venerdì 9 agosto 2013

La storia di un paiuolo: l'uso della parabola in chiave socialista

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 luglio 2013)

Alla base dello sfruttamento dei lavoratori stava, per i socialisti, il sistema di produzione capitalistico. Per spiegare in che cosa esso consistesse, «Il Domani» – periodico socialista modenese di inizio Novecento – si serviva di frequente di storielle esemplificative e di brevi racconti, che riprendevano e rimodulavano in chiave socialista il linguaggio delle parabole evangeliche ed erano studiati per rendere accessibile al lettore-lavoratore una materia altrimenti per lui ostica. Un esempio, tra i vari possibili, contribuisce a far luce sulle strategie di comunicazione e persuasione della propaganda del PSI. Si tratta di un dialogo tra Pietro e Rodolfo, «due operai» che «discorrono di socialismo»:
«Pietro – Tu che sei socialista, sapresti dirmi cosa s'intende per capitale?
Rodolfo – Per capitale […] s'intendono i mezzi di produzione, cioè i campi, le ferrovie, le miniere, gli opifici, ecc. che appropriati dalla classe dirigente dominano e sfruttano il lavoratore.
P. – E col trionfo del socialismo che avverrà di codesto?
R. – Col trionfo del socialismo il capitale […] verrà accentrato nelle mani della società, e dichiarato comproprietà dei cittadini, ovvero patrimonio sociale, proprietà collettiva.
P. – E i profitti principali di codesta trasformazione quali saranno per il lavoratore?
R. – Ecco questi profitti:
1. Che tutti lavoreranno per far fruttare il patrimonio sociale, secondo le loro abilità, col diritto di ricavarne un sufficiente guadagno;
2. Che tutti lavorando, basteranno solamente tre o quattro ore di fatica al giorno per vivere agiatamente;
3. Che il resto del tempo anch'essi potranno dedicarlo agli studi, ed interessarsi delle questioni più ardue e più importanti;
4. Che le classi viventi ora del prodotto del nostro lavoro sarebbero eliminate, essendo tutti obbligati a compiere la propria parte di lavoro socialmente utile, sia intellettuale, che materiale.
P. – Bravo Rodolfo, sono anch'io socialista, ma ci vorrà del tempo, nevvero?
R. – Naturalmente, ma chi la dura la vince».
Dal dialogo tra i due operai emergono almeno due aspetti interessanti. In primo luogo, come premessa inconfutabile, Rodolfo (che interpreta il ruolo del socialista che ha alzato lo sguardo per vedere oltre, che ha messo a frutto gli insegnamenti ricevuti e mostra di aver ben compreso i meccanismi che determinano lo sfruttamento del proletariato) spiega che il capitalismo borghese è alla base di una sorta di ingiustizia distributiva: per il solo fatto di possedere i mezzi di produzione, infatti, il «succhione» (ossia l'avido padrone) senza lavorare di persona mette a frutto il lavoro dei suoi operai, producendo una ricchezza che finisce però pressoché interamente nelle sue tasche. Con l'avvento del socialismo, invece – ed è in un certo senso la morale del racconto –, chi non lavora è destinato a non mangiare, dal momento che in una società egualitaria i parassiti non sono ammessi.
 In secondo luogo, Rodolfo nel dialogo rappresenta la personificazione del socialismo, inteso come dottrina che si pone l'obiettivo precipuo di educare le masse in vista della loro emancipazione sia economica che culturale. Non per niente, infatti, egli richiama l'attenzione sul fatto che nella società socialista l'operaio ha tempo da dedicare agli studi: solo acquisendo consapevolezza dei propri diritti, solo attraverso la libera e profonda comprensione del capitalismo e del suo regime di oppressione, Pietro (ovvero il lavoratore che ancora deve compiere il processo di maturazione socialista e che per questo ha bisogno di essere guidato dal Rodolfo-PSI) può dirsi, nel finale del dialogo, a tutti gli effetti socialista. In questo senso, dunque, è possibile vedere nell'intera storiella una metafora che inquadra alla perfezione il significato ultimo della propaganda: «Il Domani», quale organo di partito, rappresentava cioè, nelle intenzioni dei socialisti che ne curavano la redazione, un più sofisticato Rodolfo.
