lunedì 17 giugno 2013

Il generale Enrico Cialdini: una figura controversa del Risorgimento

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 giugno 2013)
 
Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Se per studiare il fenomeno del cosiddetto brigantaggio meridionale si facesse esclusivo affidamento sui manuali universitari, del generale Enrico Cialdini – uno dei principali artefici della dura repressione dei moti antisabaudi nel Mezzogiorno – si conoscerebbe, forse, a malapena il nome. Una semplice verifica, del resto, è sufficiente per constatare questa discutibile omissione. Chi scrive, infatti, ha provato a consultare l'indice dei nomi di tre testi piuttosto diffusi tra gli studenti (Storia contemporanea di T. Detti e G. Gozzini, Storia contemporanea di G. Sabbatucci e V. Vidotto e L'età contemporanea di A. M. Banti); e il risultato è stato pressoché il medesimo: Cialdini non è mai citato nei primi due volumi, mentre nel terzo è menzionato una sola volta in riferimento alla guerra d'indipendenza del 1866. In sostanza, solo ai lettori di Banti è dato sapere quantomeno dell'esistenza di Cialdini, mentre alla campagna contro il brigantaggio il suo nome non è mai accostato.
Eppure il generale originario di Castelvetro non fu certo uomo di poco conto, considerato che, all'indomani dell'Unità d'Italia, ricevette pieni poteri civili e militari in qualità di luogotenente dell'ex Regno delle Due Sicilie. Suo compito era quello di soffocare le rivolte dei ribelli e dei legittimisti che "infestavano" il Meridione e mettevano a repentaglio la sicurezza interna del nuovo e ingrandito Stato sabaudo. Compito che egli assolse col massimo zelo, senza preoccuparsi dei costi umani di quella che alcuni recenti studi definiscono la prima guerra civile italiana. Cialdini stesso, del resto, dopo aver duramente represso i "briganti" insorti nel Napoletano, non solo non nascose il prezzo di sangue pagato dalle popolazioni locali, ma anzi, nel comunicare a Torino i risultati conseguiti, lasciò trasparire dalla meticolosa precisione dei suoi dati un evidente compiacimento: «8968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7112 prigionieri; 918 case e 6 paesi interamente bruciati; 2905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13.629 deportati; 1428 comuni messi in stato d'assedio» (citato in G. B. Guerri, Il sangue del Sud).
Che giudizio merita, quindi, il generale Cialdini? Può essere assolto per i suoi crimini di guerra adducendo come attenuante la "giusta" causa nazionale per la quale ha combattuto, nella convinzione di compiere il suo dovere di soldato? Oppure, come ha sostenuto nel 2011 il sindaco di Pontelandolfo (paese del Beneventano che il 14 agosto 1861 fu vittima di un feroce eccidio), «tutte le onorificenze e le medaglie generosamente conferitegli [dovrebbero essere] rimosse»?

 

L'accusa di Elena Bianchini Braglia

 

