venerdì 9 agosto 2013

Cesare d'Este, il duca che perse Ferrara

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 agosto 2013)


Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

«Se fosse vero ciò che della forza delle stelle hanno scritto in altri tempi gli strologi, bisognerebbe certo dire che questo principe fosse nato sotto una ben infausta costellazione: tante furono le traversie che ne' primi anni del suo governo si affollarono contro di lui».
Per molti dei suoi lettori, queste considerazioni di Ludovico Antonio Muratori hanno a lungo sottinteso una convinzione ben radicata: Cesare d'Este, il duca che dovette cedere Ferrara a Clemente VIII nel 1598, fu un sovrano arrendevole, un Don Abbondio ante litteram costretto, lui «vaso di coccio», a viaggiare tra due grossi «vasi di ferro», il papa e l'imperatore del Sacro Romano Impero. Le «traversie» cui alludeva il Muratori erano legate alla nascita del futuro duca. Cesare infatti apparteneva a una linea di discendenza "infetta", essendo figlio di Alfonso di Montecchio, a sua volta nato di contrabbando da una relazione tra il duca Alfonso I e Laura Dianti. In altre parole, egli non possedeva perfetti requisiti per ascendere al potere: se la scelta cadde infine sul suo nome fu perché il duca Alfonso II – figlio di Ercole II, successore di Alfonso I – nel 1597 morì senza eredi legittimi.
Pur essendo stato designato erede dallo stesso Alfonso II, Cesare entrò subito in contrasto col pontefice, che rifiutava di riconoscere la successione. Il ducato che egli rivendicava era infatti il risultato di una composita concessione feudale: Modena, Reggio e Carpi erano assegnate dall'imperatore; Ferrara dal papa. Ma se Rodolfo II non si oppose alla nomina di Cesare quale duca di casa d'Este, Clemente VIII intimò a quest'ultimo di abbandonare Ferrara – città di cui gli Estensi detenevano l'investitura papale sin dal 1332 – e, di fronte alla resistenza di Cesare, radunò 20.000 fanti presso Faenza. A tale perentorio monito seguì, il 23 dicembre 1597, la scomunica del duca d'Este, segno inequivocabile che il papa non intendeva rinunciare ai suoi diritti (una bolla emanata nel 1567 da Pio V stabiliva in effetti che i figli illegittimi non potessero vantare diritti di successione nei feudi ecclesiastici).
Immediatamente a Cesare venne meno il sostegno delle potenze europee, mentre il popolo, immiserito dalla politica vessatoria a base di tasse del defunto Alfonso II, pareva sul punto di voltargli le spalle. Messo alle strette, egli giocò allora la carta della diplomazia, anche perché la sua profonda religiosità gli impediva di affrontare il papa alla stregua di un nemico. Inviò pertanto Lucrezia d'Este, sorella di Alfonso II, a trattare col cardinal Aldobrandini, che si trovava a Faenza a capo delle truppe pontificie. La scelta della cugina per tentare una conciliazione col papa fu, secondo alcuni, del tutto controproducente, dal momento che tra Lucrezia e il duca non correva buon sangue. Ma al di là di ogni possibile congettura, resta il fatto che i margini di trattativa erano ridotti. Lucrezia dovette perciò prendere atto della volontà di Clemente VIII di avocare Ferrara alla Santa Sede e il 12 gennaio 1598 concluse un accordo – noto come Convenzione faentina – che sacrificava sì la capitale, ma quantomeno garantiva la sopravvivenza dello Stato estense.
Accettando di trasferirsi a Modena, il duca ottenne che gli venisse revocata la scomunica e confermata l'investitura imperiale. Avrebbe forse potuto agire diversamente?

 

 

L'accusa di Laura Donati

 

«Si dimostrò politico poco accorto e pessimo conoscitore delle donne»

 

