martedì 29 ottobre 2013

La rivoluzione storiografica delle «Annales» nella riflessione di Fernand Braudel

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 ottobre 2013)

La storiografia tradizionale e i suoi critici

Per secoli la storia è stata scritta essenzialmente come narrazione di grandi eventi coinvolgenti grandi uomini. Principali, se non unici, interessi dell'«Antico Regime storiografico» – come l'ha definito Peter Burke – erano gli avvenimenti politici, le guerre, i trattati di pace e le imprese individuali dei cosiddetti protagonisti. Non interessava più di tanto quella che gli illuministi definirono la «storia della società», una storia attenta ai processi economici, ai costumi e ai rapporti tra le classi e gli individui. Una storia che, dalla seconda metà del XVIII secolo in poi, faticò, e non poco, ad emergere, respinta tanto dalla forza della tradizione, quanto dall'autorevolezza di studiosi quali Leopold von Ranke, la cui determinazione nel difendere il primato delle fonti archivistiche finì per relegare in un angolo i sogni di cambiamento figli dell'età dei Lumi.
Nel corso dell'Ottocento non mancarono peraltro alcune importanti voci fuori dal coro. Jules Michelet maturò una visione totalizzante della storia – la quale doveva abbracciare l'arte, la religione, la filosofia e le scienze, senza trascurare le fondamenta della società –, mentre Jacob Burckhardt lesse nel divenire storico un'interazione di tre forze (Stato, religione e cultura). Più in generale, il primato della storia politica fu contestato dagli economisti e in particolare da Marx, la cui concezione strutturale della società mal si conciliava con la storiografia tradizionale.
Il numero di dissenzienti aumentò decisamente tra la fine del XIX secolo e i primi anni del Novecento. Meritano di essere citati almeno tre nomi: Karl Lamprecht, storico della Germania imperiale, che criticò la storia politica in quanto storia di individui, schierandosi a favore di una storia economica, culturale e di popolo; Frederick Jackson Turner, autore di un celebre studio sul significato della frontiera nella storia americana (un argomento, pertanto, non prettamente politico); François Simiand, che propose di abbattere tre idoli della storiografia tradizionale, ovvero quello politico, individuale e cronologico.
Fu in questo clima di fermento culturale che maturarono Marc Bloch e Lucien Febvre, fondatori, nel 1929, della rivista «Annales d'historire économique et sociale» e animatori della scuola che da essa prese il nome.

