domenica 24 novembre 2013

L'icona indelebile: il mito (e l'antimito) di Giuseppe Garibaldi

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 novembre 2013)

In Giuseppe Garibaldi, così come nell'eredità che ha lasciato, convivono due anime opposte, che nel corso dei decenni hanno alimentato il mito dell'Eroe dei due mondi secondo prospettive polivalenti, spesso contraddittorie. «Rivoluzionario disciplinato», come lo definisce il professor Piergiovanni Genovesi nel volume Giuseppe Garibaldi. Il mito, la storia (Franco Angeli, 2011), il Nizzardo è stato capace di sedurre, o al contrario di influenzare polemicamente, pressoché tutti gli orientamenti politici italiani, dal socialismo al fascismo, dalla DC alla Lega Nord di Umberto Bossi.
I volti del mito garibaldino sono molteplici.
A Parma, quando nel 1893 si trattò di inaugurare un monumento a Garibaldi nella piazza centrale della città, le forze popolari da poco insediatesi alla guida del Comune decisero di far coincidere la cerimonia con l'apertura della Camera del Lavoro. Da un punto di vista simbolico, l'obiettivo era quello di celebrare l'immagine rivoluzionaria del Generale, emblema di un'Italia "contro" che marciava compatta verso un fulgido avvenire di giustizia sociale. Con tutta evidenza, siamo qui in presenza di un Garibaldi in camicia rossa, romantico combattente per la libertà: una specie di Che Guevara italiano ante litteram, paladino del popolo in cerca di riscatto.
Una seconda immagine, decisamente più istituzionale, è invece quella del Garibaldi patriota, che non esita a farsi da parte per dovere di lealtà verso re Vittorio, anche a costo di sacrificare le proprie ambizioni fino «a far tacere – come disse il sindaco di Parma celebrandone la memoria il giorno della morte – [...] le aspirazioni agli ideali più cari del suo cuore». Si tratta, chiaramente, di una veste moderata, più rassicurante, che tende, tra i molteplici volti del Nizzardo, a valorizzare il Garibaldi di Teano e dell'Obbedisco.
In questa «oscillazione tra rivoluzione e ordine», scrive Genovesi, è indubbio che il mito garibaldino abbia «insistito specialmente sul primo dei due termini», acquisendo una connotazione politica il più delle volte di sinistra. Basti pensare alla Brigata Garibaldi che, inquadrata nelle Brigate Internazionali, partecipò alla Guerra civile spagnola; oppure all'esperienza delle Brigate Garibaldi durante la Resistenza. Lo stesso fascismo rivoluzionario delle origini – un movimento di chiara matrice socialista difficilmente accostabile alla destra tradizionale – subì il fascino dell'Eroe dei due mondi, suggerendo, nella prospettiva di un ideale completamento del processo risorgimentale, un naturale passaggio di testimone tra le camicie rosse e le camicie nere.
Diverso fu, ovviamente, il garibaldinismo del fascismo governativo, il quale doveva necessariamente tener conto delle pressioni provenienti dagli ambienti monarchici e clericali e, per il suo stesso ruolo di forza politica egemone, non poteva non associare al mito rivoluzionario quello, altrettanto suggestivo, della concretezza mussoliniana. Per certi versi, proprio nella duttile icona di Garibaldi il fascismo individuò un'efficace sintesi delle proprie anime contrastanti; e quando, con la nascita della RSI, la propaganda di partito dovette di fatto riscrivere il Risorgimento per escluderne i Savoia, l'Eroe dei due mondi non fu scalfito dal revisionismo di Salò, ed anzi divenne simbolo di riscatto per quanti andavano incontro al sacrificio per l'onore della patria.
Neppure la fine della guerra portò all'eclissi del mito garibaldino. In un contesto caratterizzato dal netto rigetto dei concetti di patria e nazione ("colpevoli" di essere stati eccessivamente fascistizzati nel corso del Ventennio), il Nizzardo sopravvisse come anello di congiunzione tra il Risorgimento ottocentesco e il secondo Risorgimento democratico dell'Italia repubblicana. Il che si verificò anche perché nel 1945 i partiti che si sarebbero di lì a poco contesi il potere, entrambi estranei alla tradizione nazionale, avevano necessità di recuperare i principali riferimenti simbolici all'italianità.
