questione morale è del resto piuttosto eloquente. Si trattava, in sostanza, di salvaguardare l'orgoglio di una diversità che fungesse da pretesto – forse l'unico rimasto, vista la crisi dell'intero blocco comunista – per ribadire, con rinnovata altezzosità, la propria estraneità rispetto alle altre forze politiche.
Date le premesse, che l'Antifascismo egemone fosse incompatibile con la «discesa in campo» del Cavaliere fu evidente sin dagli esordi politici del fondatore di Forza Italia, il quale, attraverso lo «sdoganamento» del MSI e l'appoggio al "fascista" Gianfranco Fini, di fatto inaugurò la stagione dell'antiberlusconismo. Il suo anticomunismo esasperato – divenuto, specie dopo il fallimento del centro-sinistra, inconciliabile con l'Antifascismo di quanti non ritenevano più praticabile alcun progetto di rinnovamento che prescindesse dall'apporto degli eredi del PCI –, unito al fastidio per la presunta invadenza dei basilari contropoteri democratici, ha innegabilmente fornito un valido pretesto per la costruzione dell'antimito berlusconiano; ma, tornando alle riflessioni da cui siamo partiti, a rendere per molti credibile l'accostamento Berlusconi-Mussolini è stato prima di tutto lo strapotere mediatico del Cavaliere. «Nel nostro tempo – ha scritto infatti Umberto Eco –, se dittatura ha da esserci, deve essere dittatura mediatica e non politica».
Il punto, come bene spiega Orsina, è che «da decenni ormai l'Antifascismo ha distaccato il fascismo dal suo contesto storico, trasformandolo in un'etichetta generica suscettibile di essere applicata a chiunque sia ritenuto, dall'Antifascista stesso, d'ostacolo al rinnovamento d'Italia». Il che, con tutta evidenza, fa di Berlusconi (personaggio di cui peraltro è facile biasimare il comportamento sempre sopra le righe) il bersaglio perfetto. Per il fatto di avere conquistato il potere professando apertamente la propria ostilità culturale nei confronti dell'ideologia ufficiale Antifascista (e quindi rinnegando la consolidata prassi dissimulatrice democristiana, responsabile della degenerazione afasica del moderatismo), egli è automaticamente diventato «un pericolo mortale per la democrazia», l'instauratore di un regime. Poco importa che manchino argomentazioni convincenti per sostenere che il pluralismo sia effettivamente in pericolo (regime curioso, quello berlusconiano, «del quale – ironizza Orsina – parlano male praticamente tutti, che perde elezioni a ripetizione ed è infine rispedito all'opposizione»): se il Cavaliere dev'essere a tutti i costi il nemico pubblico numero uno, il paragone col suo predecessore in camicia nera diviene così suggestivo da abbattere qualunque barriera storiografica.

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lunedì 16 dicembre 2013

«Il più efficace degli antidoti»: Togliatti e il dramma dei prigionieri di guerra italiani in URSS

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 dicembre 2013)
 