La scuola delle «Annales» e Fernand Braudel

Il progetto di ricerca delle «Annales» si fonda su un'aspra polemica contro la cosiddetta storia evenemenziale, contro la tendenza diffusa a prestare attenzione quasi esclusivamente ai grandi eventi politici. Compito dello storico deve essere invece quello di ricostruire un'epoca attraverso l'analisi delle profonde strutture dalla società, allo scopo – afferma Fernand Braudel – di «estrapolare i particolari [...] e cogliere tutto ciò che è vita». Gli avvenimenti sono quindi da considerarsi una parte e non un tutto, «una categoria della storia», un insieme di aspetti tutto sommato marginali rispetto al lungo divenire storico.
La storia è essenzialmente storia degli uomini. «Dietro i tratti concreti del paesaggio – ha scritto Bloch –, dietro gli scritti che sembrano più freddi e le istituzioni in apparenza più distaccate da coloro che le hanno fondate, sono gli uomini che la storia vuole afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell'erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all'orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda».
Per raggiungere il suo obiettivo, la storia deve assumere un atteggiamento imperialista nei confronti delle altre scienze umane, saccheggiarne il campo, indagare nel profondo della natura e del comportamento umano per far emergere le strutture secolari della civiltà. In questa prospettiva sono da inserire, da un lato, l'elevazione al rango di documento storico di tutti gli elementi – trascurati in passato – concernenti la vita degli uomini (coltivazioni, urbanistica, strumenti di lavoro, ecc.), dall'altro, il rifiuto di ricorrere a una netta causalità per spiegare i processi storici, a favore di una più ampia causalità attenta al contesto.
In questo quadro generale, il contributo di Braudel è essenziale in quanto elabora una nuova concezione del tempo storico, ben esemplificata dalla tripartizione del suo capolavoro, La Méditerranée. Il libro è diviso in tre parti: «La prima tratta una storia quasi immobile, quella dell'uomo nei suoi rapporti con l'ambiente: una storia di lento svolgimento e di lente trasformazioni, fatta spesso di ritorni inesistenti, di cicli incessantemente ricominciati. [...] Al di sopra di questa storia immobile, una storia lentamente ritmata: [...] una storia sociale, quella dei gruppi e degli aggruppamenti. [...] La terza parte, infine, è quella della storia tradizionale, [...] la storia "événementielle"».
La conquista della cosiddetta longue durée, l'idea cioè che le vicende umane, nel lungo corso del divenire storico, si intreccino con l'ambiente, l'economia, le strutture sociali, la cultura, costituisce il grande contributo di Braudel alla storiografia del Novecento. Dalla sua opera si dipanano e traggono indirettamente ispirazione due filoni, che ebbero grande diffusione negli anni Sessanta e Settanta, in coincidenza con l'affermarsi degli storici della terza generazione delle «Annales»: una storia quantitativa (avente per oggetto, per esempio, i prezzi o la demografia), che lavora su fonti seriali e che vede in Ernest Labrousse il massimo esponente; e una storia della mentalità, che si distingue per l'intento di abbandonare le radici dell'economia in favore della «sovrastruttura» culturale e per la volontà di spostarsi – per dirla con Le Roy Ladurie – «dalla cantina all'attico».
La portata di questa rivoluzione storiografica fu enorme. Dopo di essa, anche gli storici che non vi aderirono formalmente furono inevitabilmente condizionati dai risultati conseguiti dalla scuola delle «Annales» e dal clamore che attorno ad essa si generò.
Un contributo prezioso ai fini della comprensione della grande rivoluzione storiografica del XX secolo è offerto da Storia, misura del mondo, un testo non troppo noto di Braudel che costituisce una sorta di manifesto programmatico delle «Annales»: si tratta di una raccolta di conferenze sul significato della storia tenute dall'autore nel corso della sua prigionia in Germania durante il secondo conflitto mondiale.
Per prima cosa Braudel si sofferma sul concetto di storia evenemenziale. Non ha senso egli afferma – accettare l'importanza di un evento solo in base alla eco che questo produce sul momento. Gli avvenimenti della storia spesso si riducono a poca cosa, non provocano le conseguenze che paiono annunciare: «I fatti segnalati come importanti nel presente – precisa Braudel –, lo sono dunque a titolo provvisorio, con riserva di revisione». È evidente che questa impostazione culturale risenta dello stato in cui lo storico francese si trova al momento della stesura del libro. Egli è infatti rinchiuso in un campo di concentramento, e deve a tutti i costi convincersi che le prodigiose avanzate di Hitler siano solo avvenimenti, nient'altro che piccole tessere del più ampio mosaico della storia con la S maiuscola.
Lo storico non deve limitarsi al racconto. Deve spiegare il mondo, a dispetto di quanti affermano che sia governato dal caso e sia, pertanto, incomprensibile. Se infatti è arduo dominare il caos degli eventi e della storia individuale, non altrettanto può dirsi per l'analisi dei gruppi, per il ripetersi degli avvenimenti, per la storia profonda e la storia sociale. In questo campo, con l'essenziale ausilio delle altre scienze umane, la storia può e deve pretendere di agire razionalmente; può permettersi di «ricollocare i grandi fatti nella giusta prospettiva» e trasformarsi in «una delle grandi spiegazioni del mondo e della vita».
Dalle vicine scienze sociali la storia deve attingere il metodo scientifico. In primo luogo è necessario «pensare che il mondo sociale sia, almeno in parte, coerente, così come ogni scienza fisica presuppone una coerenza del mondo materiale». Occorre cioè scovare gli elementi che ricorrono con costanza nel lungo divenire della storia degli uomini, in modo da poter definire delle ipotesi, suggerire delle spiegazioni, avanzare scientificamente. In una parola, capire il mondo. Per questo, siccome la storia è interpretazione del passato alla luce del presente, «urge che lo storico [...] si spogli di se stesso, eserciti su di sé una sorveglianza continua, indichi esplicitamente la propria posizione. I calcoli dei fisici tengono conto della posizione dell'osservatore in quanto essa condiziona e determina la sua verità. Lo stesso vale per lo storico, per lo studioso di scienze sociali».
Tre concetti, in definitiva, consentono di sintetizzare il pensiero di Braudel: storia profonda, metodo scientifico, spiegazione del mondo e della vita degli uomini.

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lunedì 21 ottobre 2013

«Dal Dragone al Don»: memorie di guerra e di un mondo che non c'è più

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 ottobre 2013)