Significativamente, prima del decisivo voto politico del 18 aprile 1948, gli elettori italiani assistettero ad una drastica contrapposizione iconografica tra il Garibaldi rivoluzionario delle sinistre e quello, moderato, assoldato dalla DC. Così, se alcuni manifesti del fronte popolare invitavano esplicitamente a votare per Garibaldi (peraltro scelto come simbolo della coalizione formata da comunisti e socialisti), è rimasta celebre, sul versante democristiano, l'immagine del Garibaldi-Stalin (ovvero una locandina che mostrava il volto del Nizzardo e, capovolta, quello del dittatore sovietico), mirante a smascherare il finto Garibaldi delle forze progressiste, opposto a quello, vero, di cui volevano riappropriarsi i cattolici e i moderati.
L'Italia repubblicana, dopo una fase iniziale di forte vitalità del mito garibaldino, ha in seguito attraversato un periodo, precisa Genovesi, di «progressivo affievolimento del risvolto politico del tema risorgimentale in generale», che ha coinvolto, inevitabilmente, anche Garibaldi. In una DC stabilmente al governo riemersero infatti le mai sopite diffidenze nei confronti dell'eroe rivoluzionario, mentre in seno al PCI si preferì pian piano sostituire all'immagine del Nizzardo – ideologicamente "instabile" e, di conseguenza, non del tutto piegabile alle esigenze dottrinarie del partito – quella, più affascinante ed ortodossa, di Che Guevara.
Il mito garibaldino fu in parte riportato in auge in occasione del centenario della morte (1982) – il PSI di Craxi se ne appropriò in quegli anni per accreditare l'immagine di un socialismo "tricolore" –, ma è soprattutto nella versione dell'antimito che Garibaldi è stato recuperato dalla simbologia politica più recente. Il volto moderato del Nizzardo, eroe tollerato solo previa subordinazione della sua indole rivoluzionaria al primato della patria, già in passato era stato sfigurato dall'intransigentismo cattolico, determinato a diffondere il ritratto di «un affarista fintamente disinteressato, di un brutale avventuriero, di un massone bestemmiatore». Tuttavia, con l'attenuarsi della contrapposizione tra Stato e Chiesa (e quindi col venir meno della dicotomia tra il Garibaldi santo – persino accostato nell'iconografia a Cristo – dei laici e il Garibaldi blasfemo dei cattolici), la leggenda nera del Garibaldi "mangiapreti" è stata gradualmente rimpiazzata da versioni moderne e per certi versi inedite del tradizionale antimito. Oggi assistiamo infatti ad un complesso ripensamento dell'intero processo risorgimentale, di volta in volta declinato, da nord a sud, secondo le diverse esigenze di parte. Da un lato, i cosiddetti neoborbonici accusano Garibaldi di aver depauperato il Regno Delle Due Sicilie, ridotto a colonia del Piemonte dopo essere stato (addirittura!) la terza potenza mondiale; dall'altro, pure le forze politiche al governo del paese nell'anno della celebrazione del centocinquantenario dell'Unità caldeggiano una rilettura critica del Risorgimento, sulla scia di quanto sostenuto, per esempio, dalla scrittrice cattolica Angela Pellicciari, che sul quotidiano «Libero», il 12 settembre 2009, ha suggerito agli italiani di chiedere scusa al Vaticano per l'unificazione della penisola.
Ma è stata soprattutto la Lega Nord a condurre l'antimito garibaldino su posizioni estremistiche di radicale rifiuto del processo risorgimentale. Nel 2007 un articolo apparso su «la Padania» presentava il Nizzardo come un «massone, ladro di bestiame, trafficante di schiavi, criminale di guerra»; mentre per Umberto Bossi, «i giovani dell'800» che credettero nel Risorgimento altro non furono che degli ingenui ingannati dalle «parole artefatte di Garibaldi, dei Savoia e degli altri stronzi». Nemmeno quegli aspetti del mito garibaldino che, potenzialmente, potrebbero conciliarsi con alcune parole d'ordine leghiste – si pensi, per esempio, alla suggestione dell'antipolitica o all'immagine di Garibaldi quale uomo del popolo – sono riusciti a risparmiare al Generale l'inappellabile sentenza di condanna emessa dai giudici della propaganda "padana". All'Eroe dei due mondi la Lega imputa – sottolinea Genovesi – la «meridionalizzazione del processo unitario», di fatto cancellando coi suoi slogan quell'immagine sentimentale dell'intrepido combattente in camicia rossa che in passato ha scaldato i cuori di milioni di italiani. Per ironia della sorte, proprio l'impresa che pareva avergli donato l'immortalità rischia oggi di essere ascritta a Garibaldi come la più infame delle colpe.