La sorte dell'ARMIR, l'Armata italiana in Russia inviata sul fronte orientale da un Mussolini desideroso di dare un sostanzioso contributo alla lotta antibolscevica, fu tragica: ben 95.000 dei 229.000 uomini che la componevano non fecero ritorno. Le perdite più consistenti non furono però quelle dei caduti in battaglia. Secondo alcuni calcoli di parte sovietica, infatti, l'Armata Rossa catturò tra gli 80 e i 115 mila militari italiani, ridotti – ma la cifra rimane ad ogni modo significativa – a «più di 40.000» dalla propaganda di Radio Mosca, curata da Palmiro Togliatti.
Nell'estate del 1944 il governo Bonomi cominciò a fare pressioni su Mosca affinché questa inviasse gli elenchi dei prigionieri, ma dovette attendere l'agosto dell'anno seguente prima di ricevere una risposta. L'Unione Sovietica, fece infine sapere il viceministro degli Esteri Solomon Lozovsky, non si opponeva alla restituzione dei militari italiani, fatta eccezione per un esiguo numero di criminali di guerra. Ma i conti non tornavano: secondo le stime di parte russa, i soldati da rimpatriare erano appena 19.000, cifra drasticamente inferiore alle aspettative. E non era tutto. Quando, alla fine del luglio 1946, l'ambasciata sovietica a Roma comunicò di avere terminato le procedure di rimpatrio dopo aver restituito 21.193 prigionieri, le autorità italiane scoprirono che nel conto erano stati annoverati ben 11.000 militari appartenenti a divisioni di stanza nei Balcani, i quali, catturati dai nazisti dopo l'8 settembre, erano stati in seguito "liberati" dall'Armata Rossa ed internati in URSS.
La decisione sovietica di restituire i prigionieri, al di là della discrepanza sulle cifre con il governo di Roma, fu ad ogni modo inaspettata. Stalin, infatti, fece per l'Italia un'eccezione rispetto alla prassi consolidata di considerare i prigionieri di guerra come forza-lavoro. Le motivazioni del dittatore sovietico non sono ancora del tutto chiare, ma è ipotizzabile che, dati l'esiguo numero dei superstiti e l'elevata mortalità, gli italiani costituissero un gruppo poco produttivo. Così almeno si spiegherebbe la decisione di rimpatriare per primi i malati gravi, gli invalidi e gli inabili al lavoro.
A parere di Mosca, pertanto, l'Italia doveva considerarsi soltanto grata per la restituzione dei militari caduti nelle mani dell'Armata Rossa: ogni ulteriore richiesta, tenendo conto che per Stalin era molto labile la differenza tra prigioniero e collaborazionista, era da ritenersi fuori luogo. Se infatti si considera che gli stessi militari sovietici sopravvissuti ai lager nazisti furono in larga parte internati nei campi "correttivi" siberiani, risulta evidente che, dal punto di vista dei russi, un paese aggressore come l'Italia non si trovava certo nella condizione di avanzare pretese. Mosca non si sentiva quindi per nulla obbligata a fornire informazioni sui soldati italiani caduti o dispersi in URSS. Solo la recente apertura degli archivi sovietici ha consentito agli storici di far luce sulla tragica sorte di migliaia di prigionieri italiani.
La maggior parte di essi cadde in mano sovietica in seguito alla grande offensiva dell'Armata Rossa dell'inverno 1942-43. Un numero elevato di uomini da mantenere avrebbe tuttavia ostacolato le manovre al fronte: l'unica soluzione praticabile parve allora quella di trasportare i prigionieri nelle retrovie, anche per evitare che il nemico li liberasse. La conseguenza, per le decine di migliaia di soldati italiani, furono le cosiddette marce del davai («avanti» in russo: era l'ordine impartito dalle guardie) verso le stazioni ferroviarie, cui seguivano interminabili viaggi verso l'interno in condizioni di estremo disagio. Freddo, malnutrizione e malattie decimarono i convogli, con livelli di mortalità vicini al 90%. In questo dato la documentazione oggi disponibile non consente di individuare alcun intento punitivo da parte dei sovietici. Semplicemente, rilevano Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel volume Togliatti e Stalin (Il Mulino, 2007), «il trattamento clemente dei detenuti non è mai stato una caratteristica del governo staliniano». Su circa 85.000 prigionieri di guerra italiani in URSS (secondo le stime più recenti), si devono calcolare grosso modo 40.000 morti nei lager e 22.000 persone non identificate, decedute durante le marce: tra i restanti uomini, circa 22.000 fecero ritorno in patria, ma il conto deve necessariamente tenere in considerazione imprecisioni ed errori.