«Amerò e onorerò questa donna da oggi per tutto il resto della mia vita, breve o lunga che sia, mi prenderò cura di lei e del nostro bambino, questa è la mia promessa al suo cospetto. Ma io sono figlio della Patria, prima di tutto. E se sarò chiamato a servirla, la Patria, non mi tirerò indietro. Questo è il mio dovere».
Con queste parole, tratte dalle prime pagine del suo libro di memorie, Aldo Corti – artigliere alpino del Gruppo Val Camonica (Divisione Tridentina) originario di Montefiorino che prese parte alla tragica Campagna di Russia durante la seconda guerra mondiale – descrive le ambivalenti sensazioni che provò il giorno del suo matrimonio. Era l'8 dicembre del 1941, data storica poiché quella mattina il mondo intero si era svegliato con la notizia dell'attacco giapponese a Pearl Harbor del giorno precedente. L'affondamento delle navi americane stava a significare solo una cosa: la guerra sarebbe presto diventata mondiale, a poco più di vent'anni da quella carneficina del '15-'18 che ancora turbava il sonno di milioni di italiani. E il giovane Corti, poco prima del «sì» davanti all'altare, ebbe chiaro il presagio che presto il conflitto l'avrebbe travolto, come un'onda anomala che spazza via tutto ciò che incontra sulla sua strada. In attesa di un figlio, non ancora ventenne (era nato il 1° luglio 1922), Aldo si trovò costretto a bruciare le tappe della giovinezza, obbligato da un innato senso del dovere a diventare adulto anzitempo.
Oggi il mondo è cambiato così radicalmente che, ai più, le parole dell'alpino Corti sembreranno deliranti. Che senso può avere negli anni Duemila parlare di Patria (per di più di una Patria con la P maiuscola)? Ma, soprattutto, nella nostra società dei consumi che riconosce, come valore, solo il denaro, è ancora possibile discutere di senso del dovere? Se non esistono più valori, perché Dio, la Patria, la Politica sono morti, non resta quasi più niente per cui valga la pena sacrificarsi. Con la conseguenza, inevitabile, che il futuro cessa di essere la dimora delle aspettative, il ricovero delle speranze, per divenire la tomba delle illusioni.
Il libro di Aldo Corti (che è venuto a mancare lo scorso 1° agosto, poco dopo la pubblicazione del volume) è interessante proprio perché offre una preziosa testimonianza di un mondo che è tramontato. Un mondo che non ha senso rimpiangere, dal momento che gli italiani di oggi non possono scegliersi un'altra epoca in cui vivere. All'Italia religiosa, povera e ignorante degli anni Quaranta si è sostituita l'Italia laica, opulenta e per certi versi ancora più ignorante del tempo presente; a un'Italia per la quale in molti erano disposti a «credere, obbedire, combattere» è subentrata un'Italia che non ha più fiducia in nessuno, maleducata e ciarlatana, poco credibile se non odiosa quando chiede sacrifici. Tra il ventenne Aldo, che giura fedeltà alla moglie e alla Patria in guerra, e il ventenne odierno, che mai dovrà giurare alcunché in vita sua, che dialogo può instaurarsi?
Il senso del dovere portò Aldo a vivere la drammatica esperienza del conflitto con grande forza d'animo. Non che la guerra fosse per questo da lui condivisa. Nelle lettere inviate dal fronte alla moglie Vanda emerge infatti un forte senso di estraneità nei confronti di una lotta immane tra superpotenze rispetto alle quali il singolo individuo vedeva scomparire la propria umanità. Le domande di Aldo erano quelle di un giovane spaesato, incapace di comprendere appieno le ragioni di un conflitto che contrapponeva popoli tra loro così lontani, che nulla, a suo parere, avevano in comune. Come trapela da una sua lettera, la distanza fisica finiva per fiaccare le artefatte motivazioni ideologiche inculcate dal regime: «Pensa – scrisse per esempio una volta giunto "vicino Stalino" – che se dovessi tornare a casa a piedi impiegherei un anno facendo venti chilometri al giorno, ti sembra vicino?».
Forte era però la volontà di tenere duro, di farsi coraggio l'un l'altro: la condivisione delle sofferenze aiutava a combattere, a non mollare. In ballo c'era del resto l'onore d'Italia, della Patria che aveva chiamato, di una seconda madre che, nei campi di battaglia, non aveva più nulla a che vedere col fascismo, con Mussolini e con le sue ambizioni incomprensibili. Al fronte c'era da compiere il proprio dovere di italiani, perché era la storia che lo chiedeva. Quella storia che aveva fatto irruzione nella vita quotidiana di migliaia di giovani, i quali percepivano lucidamente la responsabilità di essere partecipi di un momento eccezionale, si sentivano messi alla prova. Non stupisce, pertanto, che moltissimi reduci abbiano in seguito riempito infinite pagine di testimonianze, diari, libri di memorie, epistolari. Nella percezione dei combattenti, la seconda guerra mondiale è un conflitto totale, che coinvolge tutti, non solo i soldati, e che tutto appiattisce. Il proliferare di scritture di ogni genere nasce pertanto dal bisogno di affermare una soggettività, dalla necessità di urlare al mondo «Io c'ero!». La pagina bianca diventa così per il soldato al fronte uno specchio dell'io annientato dalla tragica esperienza bellica, una finestra che consente di comunicare con un mondo (degli affetti, dei ricordi) che la guerra continuamente minaccia di sovvertire.