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lunedì 18 novembre 2013

Gramsci vs Togliatti: le prove di un'incompatibilità mai apertamente svelata?

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 novembre 2013)

È possibile che Antonio Gramsci, all'inizio degli anni Trenta (e quindi poco prima di morire), abbia preso le distanze dal PCd'I e dal suo apparato supinamente subordinato alle direttive di Mosca? È plausibile ipotizzare una clamorosa drastica rottura con Togliatti, in quegli anni incontrastato arbitro della politica comunista italiana?
Stando a quanto argomenta Franco Lo Piparo nel suo recente saggio intitolato I due carceri di Gramsci, la risposta è «assolutamente sì», con tanto di prove documentarie per anni ignorate, non senza un certo opportunismo, da quanti ancora si ostinano a credere alla favola dell'indolore passaggio di testimone tra il più celebre artefice della scissione di Livorno del 1921 e il futuro ingombrante segretario.
Le vicende legate alla prigionia di Gramsci nelle carceri fasciste sono piuttosto ingarbugliate, e richiedono pertanto una breve introduzione chiarificatrice. Arrestato nel 1926, Gramsci fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione con sentenza emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato il 4 giugno 1928. Dal carcere di Turi (Bari) il detenuto si trovò al centro di un complesso circuito comunicativo con l'esterno, che si sviluppava in due direzioni: egli dapprima scriveva o parlava con la cognata Tania Schucht, la quale trasmetteva i contenuti dei colloqui all'amico comune Piero Sraffa, stimato economista residente a Cambridge; questi, a sua volta, informava Togliatti e, dopo avere ricevuto istruzioni da quest'ultimo, ricontattava Tania affinché comunicasse nuovamente col prigioniero. Il tutto, ovviamente, sotto il controllo della polizia fascista e sovietica, col risultato che gli scritti che passavano da Turi dovevano utilizzare un linguaggio allusivo e non sempre immediatamente comprensibile.
Gramsci stette in carcere fino al 25 ottobre 1934, quando venne accolta la sua richiesta per la libertà condizionale. L'anno seguente, in condizioni di salute precarie, fu trasferito in una clinica di Roma, finché il 27 aprile 1937, appena sei giorni dopo aver riacquistato la piena libertà, fu stroncato da un'emorragia cerebrale. Come testamento politico lasciò le celebri Lettere e i Quaderni del carcere, oramai un classico del pensiero contemporaneo.
Verso la fine della guerra, sotto l'attenta regia di Togliatti, ebbe inizio il processo di canonizzazione comunista di Gramsci, che è possibile far risalire alla data del 30 aprile 1944. Quel giorno, circa un mese dopo essere rientrato in Italia, Il Migliore pubblicò su «l'Unità» un articolo di commemorazione del fondatore del PCd'I contenente due strumentali falsità: «Strappato violentemente alla vita politica e all'attività di direzione del partito nel 1926, Gramsci passò alcuni mesi nell'isola di deportazione di Ustica e quindi, arrestato, deferito al Tribunale speciale e condannato non uscì più dal carcere. [...] Il risultato dei suoi studi è consegnato in una trentina di quaderni coperti di una fittissima scrittura a penna, che sono pure conservati a Mosca, essendo riuscita una cognata del nostro compagno a trafugarli dalla cella la sera stessa della sua morte, grazie al trambusto creatosi».
Come già si è detto, Gramsci non morì in carcere, così come la scena del tribolato trafugamento dei suoi scritti è inventata di sana pianta. I quaderni furono infatti presi in consegna da Tania, custoditi presso l'ambasciata sovietica a Roma e, successivamente, inviati a Mosca, dove presto finirono nelle mani del Comintern (cioè di Togliatti). Chiaramente, la favola raccontata dal compagno Ercoli era funzionale a mettere «insieme una bella sequenza di immagini di una scena filmica» nella quale il prigioniero Gramsci doveva interpretare il ruolo del martire vittima della tirannia fascista. Ma, si chiede Lo Piparo, possibile che ci fosse dell'altro? Al di là della spudorata menzogna studiata per la propaganda, è verosimile che dietro la volontà di collocare stabilmente Gramsci nell'empireo comunista si nascondesse un'eredità scomoda, potenzialmente dannosa per quello che nel frattempo era diventato il PCI?
Per rispondere, è bene leggere una lettera scritta da Gramsci alla cognata Tania il 27 febbraio 1933. «Questo che ti scrivo – precisa il detenuto – è riservato per te e l'avvocato [Sraffa] che si occupa dei miei affari». Dunque Togliatti, nelle intenzioni del compagno carcerato, deve restarne all'oscuro. E questo già in parte spiega come mai la lettera, definita da Tania «un capolavoro di lingua esopica», non compaia nella prima edizione – supervisionata dal Migliore – delle opere gramsciane del 1947.