Ovviamente, il problema delle migliaia di militari italiani detenuti in territorio russo interessò da vicino i vertici del PCI, i cui dirigenti più influenti erano in stretto contatto con Mosca. Ad essi, infatti, il governo sovietico affidò un ruolo di prim'ordine nell'organizzazione della resistenza e della propaganda, rivolta, oltre che ai soldati al fronte, anche ai prigionieri di guerra. Nei campi di internamento, infatti, i comunisti italiani residenti in URSS erano chiamati a gestire scuole di indottrinamento antifascista, a curare la redazione di periodici, a presenziare agli interrogatori e a condurre trasmissioni radiofoniche per l'Italia. Gli istruttori politici del PCI erano subordinati al rappresentante italiano presso il Comitato esecutivo del Comintern, Vincenzo Bianco, il quale, a sua volta, aveva come superiori Togliatti e il segretario generale del Comintern Georgij Dimitrov. Proprio a Bianco si deve una testimonianza fondamentale sulle condizioni dei prigionieri di guerra dell'ARMIR. Si tratta di una lettera a Togliatti datata 31 gennaio 1943, nella quale veniva esplicitamente posto il problema dell'alto tasso di mortalità tra i detenuti italiani, che nei lager russi perivano «in massa». La risposta del Migliore, che vale la pena citare ampiamente, lasciò tuttavia intendere che il PCI non avrebbe mosso un dito per arrestare quello che stava assumendo le proporzioni di un autentico massacro di connazionali: «La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l'Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché. Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. [...] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il più efficace degli antidoti».
L'atteggiamento "morbido" nei confronti dei prigionieri con buone probabilità fu la causa del mancato avanzamento di carriera di Bianco ai vertici del partito. Ma non è questo il punto su cui vale pena soffermarsi in questa sede. L'aspetto principale da sottolineare è che il PCI, dovendo effettuare una scelta di campo tra gli interessi nazionali e la fedeltà al governo dell'URSS, preferì optare per una più comoda via di mezzo, di fatto assecondando la politica repressiva di Mosca senza tuttavia assumersi apertamente la responsabilità della propria condotta antipatriottica. In pratica, Togliatti avallò la decisione di non far pervenire a Stalin alcuna rimostranza in merito al trattamento disumano riservato ai prigionieri di guerra dell'ARMIR, ma, al contempo, si preoccupò che la notizia non trapelasse (o quantomeno trapelasse il meno possibile) in Italia. Fatto sta che il rimpatrio dei prigionieri tra 1945 e 1946 creò più di un grattacapo al PCI, convinto che la decisione sovietica di affrettare la loro restituzione – ancora oggi difficile da motivare – avrebbe procurato un grave danno di immagine all'universo comunista. Sarebbe stato infatti fin troppo facile per gli avversari politici rilevare significative discrepanze tra il ritratto del paradiso dell'URSS tratteggiato dalla propaganda togliattiana e i racconti dei reduci, che avrebbero inevitabilmente posto l'accento sul paradosso dei «contadini russi senza scarpe». Il mito sovietico, in altre parole, sarebbe stato abbattuto dai colpi di piccone delle testimonianze di migliaia di sopravvissuti ai lager staliniani. E, in effetti, così in parte accadde.
Del resto, gli stessi dirigenti comunisti italiani erano perfettamente al corrente che Mosca mentiva quando affermava di aver restituito tutti i prigionieri entro il 1946. Ma sbilanciarsi poteva essere pericoloso, anche perché Togliatti non si trovava certo nelle condizioni di fare pressioni su Stalin. Tanto valeva, quindi, tentare di limitare i danni, screditando i militari rimpatriati che gettavano fango sull'URSS. Così, quando nell'aprile del 1948 l'Unione nazionale reduci dalla Russia pubblicò un opuscolo in cui alcuni ex prigionieri accusavano i comunisti che avevano curato la propaganda antifascista nei campi sovietici di aver condotto violenti ed «estenuanti interrogatori», il senatore Edoardo D'Onofrio, chiamato in causa, decise di querelare per diffamazione gli autori dello scritto. Il processo gli diede torto, ma ciò non servì (anzi!) a sanare la frattura tra un PCI succube di Mosca e un paese, l'Italia, che negli anni avrebbe rafforzato il suo legame col blocco occidentale. Oggi, anche ripensando a vicende come quella dei prigionieri dell'ARMIR, risulta evidente come dietro il collegamento cronologico tra il crollo dell'URSS e lo scioglimento del Partito comunista italiano si nasconda il dramma politico di intere generazioni.