Un aspetto su cui il foglio modenese insisteva particolarmente era la condanna dell'ozio borghese, che sottraeva ricchezza utile rendendola improduttiva sotto forma di rendita. «Se mettessimo al lavoro tutti gli oziosi – argomentava infatti "Il Domani" –, e se facessimo lavorare utilmente tutti coloro i quali ora lavorano inutilmente, o anche in modo dannoso alla società, si avrebbe una produzione enormemente aumentata, e quindi un reddito molto maggiore di quello attuale». Di conseguenza, costringendo tutti gli individui a contribuire con il proprio lavoro al benessere della società, «non si avrebbe più miseria generale, ma si potrebbe avere l'agiatezza per tutti». Inoltre, con la collettivizzazione dei mezzi di produzione sarebbe stata superata la spietata logica della concorrenza: i lavoratori «sarebbero tutti d'accordo nel produrre il meglio possibile, e non vi sarebbero gli sprechi che vi sono oggi». Ma era del tutto evidente che il capitalista intendeva difendere a tutti i costi la propria condizione privilegiata, come sottolineava ironicamente il settimanale modenese che al borghese faceva recitare la «preghiera di un parassita», nella quale egli, rivolgendosi al Dio Lavoro, chiedeva: «Non ascoltare la voce perversa dell'agitatore, poiché egli Ti insegna la dottrina dello scontento e dell'egoismo, dicendoti: "Deve mangiare solo colui che si guadagna il pane con il sudore della fronte"».
Sempre ricorrendo a una storiella, «Il Domani» tentava di semplificare le dinamiche che stavano alla base della nascita e del consolidamento della società capitalistica:
[Gli abitanti di un povero villaggio sono costretti a emigrare in America a causa della disoccupazione. Durante il viaggio, però, una tempesta fa naufragare la nave, consentendo solo a pochi superstiti di raggiungere un'isola deserta. Giunti a terra, siccome sono sprovvisti di tutto, essi decidono di provare a recuperare dal relitto ogni oggetto che possa tornare utile].
«E pesca e afferra e uncina e tira, riuscirono finalmente a trarre dalle acque […] un paiuolo.
– Questo è mio: disse uno dei naufraghi, e presolo se ne andò.
Continua a pescare, ad uncinare, a tirare, dopo molti stenti giunsero a trarre a riva un sacco di frumentone.
– È la provvidenza, si misero a gridare.
– Piano, soggiunse uno di loro, pensando forse a quello che era avvenuto del paiuolo: questo deve servire per tutti. Noi lo semineremo e così avremo almeno la polenta […].
Tutti approvarono e si diedero a coltivare la terra.
In capo a pochi mesi ne raccolsero trenta sacchi […].
– Benissimo: adesso finalmente faremo la polenta: e si misero a macinare tra due pietre il granturco.
Ma, quando ebbero la farina pronta, e pronta la legna, ed il sale che l'acqua del mare aveva somministrato, s'avvidero che per fare la polenta tutto ciò non bastava; ci voleva il paiuolo.
– Volentieri: ma patti chiari. Io vi do il paiuolo, ma a condizione che voi mi diate metà della polenta.
– La metà della polenta! Ma come? Perché? Con qual diritto? Con quale giustizia? Sarebbe mostruoso.
– Lasciamo stare tutta questa roba. Il paiuolo è mio, e se lo volete dovete darmi la metà della polenta, se no fate a meno: libero io di darlo, liberi voi di rifiutarlo».
Quindi alla base del sistema produttivo capitalistico stava un'appropriazione indebita dei mezzi di produzione (il capitale-paiuolo) da parte di coloro che, senza alcun diritto («con quale giustizia?»), se ne erano autoproclamati padroni. Il paradosso però consisteva nel fatto che, per fare la polenta (per vivere), i naufraghi-operai erano costretti a lavorare alle condizioni loro imposte dal proprietario del paiuolo. E in questa logica essi vedevano una necessità più che un abuso, facendo involontariamente il gioco del padrone. Solo il socialismo – questo era il senso della storiella – indicava la via della redenzione, in quanto spingeva il lavoratore a guardare oltre, per comprendere che il bisogno materiale non poteva giustificare lo sfruttamento. Anche il padrone, infatti, aveva necessità che gli operai mettessero a frutto il suo capitale: senza il loro contributo, la sua ricchezza di beni sarebbe stata improduttiva. Occorreva dunque che i proletari acquisissero la consapevolezza del proprio ruolo indispensabile all'interno del processo produttivo, che comprendessero che l'arma del ricatto (fame = lavoro) poteva ritorcersi contro i padroni (no lavoro = no profitto), i quali, con l'avvento del socialismo, non avrebbero più potuto permettersi il lusso di oziare come parassiti della società.
Il lavoro era pertanto anch'esso un'essenziale forma di ricchezza, e apparteneva al proletariato, il quale doveva essere messo nelle condizioni di metterlo a frutto. «Il lavoro – argomentava "Il Domani" – crea capitali, ma non ne ha alcuno. Il lavoro fornisce il grano, ma mangia la crusca. […] Il lavoro inventa congegni per diminuire la fatica, ma le fatiche diventano più che mai onerose. Il lavoro fabbrica fucili, ma essi sparano contro di lui. Il lavoro impianta scuole ed università, ma esso rimane nell'ignoranza». Il lavoro era in sostanza una risorsa imprescindibile, il principale strumento apportatore di progresso a servizio dell'intera umanità, non dei soli padroni. «Chi rimedierà alla sua triste sorte?», domandava il foglio modenese. Ovviamente il socialismo era l'unica risposta possibile.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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