Nel suo saggio Lo Piparo analizza la missiva parola per parola. In questa sede è sufficiente fare luce almeno sui principali aspetti controversi. Dopo avere premesso che intende discorrere della sua «situazione morale», Gramsci si interroga sui suoi rapporti con Iulca, la moglie residente in Russia. Ma siccome la lettera, che è con tutta evidenza politica e non privata, è scritta in un duplice codice (anche per ovvi motivi di censura), è facile scorgere dietro la figura di Iulca quella dell'Unione Sovietica e, in definitiva, del comunismo stalinista. Scrive Gramsci: «Sono persuaso che nei miei rapporti con Iulca c'è un certo equivoco, un doppio fondo, una ambiguità che impedisce di veder chiaro e di essere completamente franchi: la mia impressione è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, "una pratica burocratica" da emarginare e nulla più».
Per quale motivo Gramsci, che si trova in carcere, si deve sentire emarginato dalla moglie «come una pratica burocratica»? Se si pensa che pochi anni prima proprio a Togliatti era stata rivolta dallo stesso Gramsci l'accusa di burocraticismo, viene spontaneo pensare che il detenuto intenda rivolgersi al partito piuttosto che alla moglie. Ma andiamo oltre: «Io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale [...]. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto [...]. Devo dire che tra questi "condannatori" c'è stata anche Iulca, credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente e c'è una serie di altre persone meno inconscie». E chi potrebbero essere questa Iulca e queste «persone meno inconscie» se non l'apparato del partito e, in primis, Togliatti? Gramsci, come confidò a Tania nel 1932, credeva del resto che il partito lo avesse tradito già nel 1928, facendogli avere, durante il processo, una lettera dalla quale era emerso il suo ruolo di primo piano nelle file del comunismo internazionale. Persino il giudice istruttore era rimasto sorpreso da quell'iniziativa apparentemente inspiegabile, giungendo ad affermare: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
Un ultimo passo della lettera «esopica» è quello decisivo: «Ho creduto di doverti scrivere perché mi pare di essere giunto a uno svolto decisivo della mia vita, in cui occorre, senza più dilazioni, prendere una decisione. Questa decisione è presa». E se la decisione, suggerisce Lo Piparo, fosse quella di prendere le distanze dall'universo comunista? Poche righe dopo Gramsci pare confermarlo: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone».
Una trattazione più ampia delle riflessioni politico-filosofiche che stavano all'origine dello «svolto decisivo» della sua vita Gramsci la affidò ai Quaderni, un'opera complessa che creò non poco imbarazzo in seno al PCI, costretto a fare i conti con un'eredità che cozzava con i dogmi dell'ortodossia comunista. Bastino queste parole di Togliatti – che costituivano il nocciolo di una lettera inviata nel 1941 a Dimitrov, segretario del Comintern – per documentare le inquietudini del partito: «I quaderni di Gramsci [...] contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un'accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato e anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito. Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato». Con tutta evidenza, in nuce era già delineato il progetto di una rigorosa manipolazione della produzione gramsciana, col risultato che, per un'edizione critica integrale dei Quaderni, si dovette attendere il 1975. A quella data, Togliatti era morto da undici anni.
La disamina di Lo Piparo consente dunque di far luce su una vicenda decisamente contorta. Gramsci, a suo parere, negli ultimi anni di vita prese le distanze dal PCd'I. Confidò i suoi dubbi alla cognata Tania, ma non poté prendere una posizione ufficiale, per non mettere in pericolo di ritorsioni la sua famiglia, che viveva in Unione Sovietica. Egli era altresì convinto che lo stesso partito lo avesse emarginato da tempo e spese gli anni di carcere per elaborare, nei Quaderni, un ripensamento del proprio pensiero. La morte e l'attenta opera di mistificazione togliattiana ostacolarono la riuscita del progetto, lasciando irrisolti numerosi interrogativi. Tra questi, quello con cui Lo Piparo prende congedo dai lettori è indubbiamente stimolante: possibile che Mussolini, che di certo era al corrente, tramite la polizia fascista, del ruolo di trait d'union con Mosca svolto da Tania, avesse deciso di non bloccare la produzione e la corrispondenza di Gramsci, nella convinzione che questi rappresentasse un problema per Togliatti? 