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lunedì 9 dicembre 2013

La psicosi del nemico interno: il male inguaribile della comunicazione politica italiana

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 dicembre 2013)

La tesi centrale de Il nemico interno, interessante saggio di Angelo Ventrone pubblicato da Donzelli nel 2005, è che la propaganda politica fatichi enormemente a superare una visione manichea della realtà secondo la quale è molto più conveniente delegittimare l'avversario (una persona, un partito, una nazione, un popolo) che instaurare con esso un dialogo costruttivo, incentrato sulle differenti proposte. Il rivale, in altre parole, rappresenta inevitabilmente il male da cui difendersi, il nemico interno, appunto, sospettato di tramare contro la patria per fini loschi o, più di frequente, perché colluso con un più potente nemico esterno che ne tira i fili a mo' di diabolico burattinaio.
Nella storia dell'Italia contemporanea questa psicosi del nemico interno è stata associata il più delle volte alla guerra. Già nel 1911, con lo scoppio del conflitto coloniale in Libia, l'opinione pubblica si divise nettamente nei due tronconi di chi era favorevole all'intervento e chi, come il PSI, protestava che l'invasione di un paese africano non avrebbe fatto altro che depauperare le casse dello Stato. Ma fu, ovviamente, la Grande Guerra a creare le condizioni per un inasprimento senza precedenti dei toni della propaganda, che divenne strumento di feroce accusa di un avversario che si voleva far passare, a seconda dei casi, o per disfattista antipatriottico, o per traditore dei reali interessi della nazione. Tanto i neutralisti (in particolar modo i socialisti) quanto gli interventisti furono tacciati di collusione col nemico esterno, individuato, in un caso, con la Germania di Guglielmo II – vorace mostro imperialista –, nell'altro con il capitalismo internazionale, responsabile della carneficina europea.
L'ossessione antigermanica, in particolare, accentuò una tendenza già piuttosto diffusa nel quadro politico italiano: il ricorso allo stereotipo quale strumento privilegiato per screditare il nemico. Così, se il tedesco veniva rappresentato come il più temibile dei barbari, in quanto in possesso di tecnologie potenzialmente devastanti in campo bellico, divenne quasi automatico, negli anni seguenti, associare agli Stati Uniti l'immagine del borghese corrotto, anche fisicamente, dal capitalismo, e all'Unione Sovietica quella del povero che soffre la fame. In quest'ottica, è interessante notare che la propaganda fascista condannava sia USA che URSS, poiché entrambe, rileva Ventrone, erano accomunate «dall'interesse esclusivo per la dimensione materiale dell'esistenza» come conseguenza, rispettivamente, della plutocrazia e della dittatura comunista. Proprio questo intendeva infatti Mussolini quando affermava «Noi siamo contro la vita comoda», nel contesto della cosiddetta battaglia contro quel «comfortismo» da cui derivavano l'attaccamento alla ricchezza come valore supremo e l'egoismo individualista.
Tra la propaganda di demonizzazione del nemico esterno e quella mirante a screditare il nemico interno i punti di contatto erano molteplici. Durante la prima guerra mondiale un efficace strumento per alimentare l'odio antisocialista divenne persino l'eugenetica, dal momento che si riteneva che l'abuso di alcool e la diffusione della sifilide tra le classi operaie fossero le naturali conseguenze di una progressiva degenerazione biologica. Di contro, il PSI ribatteva che la guerra borghese avrebbe provocato un abbrutimento generalizzato del proletariato, costretto a rinunciare ai tradizionali vincoli di solidarietà di classe senza alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni. E quando, al termine del conflitto, apparve all'orizzonte la minaccia del fascismo, divenne pressoché automatico attribuire a quest'ultimo – in ideale continuità con la propaganda precedente – il ruolo di braccio armato della borghesia, che avrebbe scatenato sul popolo un'aggressività paragonabile a quella di un'epidemia. Da allora al movimento mussoliniano fu sempre accostata l'immagine della morte.
La dittatura fascista, ad ogni modo, fu l'abile regista di una propaganda che radicalizzò ulteriormente la tendenza ad evidenziare la bestialità dell'avversario, sia che esso fosse il bolscevico, l'ebreo o il plutocrate. Terminato il secondo conflitto mondiale, lo sgomento provato di fronte alla scoperta dei campi di sterminio nazisti rese improponibile, nell'ambito della comunicazione politica, qualunque richiamo alla razza. Nondimeno, lo scontro ideologico continuò ad essere concepito come un'aspra lotta contro il nemico interno, che venne riproposto nelle sembianze, da un lato, della morte che divorava i paesi soggetti al comunismo, dall'altro, del guerrafondaio al soldo degli americani.