A Castelvetro di Modena l’8 agosto 1811 nasce Enrico Cialdini, passato alla storia come grande generale e padre della patria. Con l’assedio di Gaeta che chiude la storia del Regno delle Due Sicilie, diventa famoso e ottiene il titolo di duca. Ma in realtà a Gaeta, come anche poi nella repressione del brigantaggio, più che un prode ufficiale sembra un criminale di guerra. Ordina senza remore di bombardare abitazioni e ospedali, uccide civili e ammalati. Un testimone, Teodoro Salzillo, narra di «settantasei giorni di fuoco sì ostinato e micidiale che anche nei propri letti venivano uccisi i malati e i feriti». Poi aggiunge che per «questo fatto orribile (accaduto nel secolo che s’è detto del progresso)» Cialdini viene richiamato dal governatore. Per giustificarsi non trova di meglio da dire che «le palle dei miei cannoni non hanno occhi». E il Salzillo ritiene che questa «tremenda risposta!» porterà «eterna vergogna a chi osò pronunciarla!».
Quando gli assediati decidono di arrendersi, il 13 febbraio 1861, Cialdini continua a bombardare. A trattative avviate il fuoco è anzi più intenso, perché, spiega a Cavour, «sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi». Addirittura a capitolazione firmata ordina di colpire la polveriera del Transilvania, dove muore il sedicenne Carlo Giordano.
Il risentimento del popolo del Sud non muore certo sugli spalti di Gaeta: nei mesi successivi trova espressione nel fenomeno della resistenza per bande. E anche qui Cialdini mostra una brutale ferocia. Ordina persecuzioni, arresti in massa, esecuzioni sommarie. Distrugge casolari, masserie e centri abitati. Non uccide solo i briganti, ma anche tutti quelli che crede possano averli in qualche modo aiutati. E la categoria dei sospettati s’allarga all’inverosimile. Il 3 gennaio 1862 a Castellamare del Golfo, 7 persone vengono fucilate: tra queste ci sono tre donne, un sacerdote, un anziano. E c'è anche la più giovane martire della "libertà che nega se stessa": una bambina di nove anni, Angela Romano.
Infine, i tristemente noti eccidi di Casalduni e Pontelandolfo. Dopo che una colonna di piemontesi viene attaccata e 40 carabinieri vengono trucidati da una folla esasperata, Cialdini ordina di distruggere tutto, di non lasciare che resti «pietra su pietra». Ricorda il bersagliere Carlo Margolfo: «Entrammo nel paese. Subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, e infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4500 abitanti. Quale desolazione! Non si poteva stare dintorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti!».
Migliaia di persone arrostite, un paese di 4500 abitanti sacrificato per quaranta carabinieri uccisi… Ecco l’eredità di Cialdini: con le sue rappresaglie ha anticipato le più feroci dittature, ha fatto da maestro ai nazisti. E l’allievo, si noti, non ha in questo caso superato il maestro: Enrico Cialdini, nella sua crudele grandezza, è rimasto solo, e di rappresaglie uno a cento, fortunatamente, la storia non ne ha più dovute vedere.

 

La difesa di Paolo Rodolfo Carraro

 

Impresa sempre ardua è giudicare i personaggi storici, in specie quando è trascorso molto tempo dalla loro opera. Cialdini era un soldato che si impegnò quasi sempre in prima linea nelle battaglie che combatté, con valore e senza timore della morte. Ebbe pure un carattere decisionista che lo portava a voler risolvere celermente le campagne e gli assedi che si trovò a dirigere.
Per le contestazioni mosse a lui relative alla campagna contro il Regno delle Due Sicilie dobbiamo considerare che il preliminare di quel conflitto, cioè una dichiarazione dello stato di guerra da Torino a Napoli, non ci fu, e si trovò a condurre operazioni che secondo le leggi e le consuetudini internazionali non erano legittime. Ne deriverebbe quindi una censura, ma ai vertici dello Stato, non ai militari.
Da qui le prime critiche: l'assedio ad Ancona contro le truppe pontificie e quello di Gaeta, contro i Borbonici. Dai documenti degli archivi risulta che il governo Cavour lo tempestava di dispacci intimanti la conclusione veloce degli assedi (a loro volta ispirati da Napoleone III che sapeva quanto quelle operazioni potessero influire sull'opinione pubblica internazionale). Oggettivamente ogni altro comandante non si sarebbe potuto comportare diversamente. La questione della repressione del brigantaggio è comunque la pietra che più pesa sul giudizio che si dà al Cialdini.
Chi ha potuto esaminare i documenti dell'archivio storico militare ha affermato che in quella vicenda, come del resto in tutte le guerre civili – perché di guerra civile si trattò – nessuna delle parti in lotta lesinò ogni genere di nefandezza. In questo tipo di guerra, dove i soldati vengono attaccati a tradimento, trucidati e mutilati, è normale che la reazione sia la rappresaglia. Fu sempre così in ogni epoca e in ogni luogo. Per evitare ciò non andrebbe fatta la guerra. Punto! Ma, come abbiamo scritto, il conflitto era iniziato in modo irregolare, e il governo doveva risolverlo in fretta per questioni di relazioni internazionali: la pietra che rotolava aveva creato la frana. Non dimentichiamo pure che quei fatti che durarono un decennio non videro contrapposti i Settentrionali ai Meridionali, ma gli unitari (che comprendevano i proprietari terrieri del Sud e le bande armate da loro finanziate) agli indipendentisti (che annoveravano tra le loro file pure i briganti veri e propri), per cui parecchie azioni di repressione furono effettuate dalla classe dominante al potere nel Sud con l'appoggio dell'esercito del Nord.
Era una società dove chi prendeva le decisioni era un 2-3% della popolazione, così come in tutta Europa. La repressione venne criticata sia nel Parlamento italiano che in Europa, ma la stragrande maggioranza di chi deteneva potere e possibilità di influire sulla pubblica opinione non protestò perché la repressione armata delle rivolte faceva comodo a tutti. Non possiamo quindi, a nostro parere, caricare la figura del Cialdini di responsabilità che erano al di sopra di lui, mero esecutore degli ordini del suo governo.