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martedì 12 novembre 2013

Nuove cure per un male che sembrava morto: la tubercolosi dalla letteratura all'attualità

(articolo apparso su Prima Pagina del 10 novembre 2013)
 
Seconda probabilmente solo alla peste (che nei secoli ha ispirato celebri pagine, giusto per fare qualche nome, di Sofocle, Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni), la tubercolosi è senza dubbio una delle malattie più autenticamente "letterarie". Fu l'Ottocento, in particolare, a sancirne la triste fama. Dalla Silvia di Leopardi – che perisce «da chiuso morbo combattuta e vinta» – alla Maria di Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo; dalla Margherita de La signora delle camelie di Dumas (figlio) alla Violetta della Traviata di Verdi, la tisi, ossia la tubercolosi polmonare, finì coll'assurgere a incontrastato male del secolo. Il fatto poi che colpisse di frequente giovani donne, per le quali l'età dell'amore veniva inesorabilmente a coincidere con quella della morte, contribuì enormemente a decretarne il successo: il mal sottile, come venne ribattezzata la malattia in quegli anni, sembrava nato appositamente per gli eroi della letteratura. E non solo: anche gli stessi scrittori, siccome la moda del tempo creò uno stretto legame tra intelletto e tubercolosi, finirono talvolta (è il caso di Dumas) per ostentare una salute cagionevole pur essendo sani.
Ovviamente l'equazione tisi = genio, funzionale a sostenere l'ego dei numerosi artisti che contrassero la malattia, non teneva conto delle condizioni di vita che si erano determinate nelle grandi città in seguito alla Rivoluzione industriale. Nei centri urbani affollati dell'epoca, con la forte concentrazione di polveri di carbone prodotte dalle fabbriche, l'elevato numero di senzatetto e la diffusa povertà, i presupposti per la diffusione del bacillo della tubercolosi erano infatti ottimali. Secondo alcune stime, il 70% degli europei fu affetto dalla TBC nel XIX secolo: la morte sopraggiungeva per una persona su sette.
Fu la vita urbana a stravolgere abitudini secolari. Prima che, a partire dalla seconda metà del Settecento, le esigenze produttive industriali svuotassero le campagne per far affluire manodopera nei grandi centri, in Inghilterra le città con più di 50.000 abitanti erano due; un secolo dopo esistevano già 29 metropoli con più di 100.000 abitanti. Lo scrittore canadese Andrew Nikiforuk (autore di un bel libro sulla storia delle epidemie intitolato Il Quarto Cavaliere) definisce «deserti architettonici» questi caotici agglomerati urbani di epoca vittoriana, nei quali mancavano acqua e illuminazione, alberi e spazi aperti erano una rarità e sostanze inquinanti di ogni genere costringevano i polmoni ad «un'esperienza nuova». L'assoluta mancanza di igiene, l'aria malsana e un'alimentazione inadeguata provocarono pertanto un'impennata senza precedenti dei decessi per TBC.
Responsabile della patologia è il Mycobacterium tubercolosis, un batterio – identificato per la prima volta dal medico tedesco Robert Koch nel 1882 – che viene espulso attraverso la tosse o lo sputo e che è in grado di sopravvivere in ambiente chiuso anche per anni. L'evoluzione della tubercolosi, una delle malattie più antiche della storia dell'umanità, è quindi legata ai processi di civilizzazione che, nei secoli, hanno portato l'uomo a vivere in insediamenti sempre più popolosi e confinati. La TBC fu inizialmente trasmessa all'uomo da altri animali: in particolare, secondo il parere di diversi studiosi, sarebbero stati i bovini la causa della comparsa della patologia nell'uomo, a partire dai tempi delle prime domesticazioni (dall'età, quindi, della cosiddetta rivoluzione neolitica, che si situa a ridosso del X millennio a. C.). Le stalle, offrendo protezione e nutrimento anche a quegli esemplari più deboli che in diverse condizioni sarebbero stati vittime della selezione naturale, fecero crescere il tasso di sopravvivenza degli animali malati, favorendo involontariamente la propagazione dell'infezione.