L'intento di Aldo, quando scriveva alla moglie, non era infatti descrittivo. Tutte le sue lettere erano animate dalla costante preoccupazione di fermare il correre del tempo, di esorcizzare l'angoscia prodotta da un conflitto universale che lasciava chiaramente intendere che nulla sarebbe tornato come prima. Carta e penna alla mano, l'alpino Corti nascondeva i propri disagi, non lasciava trapelare il dolore, la paura, la precarietà tipici della condizione di ogni soldato. Il suo pensiero era costantemente rivolto a Montefiorino (molto bello un passo di una lettera al padre, nel quale Aldo, per far capire la disposizione delle truppe italiane rispetto a quelle russe, paragona il fiume Don al più familiare Dragone), a quella terra natale che, prima o poi, avrebbe voluto ritrovare inviolata, non contaminata dalla guerra.
Ma al rientro in Italia dopo la drammatica ritirata di Russia niente sarebbe più stato come prima. Aldo stesso si sentiva prostrato nel corpo (era passato da 70 a 39 kg nel giro di sette mesi) e nella mente, incapace di capire il perché di tanta sofferenza e, soprattutto, perché, tra migliaia di morti, a lui la sorte avesse risparmiato la vita. A dargli conforto, il solo pensiero di avere servito la Patria, di aver compiuto il proprio dovere «nonostante il folle che aveva deciso quell'impresa». Aldo e i suoi compagni d'arme, anche se sconfitti militarmente, in cuor loro si sentivano vincitori.
L'Italia che l'alpino Corti trovò al suo ritorno non era però un paese disposto a tributargli onori. Se non fosse stato per le ferite provocate dal congelamento di un piede – opportunamente "trattate" con l'acido muriatico perché non si rimarginassero – i vertici militari l'avrebbero spedito su qualche altro fronte. La guerra infatti non era finita, e presto anzi si sarebbe trasferita in ogni casa sotto forma di spietata lotta fratricida. Per ironia della sorte (di quella stessa sorte che aveva fatto sopravvivere il figlio all'inferno di Nikolajevka), Olimpio Corti, il padre di Aldo, fu prelevato da un gruppo di partigiani comunisti e trucidato in quanto trovato in possesso della tessera del fascio repubblicano: suo "giustiziere" fu il capobanda Nello Pini, un alpino cui Aldo, durante la ritirata dai territori sovietici, aveva salvato la vita, avvertendolo di non avvicinarsi ad un'isba controllata da partigiani russi.
Il clima d'odio che insanguinò in quei mesi l'intero territorio di Montefiorino è chiaramente testimoniato, a parere di Aldo, da un significativo episodio dell'immediato dopoguerra: ovvero l'inaugurazione, in località Casola, di un monumento «in memoria di tutti i nostri morti di questa seconda guerra mondiale» che, con evidente pregiudizio ideologico, classificava i caduti nelle quattro categorie di Partigiani, Militari, Civili e Fascisti. Solo negli anni Ottanta i morti fascisti (tali erano considerati tutti i caduti per mano partigiana) furono inclusi nella categoria dei Militari.
L'Italia di oggi, passata attraverso l'esperienza dilaniante della guerra, è un paese che non ha voglia di ricordare. L'orgoglio di essere italiani, per il quale Aldo ha sacrificato la sua vita, ormai non esiste più, e forse è morto proprio nel momento in cui gli italiani si sono dimenticati della Patria per sventolare, nel trionfo dell'odio, la bandiera dell'ideologia. Aldo non appartiene alla categoria degli eroi poiché, ancora nel 2013, c'è chi eroe è disposto a considerare il carnefice di suo padre. Per i ventenni dell'era di internet Aldo non può rappresentare un modello, poiché incomprensibile risulterebbe per questi ultimi la fierezza provata da un giovane alpino nell'adempimento del proprio dovere di soldato, di marito, di padre, di italiano. Oggi tutto sembra lecito, la ribellione è un mito, il rispetto ha ceduto il passo all'arroganza, la fedeltà a persone o ideali puzza di vecchio: ma forse, a ben vedere, se vogliamo sopravvivere nell'oceano del niente che ci circonda, siamo obbligati a costruirci un nostro personale senso del dovere. È attraverso di esso che diamo valore alla nostra vita.