L'aspetto senza dubbio più significativo della propaganda dell'Italia repubblicana è dunque la sopravvivenza del linguaggio aggressivo tipico del periodo dei due conflitti mondiali e della dittatura. Forse fu l'assuefazione, dopo vent'anni di regime, alla violenza a mantenere vivo l'odio ideologico; ma, a ben vedere, decisiva si rivelò la mancata volontà di interrogarsi sulle ragioni che avevano spianato la strada all'avvento del fascismo, al punto che rinnegare il passato – e soprattutto le responsabilità personali e collettive connesse con esso – parve a tutti la più comoda delle soluzioni.  
La democrazia italiana fu dunque istituita da formazioni politiche il cui habitus mentale – sottolinea Ventrone – era «fatto di comportamenti e di atteggiamenti non coerenti con un sistema [...] pluralistico». Ovviamente, in un tale contesto, la guerra fredda non poteva far altro che soffiare sul fuoco delle contrapposizioni dottrinarie, perpetuando un modo di comunicare in politica incentrato più sulle carenze (per usare un eufemismo) dell'avversario che non sulle proposte e sui programmi. Ciò ha fatto sì, prosegue Ventrone, che l'ingrediente fondamentale della propaganda sia tuttora la sua «componente "persecutiva"», in base alla quale la preoccupazione principale dev'essere quella di presentare i vantaggi connessi con una determinata scelta politica essenzialmente attraverso la raffigurazione del «pericolo rappresentato dalla presenza del nemico, del negativo da cui difendersi».
I due manifesti del 1948 qui accanto riportati hanno quindi in comune un aspetto fondamentale: chiedono entrambi – in un caso esplicitamente – un voto contro. Contro la mortale minaccia sovietica si invitavano gli elettori a votare DC; contro «i provocatori di guerre, i venduti allo straniero» – ma anche contro un De Gasperi «cecchino di Truman», raffigurato con l'elmo chiodato tipico del "barbaro" esercito germanico – si chiedeva di votare per il Fronte popolare. Lo scontro pareva di natura religiosa, oltre che politica. Del resto, come scrisse la «Civiltà Cattolica» il 18 aprile 1953, la dialettica tra opposte fazioni era in realtà una «battaglia [...] fra Cristo e Barabba». In quest'ottica si mantenne altresì forte, grosso modo fino agli anni Settanta, il timore di un ritorno al passato dittatoriale, espresso dalle forze di sinistra attraverso lo strumentale accostamento di fascismo e DC e da quest'ultima con la teoria dei cosiddetti «opposti estremismi», in base alla quale il partito di ispirazione cattolica rappresentava l'unico baluardo contro il duplice pericolo nero e rosso.
Come si vede, la continuità tra fascismo e post-fascismo, piuttosto evidente a livello iconografico, non può stupire più di tanto tenuto conto delle premesse. Al riguardo, oltre a quanto già rilevato, va detto anche che tanto la DC quanto il PCI ereditarono dal movimento mussoliniano l'ossessione per la difesa della coesione sociale e la morigeratezza dei costumi, che si credevano minacciate rispettivamente dal materialismo marxista e dall'individualismo di derivazione capitalista.
Sia chiaro, una visione di questo tipo non implica necessariamente il rifiuto aprioristico di qualsiasi forma di dialogo tra diverse fazioni: basterebbe la comune intesa in funzione antifascista che è all'origine della Costituzione a dare prova della presenza, accanto ai laceranti motivi di divisione, di significativi punti di contatto tra le forze politiche del dopoguerra, le quali hanno peraltro trovato un inaspettato elemento aggregatore nel crescente benessere di una società italiana sempre più omologata da processi consumistici e di secolarizzazione. Tuttavia è innegabile che la delegittimazione dell'avversario costituisca tuttora una componente essenziale – e preoccupante – della dialettica tra partiti. Pur tenendo conto di alcune importanti novità – come la trasformazione della propaganda in persuasione parapubblicitaria, l'accentuata valorizzazione delle qualità personali dei leader, il passaggio dalla mobilitazione per fini collettivi al cosiddetto voto d'opinione –, pare infatti evidente che il virus della demonizzazione del nemico interno non possa ancora dirsi smaltito. Caduta la DC (e non è certo una coincidenza che essa sia crollata proprio dopo lo scioglimento del PCI), la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi nel 1994 ha riportato la comunicazione politica sul familiare terreno dell'invettiva. Forza Italia si presentò infatti allora come un partito sorto in difesa della libertà continuamente minacciata dai comunisti, dalla magistratura, dalla cultura e, paradossalmente, dalla stessa politica; di contro, da vent'anni le forze di sinistra si ergono a baluardo in difesa della democrazia che – sostengono – è in pericolo per il solo fatto che Berlusconi esiste. Possibile che l'italiano del 2013 debba ancora convivere con l'incubo del nemico dentro casa?