La malattia fu chiaramente identificata dai Greci (tisi, infatti, è una parola di derivazione greca che significa consunzione). Ippocrate ne descrisse con precisione i sintomi (dimagrimento progressivo, tosse, languore, sangue nello sputo), e le sue osservazioni furono rese più precise da Galeno. Durante l'età medievale grande diffusione ebbe invece la tubercolosi ganglionare (allora detta scrofola), che – si credeva a quei tempi – poteva essere guarita dai re d'Inghilterra e di Francia (i cosiddetti «re taumaturghi» di un celebre saggio di Marc Bloch) con il semplice tocco delle mani. Soltanto nel 1546, tuttavia, l'umanista Gerolamo Fracastoro sfatò il mito dell'ereditarietà della TBC, intuendo che si trattasse in realtà di una malattia infettiva e contagiosa. Ma non solo: il medico italiano giunse a scrivere, con grande acutezza, che «la tenacità e la persistenza delle molecole di questi germi nei corpi solidi sono veramente sorprendenti».
Prima ancora che la rivoluzione industriale creasse i presupposti per una diffusione della malattia in proporzioni fino ad allora sconosciute, fu, come detto, la formazione di insediamenti popolosi a favorire l'evoluzione storica della tubercolosi. Se quindi già nel Seicento nelle grandi città inglesi le epidemie di TBC uccidevano in percentuale di uno su quattro, nei secoli delle grandi scoperte geografiche e dei viaggi – ha scritto il professor Antonio Cassone – «l'uomo europeo è stato il grande untore di tubercolosi nel mondo». È risaputo, infatti, che il bacillo di Koch fece la sua comparsa in America in coincidenza con l'afflusso dei "visitatori" del Vecchio Continente, e lo stesso può dirsi per altre zone del mondo (per esempio l'Africa sub-sahariana) che, prima dell'arrivo degli europei, non erano state interessate dalla patologia.
Oggi, paradossalmente, la situazione si presenta capovolta, in conseguenza dei forti flussi migratori che portano in Occidente, spesso in condizioni di estrema povertà, un numero sempre più elevato di persone provenienti da paesi dove la TBC non è mai stata debellata. In Europa, infatti, i progressi scientifici del XIX secolo – dalle osservazioni di Marten e Villemin inerenti alla trasmissibilità per via area dell'agente infettivo alla scoperta di Koch – portarono in breve tempo alla scoperta di un vaccino e di antibiotici che, uniti alle migliorate condizioni igienico-alimentari e a provvedimenti di regolamentazione veterinaria dei bovini, fecero ritenere pressoché definitivamente sconfitto il Mycobacterium tubercolosis. Ma tutto questo, ovviamente, non si verificò nei paesi attualmente in via di sviluppo o in quello che oggi è conosciuto come Terzo Mondo.
Negli ultimi anni, gli spostamenti continui di persone (oggi resi più agevoli, è bene precisarlo, sia in una direzione – verso l'Occidente – che nell'altra – dall'Occidente) hanno rallentato il riflusso della malattia, creando le premesse per una recrudescenza della morbilità della TBC, per certi versi simile a quella che interessò i paesi colpiti dal secondo conflitto mondiale. Volgendo uno sguardo al presente, la tubercolosi è ritenuta dall'OMS tra le patologie infettive più diffuse nel mondo nonché emergente nei paesi industrializzati. Nel 2011 sono stati 473 i casi notificati in Emilia Romagna (con un tasso di incidenza più elevato rispetto alla media nazionale e una sempre più alta percentuale di notifiche in cittadini nati all'estero), di cui 84 a Modena. E il successo terapeutico della malattia rimane al di sotto dell'obiettivo europeo a causa della terapia convenzionale frequentemente interrotta e della farmaco-resistenza.
Come è stato illustrato in occasione della conviviale che lo scorso 7 novembre ha visto riuniti i soci del Lions Club Modena Estense, recenti studi su una nuova formulazione farmaceutica per il trattamento della tubercolosi si prefiggono di sviluppare microparticelle, prodotte con materiali naturali, in grado di essere inalate e di veicolare rapidamente il farmaco ai macrofagi alveolari nei quali si annida il bacillo, cioè direttamente nel sito d'infezione. La formulazione permette di ridurre le dosi di farmaco, gli effetti collaterali e la tossicità migliorando l'efficacia della terapia. Gli obiettivi della ricerca – finanziata con un contributo dello stesso Lions Club Modena Estense – sono stati presentati dalla dott.ssa Valentina Iannuccelli, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Modena e Reggio Emilia, e dalla dott.ssa Eleonora Maretti, laureata in Biotecnologie Mediche e Farmaceutiche presso lo stesso Ateneo. A dispetto delle continue e ripetute decurtazioni dei finanziamenti pubblici, il loro lavoro merita senz'altro di essere incoraggiato.