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martedì 15 ottobre 2013

Le «Sei lezioni sulla storia» di Edward Hallett Carr

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 ottobre 2013)

Alla base delle sei lezioni che Edward Hallett Carr tenne nel 1961 all'Università di Cambridge risiede la ferma convinzione che lo studio del passato assuma inevitabilmente un carattere relativo. Nessuno storico potrà mai avere l'ambizione di raggiungere la meta di una conoscenza assoluta, poiché la sua visione sarà sempre condizionata da uno specifico punto di osservazione radicato nel presente. La storia, in sostanza, al pari delle altre discipline scientifiche, deve attenersi a delle regole. E la prima è proprio la relativizzazione dello storico, che entra a far parte della materia con i suoi giudizi e i suoi valori. Solo tenendo presente questo "limite" (che in realtà costituisce l'autentica ricchezza dell'indagine storiografica, ciò che consente di rinnovare costantemente l'interpretazione del passato), la storia acquista un senso, che non risiede certo nell'utilità pratica – la storia, come la filosofia, concretamente non serve, poiché non è serva di nessuno –, bensì nell'opportunità che essa offre di cogliere con occhi più vigili le molteplici sfumature che contraddistinguono le dinamiche del presente.
 
Lez. 1: Lo storico e i fatti storici
Per prima cosa Carr, proponendosi di rispondere alla domanda «Che cos'è la storia?», critica la concezione empirista facente capo a Leopold von Ranke, secondo la quale è auspicabile un'assoluta separazione tra soggetto (lo storico) e oggetto (i fatti). Questo metodo presuppone, infatti, che la storia consista «in un complesso di fatti accertati», e che questi ultimi siano facilmente accessibili allo storico, «come i pesci sul banco del pescivendolo». La scelta dei fatti è d'altro canto un atto d'interpretazione, che a sua volta impone allo storico di adottare un atteggiamento critico nei confronti delle fonti e dei documenti, tramandati sempre secondo una più o meno inconsapevole finalità.
Anche la posizione dello storico è relativa, profondamente condizionata dal contesto in cui egli vive. La storia consiste «nel guardare il passato con gli occhi del presente, alla luce dei problemi del presente» e «l’attività essenziale dello storico non è di catalogare i fatti, bensì di darne un giudizio; giacché, se non si danno giudizi, come si fa a sapere ciò che val la pena di catalogare?». Pertanto, fermo restando precisa Carr che le interpretazioni non sono tutte legittime, la storia «è un continuo processo di interazione tra lo storico ed i fatti storici, un dialogo senza fine tra il presente ed il passato».

Lez. 2: La società e l'individuo
Il problema della presunta inconciliabilità tra società e individuo occupa una posizione di rilievo nella riflessione di Carr. Secondo lo storico londinese non c'è motivo di considerare antitetici i due concetti, che, al contrario, «sono termini reciprocamente necessari e integrantisi». Lo studioso del passato non può supporre che gli uomini agiscano nel vuoto: deve tenere presente che ogni individuo è profondamente influenzato dalla società e dal contesto in cui vive. Ciò vale anche, e a maggior ragione, per lo storico stesso. «Come tutti gli individui – puntualizza Carr –, egli è anche un fenomeno sociale, il prodotto e, nello stesso tempo, l'interprete più o meno consapevole della società a cui appartiene». Pertanto il modo di fare storia rappresenta un forte indizio per comprendere il carattere di una società.
Un'altra importante conseguenza è che non bisogna considerare i grandi uomini come individui in grado di dominare la società. Essi, al contrario, ne sono figli, sia perché sono elevati al rango di «grandi» dalle moltitudini (senza le quali non si può scrivere la storia), sia perché il loro essere grandi non è assoluto, ma dipende dalle circostanze e, pertanto, dal contesto socio-culturale in cui agiscono.
In conclusione, Carr precisa che «il processo di interazione reciproca tra lo storico e i fatti, [...] è un dialogo non tra individui astrattamente isolati, bensì tra la società odierna e la società di ieri».

Lez. 3: Storia, scienza e giudizi morali
«Gli scienziati, gli studiosi di scienze sociali e gli storici lavorano tutti, in branche diverse, nella stessa direzione: lo studio dell'uomo e dell'ambiente che lo circonda, lo studio dell'azione dell'uomo sull'ambiente e dell'ambiente sull'uomo». Con queste parole Carr conclude la terza lezione, nella quale affronta il problema del metodo scientifico della storia. Senza pretendere di formulare leggi assolute (del resto improponibili per la stessa fisica), lo storico deve porsi l'obiettivo di passare da un'ipotesi parziale a un'altra più completa, attraverso la reciproca relazione che intercorre tra fatti e interpretazione. In tal modo egli si avvicina alla scienza, con cui condivide obiettivi e metodi.
Una tale pretesa incontra alcune obiezioni, che Carr intende confutare:

1.      La storia ha a che fare esclusivamente con l'individuale, la scienza con il generale. Per la storia la generalizzazione è imprescindibile. Questo però non implica che l'indagine storica non sia rigorosa. «La storia studia la relazione che intercorre tra l'individuale e irripetibile e il generale».

2.      Dalla storia non si traggono insegnamenti. Che gli uomini traggano ispirazione dalla storia è provato dall'esperienza. La storia guarda il passato con gli occhi del presente e cerca di comprendere il presente alla luce del passato.