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lunedì 2 dicembre 2013

L'intramontabile fascino della romanità

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° dicembre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Nella Premessa al libro Quando a Modena c'erano i Romani (di prossima pubblicazione per i tipi di Terra e Identità), l'autore, Gabriele Sorrentino, illustra con queste parole le ragioni che stanno all'origine del volume: «A differenza di quanto spesso avviene con i sogni infantili, il fascino della Civiltà Romana non è mai tramontato in me».
Va detto che, nell'essere attratto dalla romanità, Sorrentino è in buona compagnia. Uno degli aspetti più sorprendenti del fascino che promana dalla Città Eterna è infatti la sua capacità di conservarsi intatto per secoli, sino ai giorni nostri. Nessun'altra città ha avuto, nella storia della civiltà occidentale, un ruolo paragonabile a quello di Roma. Volendo ricordare altri esempi "mitici", Atene e Sparta sono rimaste pressoché fossilizzate nel ricordo di letterati poco interessati al loro presente; Troia non sopravvive se non come teatro dell'Iliade; Cartagine è conosciuta quasi esclusivamente per Annibale e le guerre puniche; forse solo Gerusalemme – ma con le debite proporzioni – può essere accostata a Roma, dal momento che possiede un potere di fascinazione che non è mai dipeso dal suo ruolo politico.
Roma, da Carlo Magno a Mussolini, non ha mai smesso di essere un faro per la civiltà occidentale, anche dopo che dei suoi fasti imperiali non era rimasto che il ricordo. Indubbiamente la sua sopravvivenza come centro urbano di una certa rilevanza ha contribuito a perpetuarne il mito, continuamente alimentato dalla permanenza sul suolo dell'Urbe di maestose rovine in grado di evocare l'antico splendore. Ma non è solo questo a rendere Roma una città unica. È sotto l'aspetto simbolico che essa ha suggestionato l'umanità nel corso dei secoli. Dal martirio di Pietro e Paolo, che ne ha reso immortale il prestigio nel mondo cristiano, alle cerimonie di incoronazione di Carlo Magno e, dopo di lui, dei sovrani germanici; da Napoleone, che dopo il colpo di Stato del 18 brumaio pretese per sé, con evidente riferimento alla classicità, la carica di Primo Console, a Mussolini, che volle dar vita, dopo quella dei Cesari e dei Papi, alla grande Roma fascista, la Città Eterna è sempre stata sinonimo di grandezza, magnificenza e potere.
Oggi cosa resta del mito di Roma? Innegabilmente, come è accaduto per i concetti di patria e di nazione, anche quello della romanità ha risentito del lungo processo di defascistizzazione culturale avviato in Italia al termine del secondo conflitto mondiale. Il richiamo dei fasci littori e dei saluti col braccio teso evoca ancora – inutile negarlo – brutti ricordi. Ma Roma non se la passa benissimo nemmeno come cuore pulsante della cristianità, col paradosso che proprio l'istituzione che più di tutte ha contribuito ad eternarne la fama – la Chiesa – è considerata oramai dai più una palla al piede per il prestigio della città. Come negare, infatti, che da un punto di vista mediatico il papato sia sotto attacco, con accuse di intolleranza, corruzione e pedofilia che, come palle di cannone, piovono da tutte le parti entro le mura vaticane? E infine che dire della Roma ladrona che turba il sonno di milioni di "padani"? I miti – la storia insegna – non sono immortali, e possono anche essere ribaltati in antimiti. Roma, con la sua civiltà, la sua sacralità e il suo fascino di Città Eterna, merita questo scialbo tramonto?