Focus:
 
Il Lions club international è un'associazione internazionale di servizio comunitario che raccoglie circa 1,5 milioni di soci di 202 paesi. Sua missione è quella di «dar modo ai volontari di servire le loro comunità, rispondere ai bisogni umanitari, promuovere la pace, favorire la comprensione internazionale tramite i Lions Clubs». Il primo Lions (la cui denominazione è costituita dalle iniziali delle parole Liberty Intelligence Our Nations' Safety e il cui emblema è il leone) fu fondato il 7 giugno 1917, a Chicago, dall'assicuratore Melvin Jones.
L'Italia, appartenente al distretto multiplo 108, è divisa in 17 distretti. Quello di cui Modena fa parte è il 108 TB, formato da 89 Clubs.
Il Lions Club Estense quest'anno ha deciso di indirizzare la politica dei propri service verso un concreto sostegno a giovani che mostrino spiccate capacità nei campi scientifico, artistico, letterario o della comunicazione. A questo scopo ha quindi stanziato un contributo a favore di un giovane laureato e per la ricerca sulle innovazioni farmaceutiche per combattere la tubercolosi.

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domenica 3 novembre 2013

Inquisizione: argomento per soli libri neri?

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 novembre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

L'interpretazione storica implica sempre e inevitabilmente un giudizio morale. Anche solo nella scelta di ciò che merita di essere raccontato lo storico, di fatto, esprime una valutazione sul passato, poiché in quel momento stabilisce cosa è bene tramandare e cosa può, al contrario, essere trascurato.
La storia dell'Inquisizione – e con essa intendiamo qui la cosiddetta Congregazione del Sant'Uffizio, istituita da Paolo III nel 1542 nel quadro generale della Controriforma – costituisce al riguardo un argomento decisamente delicato, rispetto al quale è facile cedere alla tentazione di accettare giudizi sbrigativi. Va detto, a livello preliminare, che l'annientamento del concetto di individualità perpetrato dai tribunali dell'Inquisizione non può, oggi come oggi, trovare alcuna indulgenza in sede di indagine storiografica. Lo stesso Giovanni Paolo II, riferendosi al caso di Galileo Galilei, lo riconobbe nel 1979, ammettendo che il grande scienziato italiano «ebbe, purtroppo, molto a soffrire da parte di uomini e organismi della Chiesa». E in quel «purtroppo» è racchiuso il trapasso di un'epoca.
Tuttavia, il rischio che si corre è quello di elevare l'Inquisizione di ieri a pretesto per attaccare la Chiesa di oggi. Come se tra Cinque e Seicento l'intolleranza fosse prerogativa dei soli preti. È evidente, ma è utile sottolinearlo, che un'operazione di questo tipo è profondamente scorretta. E lo è essenzialmente per due ragioni. Da un lato, infatti, sarebbe come chiedere conto al Partito Democratico dei crimini commessi da Togliatti negli anni Trenta: anche un bambino obietterebbe che i contesti storici sono differenti e non comparabili, anche se sarebbe piuttosto semplice tracciare una linea che colleghi il PCI a tutti i partiti della sinistra sorti dopo il 1991. Dall'altro, è poco serio, quando si esprime un giudizio, utilizzare solo ciò che fa comodo e consente di supportare teorie preconfezionate. Ridurre la Chiesa all'Inquisizione significa infatti banalizzare un percorso lungo duemila anni. Quale altra istituzione del mondo occidentale può vantare una storia che anche solo si avvicini alla metà di quella della Chiesa? Se prendiamo in esame, come esempio di longevità, la Roma repubblicana (509 a. C. - 31 a. C.), avrebbe senso bollare come negativa quell'esperienza in quanto espressione di una società schiavistica? Certo che no.
Volgendo lo sguardo al presente, un'operazione analoga è portata avanti da certa opinione pubblica a proposito della pedofilia. Stando a giornali e televisioni, oggi non solo sembra che tutti i pedofili siano preti, ma anche – il che è sconcertante – che i reati di pedofilia siano più gravi se commessi da preti. Come se un disturbo psichico, perché di questo si tratta, prendesse di mira preferibilmente una categoria di persone, magari scegliendola tra quelle più indegne sotto il profilo morale.
L'inquisizione, senza dubbio, non è una pagina della propria storia di cui la Chiesa possa andare fiera. Ma occorre studiarla con il dovuto distacco, senza scorgere dietro ogni abito talare un potenziale Torquemada. Se si chiedesse ad una persona mediamente istruita di spiegare attraverso un'immagine cosa sia stato il Sant'Uffizio, questa con buone probabilità descriverebbe lugubri sotterranei e monaci cupi avvolti nei loro sai intenti ad ascoltare le confessioni estorte con la tortura a poveri disgraziati. Forse è ora di aggiornarsi.

      

L'accusa di Walter Frazzoli

 

«L'Inquisizione appartiene alla stessa famiglia dei totalitarismi»

 

Per diversi motivi – tra i quali si segnala la forte diffusione di botteghe artigiane – che non è possibile qui analizzare neppure sinteticamente, va detto che Modena fu senz'altro, in particolare nel XVI e XVII secolo, tra le città che determinarono la pesante e talvolta sanguinosa reazione dell'Inquisizione, tanto locale quanto romana. Non è dunque per caso che uno dei maggiori esperti di questo tema, Massimo Firpo, abbia dedicato alla nostra città moltissime pagine. Ma – volendo cercarne semplificando una definizione – cosa fu in estrema sintesi l'Inquisizione? Per farlo ricorro ad alcune sobrie righe – ancora a mio giudizio tra le più efficaci – tratte da un datato testo di storia locale. In esso si legge, nelle Conclusioni, che «a Modena l'Inquisizione ha stroncato ogni insorgenza di pensiero alternativo in campo religioso. E quando si parla di pensiero religioso a quell'epoca, significa in gran parte parlare di pensiero tout court». Perfetto.
Tutto questo però, in termini moderni, si chiama Totalitarismo. E per citare i più vicini, Nazifascismo e Comunismo: il Pensiero Unico, insomma. Una riflessione sull'Integralismo musulmano porterebbe troppo lontano.
Certo il termine non può essere utilizzato automaticamente per un periodo storico tanto diverso. Si aggiunga poi che l'Inquisizione ha fatto, per minor popolazione e tecnologia, di gran lunga meno vittime dei due predetti regimi. Ma sul piano ideologico essa appartiene alla stessa famiglia. Appunto per questo condannando a morte chi non si uniformava. Orbene, io credo che chi volesse oggi considerare la condanna dell'Inquisizione un fatto acquisito, liquidandola cioè una volta per tutte, commetterebbe un grave errore. Si tratterebbe nei fatti di una rimozione: al contrario, bisogna incarcerarla nella gabbia della nostra memoria, affinché di lì possa ammonirci sulle tragedie a cui porta sempre e comunque l'Intolleranza.
E che nella nostra città la memoria scarseggi, è del tutto evidente. A parte gli studi di Albano Biondi e, più recenti, quelli di Giuseppe Trenti e di Matteo Al Kalak, non si ricorda un solo convegno dedicato al cardinal Morone, emblematico, a Modena come a Roma, del fenomeno Inquisizione. Viene da pensare, in ambiente ecclesiastico, ad un certo imbarazzo per una personalità che fu incarcerata per aver anticipato il dialogo con i Luterani. Con i quali la Chiesa di Roma ha peraltro raggiunto – sin dal 1999 – un'importante intesa su tesi teologiche che furono proprie del vescovo geminiano.
Si potrebbe obiettare che, in fondo, il Morone non fu condannato. Vero, ma soltanto perché Paolo IV, papa Carafa, ebbe a morire poco prima del verdetto finale. Il giudizio di colpevolezza non giunse dunque nell'estate del 1559 ma neppure dieci anni dopo, quando il processo contro il Morone fu riaperto da Pio V, papa Ghislieri. Che, longa manus del Carafa da sempre, volle provarci da titolare una volta salito al sacro soglio.
Quanto invece all'amministrazione locale, è notorio che, quanto a Totalitarismi, la sua attenzione non si spinge, si può dire da sempre, oltre a quelli del secolo scorso.