3.      La storia è incapace di fare previsioni. Lo storico non riesce a fare previsioni per i casi individuali e particolari, ma può esprimersi con valide argomentazioni per quanto riguarda il probabile sviluppo nel futuro di fatti generali.

4.      La storia è soggettiva, in quanto l'uomo osserva se stesso. Il punto di vista dello storico condiziona inevitabilmente le osservazioni, così come queste ultime possono influenzare ciò che si osserva. L'importante è essere consapevoli di questo rapporto che unisce saldamente lo storico ai fatti presi in esame. La storia è una scienza relativa.

5.      La storia implica problemi religiosi e morali. Non ha senso supporre l'esistenza di «una forza sovrastorica da cui dipendano il significato e l'importanza della storia», poiché «il ridicolo di questa posizione è dato dal fatto che essa tratta la religione come la matta al gioco delle carte, che va riservata per le situazioni [...] che è impossibile risolvere altrimenti». Per quanto concerne i giudizi morali, essi sono assurdi se riferiti agli individui del passato, ma sono inevitabili per i fatti di grande portata. L'interpretazione, infatti, implica sempre un giudizio morale.
 
Lez. 4: La causalità storica
Studiare la storia equivale a studiarne le cause. Queste non sono mai univoche, bensì molteplici e concatenate tra loro. Compito dello storico è pertanto quello di stabilire, attraverso l'interpretazione, una gerarchia tra i vari «perché».
Il rischio di cadere nel determinismo è, per Carr, un falso problema. «Tutte le azioni umane – infatti – sono ad un tempo libere e determinate, a seconda del punto di vista da cui le guardiamo». D'altro canto, è opportuno ridimensionare pure il ruolo del caso nella storia. Le incognite, gli elementi accidentali possono meritare una certa attenzione, ma lo storico, nel tentativo di dare spiegazioni, deve operare una scelta sulla base della rilevanza e dell'importanza dei fatti, con l'obiettivo di perseguire un determinato scopo. «Le cause accidentali – precisa Carr – non possono essere generalizzate, e, dal momento che sono letteralmente irripetibili, non forniscono alcun insegnamento e non portano a nessuna conclusione».

Lez. 5: La storia come progresso
Carr afferma di credere nel progresso. Esso non va confuso con l'evoluzione (che interessa la biologia), non deve essere inteso come un processo avente un inizio, una fine e una linearità temporale, ed è da considerarsi essenzialmente come un termine astratto (in quanto i fini concreti perseguiti dall’umanità nascono di volta in volta nel corso della storia). «La storia – suggerisce l'autore – è progresso in quanto le capacità acquisite da una generazione vengono trasmesse ad un'altra».
La fiducia dello storico nel progresso influenza il suo modo di agire, condiziona il criterio con cui si analizzano le cause e si avanzano le ipotesi. Le interpretazioni del passato si evolvono infatti proprio perché si presuppone che l'obiettività (intesa non in senso assoluto, bensì come la scelta – sempre più accurata – del giusto criterio con cui valutare l'importanza dei fatti) faccia continui passi avanti; che maturi e, pertanto, progredisca.

Lez. 6: Verso più ampi orizzonti
L'ultima lezione vuole essere un bilancio e, allo stesso tempo, una riflessione sul futuro della storia e della civiltà occidentale. Carr scrive in un momento di forti cambiamenti, che egli stesso inquadra in una duplice prospettiva. Da un lato egli afferma l'uomo sta maturando sempre più la consapevolezza delle potenzialità della ragione come strumento di comprensione di se stesso e dell'ambiente circostante; dall'altro il mondo è nel pieno di una profonda trasformazione, che sta sovvertendo equilibri territoriali, economici e politici in piedi da secoli. Nonostante le contraddizioni, l'estensione del potere della ragione è da intendersi come indice di progresso. La tendenza diffusa nella storiografia occidentale a negare un senso alla storia (dovuta a un estremo, quanto inutile, tentativo di esorcizzare la paura di una marginalizzazione della civiltà occidentale) rischia pertanto di far perdere «il senso profondo che il mondo è in perpetuo divenire». Anche in un'epoca di tumulti Carr invita a compiere lo sforzo dell'ottimismo: cambieranno le prospettive, ma la storia, di certo, non finirà.

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domenica 6 ottobre 2013

Antifascismo: sinonimo di democrazia?