 

      

L'accusa di Paolo Molteni

 

«I Romani non furono certo una schiatta di civilizzatori e santi»

 

Roma continua ad essere un mito inossidabile. Non si può dire che la leggenda di Roma sia dura a morire, perché in realtà non ha mai attraversato momenti critici, ma ha sempre goduto e continua a godere di ottima salute. Ci viene continuamente propinata la medesima solfa: Roma è un faro di civiltà che ha portato il diritto e il progresso ovunque ha messo piede.
È ovvio che questa convinzione ne sottende un'altra, non espressa ufficialmente ma sua naturale conseguenza. Ovvero che i luoghi che hanno subito la conquista e la dominazione di Roma, prima di incontrare questa fonte di civiltà fossero abitati da popolazioni incivili, arretrate, indegne quasi di appartenere al genere umano.
Ritengo che questo modo di vedere le cose appartenga appunto alla sfera del mito nel senso più pieno del termine. Ovvero che non abbia nulla a che fare con la realtà. Si tratta semplicemente dei frutti di una delle prime manifestazioni della storia scritta ad uso e consumo del vincitore. I Romani, dopo aver sconfitto i nemici, averne occupato le terre e averne trasformato gli abitanti in sudditi, hanno cominciato a scrivere per se stessi e per i posteri che le loro conquiste hanno portato ovunque pace e prosperità. Si sono astenuti solo dal vantarsi di aver portato la democrazia, perché allora non era ancora di moda.
In realtà, che i Romani fossero questa schiatta di civilizzatori e santi, non mi risulta proprio. Sono stati semplicemente bravi a capire che piuttosto che guadagnarsi l'esistenza quotidiana spandendo il proprio sudore, era più comodo campare a spese degli altri. Una mentalità che fino a quel momento aveva trovato frotte di estimatori solo in Oriente dove sorsero i primi Stati sovranazionali esito di campagne di conquista di popoli espansionisti.
Non a caso nessuna delle popolazioni che, una dopo l'altra, sono cadute sotto il giogo romano, ha rinunciato alla propria libertà senza combattere. E i progenitori dei modenesi, ovvero i Galli Boi, sotto questo aspetto sono stati un esempio di fierezza, di indomito attaccamento alla propria indipendenza e di spirito combattivo.
Non è il caso di dilungarci spiegando come la società celtica non possa essere definita incivile e arretrata. Ampi studi le hanno restituito la dignità che merita. Si trattava semplicemente di una realtà molto diversa da quella romana, ma non per questo inferiore. Aveva suoi usi e costumi, un proprio diritto, una solidarietà tribale che i Romani, perennemente dilaniati dai conflitti di ceto, si sognavano. E soprattutto erano orgogliosi del loro modo di vivere e non disposti a rinunciarvi senza combattere fino allo stremo.
Dall'altra parte c'era Roma, i cui oligarchi non esitavano a mettere a ferro e fuoco il Mediterraneo e a far scorrere fiumi di sangue per poter spendere la gloria così acquisita nella competizione per accedere alle cariche cittadine di comando. E questa sarebbe civiltà?
In definitiva penso che i Romani avessero una loro idea del mondo, all'interno della quale tutti gli altri popoli erano pedine sacrificabili. Hanno costruito un grande impero, è vero! E hanno lasciato in eredità agli europei di oggi leggi e istituzioni, anche questo è vero! Ma hanno anche distrutto nazioni e brutalizzato popolazioni altrettanto "civili", assoggettandole a uno Stato e togliendo loro la libertà. E la libertà resta il bene primario, che non può essere barattato con nulla al mondo.