 

 

La difesa di Gianni Braglia

 

«Anche il nostro mondo vuole imporre un unico sistema di valori»

 

L'Inquisizione continua ad affascinare i contemporanei. Ad essa vengono generalmente associati concetti come intolleranza e fanatismo; immagini di torture efferate e roghi impietosi. Continua ad emanare un'atmosfera di mistero e ad attirare un'attenzione a volte morbosa.
Fino a qualche anno fa gli studi in materia facevano immancabilmente riferimento alla cosiddetta "leggenda nera", ovvero a quell'idea, creata ed utilizzata prima da ambienti protestanti poi dai circoli illuministi con finalità anti-cattoliche, che conferisce all'Inquisizione il carattere di istituzione illiberale e repressiva per antonomasia.
Solo negli ultimi decenni gli storici hanno cominciato a interessarsi dell'argomento con esclusivo spirito scientifico e di ricerca abbandonando i secolari pregiudizi e luoghi comuni. E i risultati sono stati sorprendenti. Non più un'istituzione creata per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata. Non più inquisitori luciferini che danno libero sfogo al loro sadismo e alle loro perversioni. Non più processi sommari, giudizi arbitrari, torture generalizzate e condanne assicurate. Secondo questi autori il Sacro Tribunale era sì un'istituzione dura, ma la durezza che dimostrava non era certo superiore a quella dei tribunali laici. Anzi l'inquisitore offriva più garanzie di obiettività e di professionalità. Vigeva un legalismo esasperato. Ogni passo, ogni azione dell'inquisitore era regolata da norme precise e inderogabili. La passionalità e l'arbitrio erano banditi. L'unica finalità era la ricerca della verità, la quale non di rado si rivelava favorevole all'imputato.
La tortura poi era utilizzata con molta parsimonia, solo come ultima ratio in indagini dove, in presenza di forti indizi, mancava la prova definitiva. Ed era una tortura regolata da precise leggi che ne stabilivano qualità e quantità, per impedire che il torturato potesse soffrire danni permanenti. In effetti, dai documenti, si rivela una tortura tutt'altro che insopportabile, e sono numerosissimi gli esempi di imputati scagionati perché usciti vittoriosi dal confronto con la corda.
L'Inquisizione uccideva la libertà di pensiero e di espressione. Quest'accusa ci sembra inconfutabile. Tuttavia siamo autorizzati a criticare come se il nostro mondo fosse immune da simili pratiche, anche se più dissimulate e quindi, alla fine, maggiormente ipocrite? Anche oggi è in atto un tentativo di imporre un'unica mentalità, un unico sistema di valori, un indifferenziato stile di vita, una omologazione universale.
«Nessuna epoca è stata tanto prospera né, in linea di principio, libera come la nostra – scrive Alain-Gérard Slama – nessuna è stata così conformista. Mai i diritti dell'uomo sono stati così ampiamente riconosciuti. Mai tuttavia, neppure al tempo in cui vigeva l'Ordine morale, lo spirito e i costumi sono stati soggetti ad una pressione così costante… Mai l'apparato tecnico di propaganda e sorveglianza è stato, se non più costrittivo, quantomeno più subdolo… Né mai il potere si è trovato di fronte un'opinione pubblica più inafferrabile, più flaccida. La virtù dell'indignazione sembra essere evaporata insieme alla capacità di scegliere. Il gregge potrebbe essere maggiormente asservito. Ma non potrebbe essere più gregge di così».

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