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 ottobre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Quando in Italia esce un libro sulla guerra civile del 1943-1945 la polemica è pressoché assicurata, con l'opinione pubblica pronta a spaccarsi nei due tronconi di chi difende la "sacralità" della Resistenza e chi pretende di riscattare la memoria dei vinti. Per quale motivo, ancora a distanza di settant'anni, è così difficile raccontare quel passato col dovuto distacco, riconoscersi in una storia condivisa a prescindere dai diversi orientamenti politici?
Rispondere a questa domanda è tutt'altro che semplice, anche se non è pensabile continuare ad eluderla. Nell'interessante introduzione all'edizione italiana de La cultura dei vinti, corposo saggio di Wolfgang Schivelbusch, Roberto Vivarelli suggerisce alcuni spunti di riflessione decisamente poco convenzionali. A suo parere il primo nodo da sciogliere è quello legato alla corretta interpretazione del concetto di antifascismo, troppo spesso considerato (erroneamente) sinonimo di democrazia. Se infatti «è del tutto evidente» che per il PCI (partito che «si adoperò per fare dei suoi militanti dei gregari e niente affatto delle persone libere») il modello non era certo il parlamentarismo occidentale, bensì il regime, di matrice sovietica, «che, con un grazioso eufemismo, fu detto "democrazia popolare"», come conciliare l'antifascismo comunista con quello, liberale, più autenticamente democratico? A una comune pars destruens (la sconfitta del fascismo) non corrispondeva uguale pars construens, con l'aggravante (o, meglio, il paradosso) che in un regime di democrazia proprio le forze antidemocratiche consideravano la propria esperienza partigiana come di serie A rispetto a quella, di serie B, degli altri partiti della Resistenza.
L'Italia fatica ad accettare una memoria condivisa fondata sui valori dell'antifascismo semplicemente perché non è ancora riuscita (o forse non ha voluto) fare i conti con il fascismo. E perché questo avvenga, è necessario, scrive Vivarelli, tenere presente che non fu l'antifascismo a stroncare Mussolini. Fu la sconfitta militare a far fuori il duce, non certo un'opposizione interna. Nondimeno, dopo l'8 settembre, ad animare i primi nuclei della Resistenza fu la pretesa, poi confermata in sede storiografica nel dopoguerra, di riassumere tutte le colpe del fascismo nella drammatica esperienza di Salò, come se solo con l'RSI si fosse palesato l'inganno che si celava dietro l'equazione italiano = fascista. Così, con un colpo di spugna, ci si sottraeva dalla scomoda responsabilità di dover gestire l'eredità di una dittatura ventennale che aveva, inutile negarlo, sedotto milioni di italiani.
Il considerare «sufficiente avere preso le distanze da Salò per meritare una patente di antifascismo» consentì a molti "repubblichini" di nobilitare la scelta di non tradire colui che era stato, non va dimenticato, idolatrato duce d'Italia, oltre che del fascismo. Se quindi ancora oggi non si accetta l'idea che il fascismo non fu imposto da una minoranza di fanatici, ma fu prima tollerato, poi accettato (il mancato esautoramento di Mussolini dopo il delitto Matteotti dovrebbe far riflettere), infine accolto con un consenso largamente diffuso; se pertanto si pretende di scaricare su pochi quella che fu una responsabilità di molti, allora gli italiani non solo non possono, ma forse hanno addirittura il diritto di non accettare una memoria condivisa.

      

L'accusa di Francesco Gherardinelli

 

«Una memoria condivisa richiederebbe un'onestà intellettuale che questa Italia non ha»

 

È possibile in Italia una memoria condivisa? Prima di rispondere a questa domanda, forse è opportuno porsene un’altra. È conveniente, su certi fatti, avere una memoria? L’interrogativo può, a primo acchito, risultare poco comprensibile. In realtà sulla risposta si giocano i destini di una nazione.
La guerra civile, intesa come scontro fratricida tra persone e gruppi appartenenti alla stessa comunità, si è manifestata infinite volte nella storia umana. Fin dagli albori della civiltà fazioni e clan si sono scontrati per la conquista del potere o per rivalità che oggi potremmo chiamare ideologiche.
Con i Romani il concetto di guerra civile ha raggiunto il suo senso più compiuto. Soprattutto in epoca repubblicana, ai tempi di Mario e Silla, quando lo scontro vedrà fronteggiarsi schieramenti mossi da una profonda differenza ideale e supportati da ceti diversi con interessi contrapposti.
Generalmente l’autorità che emerge da una guerra civile ha due possibilità. La prima è quella di far dimenticare la guerra civile stessa, non coltivandone la memoria, con l’obiettivo di giungere a una vera pacificazione basata sull’oblio. La seconda è invece quella di fondare la propria legittimità propria sulla vittoria nella guerra civile, dipingendo i perdenti come criminali e i vincitori come eroi-salvatori. In altre parole trasformando la guerra civile in mito.
In Italia il potere politico ha scelto questa seconda opzione. Ha deliberatamente rinunciato alla realtà dei fatti per dividere il mondo in buoni e cattivi. Ma questa operazione ha dato risultati positivi per la nazione? A mio parere no. Negare la realtà non porta mai a nulla di buono, anche perché il totale lavaggio del cervello della gente non è possibile e chi ha vissuto i fatti continuerà a portare avanti una memoria, magari sotterranea, magari inconscia, diversa da quella imposta dalle autorità. E in questo modo le istituzioni sono inevitabilmente destinate a perdere quella legittimità che ricercano disperatamente. Perché nessuna legittimità può nascere dalla menzogna.
Gli esponenti più intelligenti tra i vincitori erano perfettamente consapevoli di questo pericolo. Per cui un Amedeo Bordiga, fondatore insieme a Gramsci del Partito Comunista Italiano, arriverà a dire che “il peggior prodotto del fascismo è stato l’antifascismo”. Un intellettuale come Ennio Flaiano invece sosterrà, con finta ironia, che “il fascismo si divide in due categorie: il fascismo e l’antifascismo”.
È possibile quindi una memoria condivisa sui fatti della Guerra Civile? La mia risposta è no. Perché richiederebbe un’onestà intellettuale che l’Italia nata dalla Resistenza non ha e non avrà mai. Un’onestà che imporrebbe di riconoscere non solo le ragioni, ma fin anche la legittimità – quanto meno come “opzione storica” – della parte avversa e perdente.
Purtroppo il timore è che una pacificazione non raggiunta perché non voluta dai vincitori avrà conseguenze molto gravi. È il passato che ci consente di vedere il futuro. Come insegnano i tempi di Mario e Silla, la vittoria di oggi non seguita dalla pacificazione, è foriera della sconfitta di domani. Perché se i vincitori tutti i giorni ricordano e fanno ricordare, i vinti tutti i giorni non dimenticano. La memoria spesso chiama sangue.