 

 

La difesa di Gabriele Sorrentino

 

«La colonizzazione romana della Cisalpina fece di Mutina una città “splendidissima”»

 

Nel 183 a.C. i Romani dedussero, cioè costituirono, la colonia di Mutina su un precedente insediamento etrusco conquistato dai Boi. Modena, quindi, fu fondata dagli Etruschi intorno al VI secolo a.C. Secondo le teorie più accreditate, il toponimo Muthiena ricorderebbe la gens, cioè la famiglia, dei primi fondatori o comunque di coloro che guidarono la prima etruschizzazione della zona. I Celti conquistarono il territorio modenese solo nel IV secolo a.C., e dal III secolo a.C. i Romani cominciarono la lenta e inesorabile penetrazione nella Pianura Padana che ebbe l'unica significativa battuta d'arresto con la Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), la quale scatenò la più violenta rivolta gallica.
Insomma Modena fu prima etrusca e celtica che romana. In verità, secondo la storiografia più recente, fu soprattutto etrusca perché i Celti colonizzarono con forza Felsina (che non a caso cambiò nome in Bononia, città dei Boi) ma si limitarono a presidiare il territorio circostante, tanto che a Modena è ipotizzabile una preminenza etrusca che avrebbe suggerito ai Romani, durante la Seconda Guerra Punica, di rifugiarsi in città dove, secondo il racconto di Livio, trovarono a proteggerli possenti mura che mal di sposano con la vulgata che vede la città romana fondata su un castrum e non su un centro ancora attivo.
Dopo la definitiva conquista della Pianura Padana e la costruzione della via Emilia (duemila anni fa nel 187 a.C.), Marco Emilio Lepido fu il fautore di una robusta politica di colonizzazione che aveva lo scopo di romanizzare i Celti e i Liguri e di ripagare la plebe romana e gli alleati italici del lungo sforzo delle Guerre Puniche. Fu proprio Lepido (insieme con T. Eburzio Parro e L. Quinzio Crispino) a dedurre Mutina nel 183 a. C., e quindi è lui il nuovo fondatore della città, dopo il misterioso Muthiena del VI secolo a.C.
La storia di Modena e del suo territorio cambiò profondamente con la conquista romana. Se la città etrusca prima e celtica poi era stata un piccolo centro nell'orbita di Felsina/Bononia, Mutina, colonia di diritto romano nel cuore della pianura, divenne il centro di riferimento tanto da essere spesso sede del governatore della Gallia Cisalpina. I Romani centuriarono la pianura, tracciando quella rete di campi, strade e canali che è ancora intuibile nella nostra campagna modenese da una qualsiasi foto aerea.
Centro di prima importanza, nel 43 a.C. fu teatro della Guerra di Modena che vide affrontarsi intorno alle sue mura uomini della caratura di Bruto, Antonio e Ottaviano, il quale proprio da questa vittoria iniziò il suo cammino che lo avrebbe reso Augusto. Ottaviano premiò la città che lo aveva appoggiato, e nuovi coloni, soprattutto veterani, trasformarono il suo territorio. Il periodo dal I secolo a.C. al II secolo d.C. è quello di massima espansione e ricchezza di Mutina, definita splendidissima da Cicerone, nota per la sua industria tessile e ceramica, conosciuta per l'ottimo vino, importante per la sua posizione nel cuore della Regione Emilia. In seguito, la crisi dell'Italia e poi dell'Impero trascinarono Mutina verso una decadenza che si protrasse fino al VI secolo d.C., quando la conquista longobarda – pur tenendo conto della condizione di subalternità rispetto a Bologna che si delineò nel corso del Medioevo – restituì vitalità alla città. Lo sviluppo di epoca romana era tuttavia destinato a rimanere a lungo un vago, ma di certo positivo, ricordo.

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