Cesare d’Este era una persona mite e onesta. Non si macchiò di crimini e non ebbe comportamenti disdicevoli. Tuttavia anche a lui si possano imputare gravi colpe, non di natura morale bensì politica, in particolare relativamente alla perdita di Ferrara.
Gli antefatti sono abbastanza noti. La linea legittima della famiglia d’Este si estingue con Alfonso II, per cui l’eredità passa al ramo collaterale dei Montecchio, nella persona di Cesare cugino dell’ultimo Duca.
Il Papa non riconobbe questa discendenza e tolse agli Estensi il feudo pontificio di Ferrara.
In questo frangente Cesare non si mostrò, a mio avviso, all’altezza della situazione.
Sono due le mancanze che gli possono essere ascritte, la seconda delle quali imperdonabile.
La prima si riassume in un atteggiamento troppo rinunciatario di fronte alle pretese, legittime ma basate su un’interpretazione pretestuosa dei fatti, del Papa. È vero che un eventuale conflitto armato con il Vaticano non aveva nessuna possibilità di concludersi con una vittoria. Ma Cesare avrebbe potuto dimostrare più energia, giocando, come sempre hanno fatto gli Estensi, negli interstizi della grande politica europea che consentivano, a un piccolo stato, ampi margini di manovra.
Gli Estensi sono sempre stati refrattari all’idea di versare il sangue dei propri sudditi, e questo va ascritto tra i loro meriti, ma in questo caso pur senza arrivare al confronto armato Cesare avrebbe potuto fare di più.
Il secondo errore, gravissimo e decisivo, è stato quello di aver dato l’incarico di gestire le trattative con il Papa alla cugina Lucrezia.
Perché fu un gravissimo errore? Per rispondere bisogna fare un passo indietro di un paio di decenni. Allora regnava Alfonso II, e la sorella di lui Lucrezia era sposata con Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino. Quest’ultimo era un poco di buono, nella vita pubblica e in quella privata, tanto che Lucrezia, esasperata, ottenne il permesso dal Papa di abbandonare il tetto coniugale e tornare a vivere a Ferrara. Qui intrecciò una relazione illecita ma d’amore con Ercole de’ Contrari. Se non ché questo menage venne a conoscenza di Alfonso di Montecchio, padre di Cesare, il quale ne fece parola con il nipote, il duca Alfonso II. Questi fece assassinare il De’ Contrari.
Da allora Lucrezia giurò vendetta contro lo zio Alfonso.
Quando salì al trono, Cesare incaricò Lucrezia di intavolare trattative con Clemente VIII per cercare di salvare il possesso di Ferrara. Perché scelse Lucrezia? Perché la donna era in ottimi rapporti con il cardinale Aldobrandini, legato pontificio per la questione ferrarese, e quindi Cesare sperava che avrebbe potuto ammorbidire le pretese papali. Inoltre, pur conoscendo le vicende del passato, pensava che la voglia di vendetta della cugina si fosse esaurita con la morte del padre, e che mai avrebbe giocato contro la propria stirpe.
Invece non fu così. Lucrezia fece tutto quanto era in suo potere per creare a Cesare il maggior danno possibile. E Ferrara fu persa per sempre. Sulla sua tomba mano ignota la definì “inimica del proprio sangue”.
Cesare si dimostrò politico poco accorto e soprattutto pessimo conoscitore delle donne.

 

 

La difesa di Gian Carlo Montanari

 

«Ebbe i sommi pregi della pazienza tessitrice e della lungimiranza»

 

Cesare d'Este fu certamente, comunque si giudichi il suo operato, una delle più stimolanti personalità fra le dieci (otto duchi e due arciduchi) che governarono Modena e lo Stato Estense dal 1598 al 1859. Duca quasi per caso, perché Alfonso II d'Este non ebbe prole e lo scelse a malincuore; governante senza preparazione iniziale di un territorio che subito gli venne tolto per metà abbondante; signore contestato anche dai familiari e tormentato per l'agire di alcuni di essi (la moglie Virginia de' Medici finì pazza, il figlio maggiore, futuro duca Alfonso III, ebbe gioventù scapestrata, un nipote, anche lui futuro duca Francesco III che la vulgata vuole suo dispregiatore); costretto per due terzi del suo regnare a subire l'influenza non sempre benefica del suo segretario Giovan Battista Laderchi; circondato da confinanti infidi e si pensi alle due assurde guerricciole di Garfagnana contro Lucca; oberato da questi balzelli, il primo signore di Modena Capitale ebbe i sommi pregi della pazienza tessitrice e della lungimiranza.
Questo fece sì che, nonostante le critiche anche feroci (si pensi ad Alessandro Tassoni...), Cesare d'Este, costretto a lasciare Ferrara e a rischio continuo di perdere anche il resto del suo piccolo regno, è infine colui che gettò le basi dei 261 anni e mezzo di potere Estense. Superati gli Scilla e Cariddi del primissimo periodo modenese, eliminati cioè pericoli interni (l'opposizione di Marco Pio da Sassuolo) ed esterni (le contestazioni di Anna di Nemours, la francese sorella di Alfonso II che piantò grane ereditarie e dinastiche), smorzate le contestazioni, egli impostò un governare di stampo assolutistico, con feudatari fedeli (Rangoni, Montecuccoli, Boschetti...) e i suoi trent'anni di regno sono da considerarsi un esempio singolare e quasi unico di diplomazia, volta a salvaguardare il nome e il potere ereditato.
Dunque, non certo Cesare, il duca pavido, bensì un uomo di non comuni doti di temporeggiatore che tra sfortune familiari e attacchi al suo Stato salvaguardò e concretizzò il suo potere e lo rese stabile. Con benevolenza si può dire che chi ha parlato di Cesare definendolo poco acuto lo ha sicuramente sottovalutato. Un solo particolare che riteniamo carino per confutare questo giudizio. Il duca Cesare era (si veda il cronista Spaccini suo contemporaneo) un carattere brioso e amava il teatro. Una volta, dopo essere stato in giornata in Romagna per omaggiare il Papa, tornò verso Modena coi suoi fidi al galoppo e in serata se ne andò a gustare... una commedia! Credo basti per confutare coloro che lo hanno definito molle e pavido. Era invece uomo che seppe mantenere equilibrio fra le mille prove dell'esistere e riuscì a guardare lontano, gustando intensamente le poche gioie della vita. Grazie, Duca Cesare d'Este, Modena ti deve qualcosa.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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