 

 

La difesa di Luciano Annunziante

 

«Una memoria condivisa è possibile purché vincitori e vinti facciano un passo indietro»

 

Sui fatti della lotta antifascista si assiste a un revisionismo che, cominciato negli anni Ottanta in maniera strisciante, negli ultimi tempi ha assunto forme e comportamenti sempre più aggressivi.
Si è cominciato col negare il concetto di insurrezione popolare per sostituirlo con quello di Guerra Civile, per arrivare, oggi, ad invocare una memoria condivisa che però, se non definita in maniera precisa, nasconde insidie e pericoli.
Cosa significa memoria condivisa? Significa rivalutare il fascismo, e la dittatura nella quale ha fatto vivere gli italiani per più di vent’anni? Significa non solo manifestare una comprensione umana e una umana pietà per i fascisti che combatterono al fianco dei nazisti, ma riconoscergli anche delle ragioni storiche e ideali? Se questa è la volontà di chi ricerca questa condivisione nella memoria, personalmente non ho alcun problema a dire no!
La condivisione la si può e la si deve cercare mantenendo però alcuni punti fermi. Non negoziabili, come si sente spesso dire in altri ambiti. Il primo è che fascisti e antifascisti non erano uguali, con la sola differenza che i primi hanno perso e i secondi hanno vinto. Erano diversi. Diversissimi. I secondi combattevano per la democrazia e la libertà, i primi stavano dalla parte della dittatura. Il secondo è che certe esperienze storiche non possono essere rivalutate, o anche solo relativizzate. Il male esiste, e loro lo hanno rappresentato sul piano politico.
Tenuti fermi questi due punti, la ricerca storica ha tutto il diritto di approfondire i fatti e le circostanze. Anzi, l’operazione è meritoria se ha come fine quello di purificare quella grande epopea che è stata la Resistenza da una retorica eccessiva, ridondante che spesso risulta più di danno che di utilità alla sua stessa immagine pubblica.
È evidente e innegabile che anche nella Resistenza si sono verificati episodi inaccettabili, da condannare senza se e senza ma. Anzi, il portarli alla luce è assolutamente necessario per togliere argomenti a tutti i detrattori del movimento partigiano che strumentalizzano quel po’ di cattivo che è stato prodotto per fare di tutta l’erba un fascio e infangare la Resistenza in toto.
A questo fine sarebbe anche utile togliere un po’ di potere, di visibilità e soprattutto di prebende a quelle persone e a quelle associazioni che, come troppo spesso accade in Italia, sulla Resistenza hanno costruito rendite e posizioni lautamente remunerate. Queste realtà, nella loro radicalità ed esaltazione avulsa da ogni realtà, prestano il fianco ai nemici della verità che hanno buon gioco a parlare di “industria della Resistenza”.
La memoria condivisa quindi è possibile, nella misura in cui entrambe le parti in causa accettino di fare un passo indietro. I vincitori, riconoscendo che, come sempre capita nelle vicende umane, non tutta la loro storia è immacolata. Che purtroppo anche tra i partigiani c’erano persone mosse da finalità non condivisibili che hanno avuto atteggiamenti da condannare fermamente. I vinti, riconoscendo che il fascismo non può essere una legittima alternativa alla democrazia.

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