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«Il volto del nemico»: il dramma della guerra civile nel Modenese

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 giugno 2013)

Il volto del nemico, documentato e corposo volume che Giovanni Fantozzi ha da poco dato alle stampe, è un libro allo stesso tempo prezioso e coraggioso. Prezioso poiché, per quanto attiene al contesto modenese, mancava una ricostruzione così precisa e dettagliata dell'universo fascista repubblicano, uno studio scevro da pregiudizi incentrato sui protagonisti delle drammatiche vicende della guerra civile. Coraggioso per il semplice motivo che dare un volto a un nemico che certa storiografia filo-resistenziale ha da sempre inteso disumanizzare, raccontare quindi storie di uomini, senza pagare dazio alle strumentalizzazioni ideologiche, rappresenta ancora oggi, a 70 anni dalla fondazione della RSI, operazione molto rischiosa. Basti pensare, senza voler scomodare Giampaolo Pansa, alle recenti polemiche seguite alla pubblicazione di Partigia, il libro nel quale Sergio Luzzatto (docente universitario cui certamente non sono attribuibili sentimenti nostalgici) ripercorre le vicende della banda partigiana di Primo Levi, soffermandosi in particolare su una sentenza di morte da essa emanata contro due suoi membri che si erano resi, col loro comportamento, incompatibili con le leggi della guerriglia partigiana.
Fantozzi illustra con chiarezza le ragioni che stanno alla base del suo lavoro: «Non è [...] possibile ricomporre nella sua unità e completezza il periodo '43-'45 senza dare un volto né compiacente, né assolutorio, ma realistico e non caricaturale anche al "nemico" fascista, a quanti nel modenese seguirono volontariamente Mussolini nella sua ultima avventura, e ai tanti, non necessariamente fascisti, che per le più svariate circostanze e motivazioni si trovarono a svolgere un ruolo nelle istituzioni della Repubblica sociale italiana».
In concreto, dare un volto al nemico sconfitto significa studiare il fascismo di Salò senza pretendere di relegarlo entro i confini del mero collaborazionismo con i tedeschi. La RSI, infatti, pur tenendo conto delle ingerenze naziste, riuscì «a funzionare come stato nelle sue varie articolazioni centrali e periferiche», fornendo assistenza (tramite appositi enti comunali o di partito) a bisognosi, sinistrati e sfollati e garantendo, nei limiti del possibile, la sopravvivenza dei servizi di base. Coloro che per i più svariati motivi vi aderirono – spesso frettolosamente etichettati come oltranzisti – tentarono altresì «di darsi delle fondamenta politiche e programmatiche nuove e originali rispetto al ventennio», progettando di riportare alle origini sansepolcriste un fascismo che, essi credevano, durante il regime era stato irrimediabilmente corrotto dal capitalismo borghese. Non a caso, infatti, cardine della politica economica del PFR divenne il decreto sulla socializzazione del 12 febbraio 1944, che (almeno sulla carta, viste le difficoltà di attuazione dovute all'emergenza bellica) prevedeva «il diretto coinvolgimento delle maestranze nella gestione delle aziende, su un piano di sostanziale parità con i proprietari, e la partecipazione dei lavoratori agli utili». Ed è proprio per questa volontà di rompere con il passato che l'interpretazione – peraltro difficilmente contestabile sul piano militare – secondo la quale la Repubblica Sociale altro non fu che uno Stato satellite della Germania, se non integrata da un'attenta riflessione sulla politica della RSI, rischia di risultare parziale e, in definitiva, fuorviante.
A parere di Fantozzi lo stesso ragionamento è valido anche per il personale che ebbe incarichi nella Repubblica Sociale, che «non può essere ricompreso nella rappresentazione totalizzante del "collaborazionismo" e del "nazifascismo"», dal momento che «a sorprendere è anzi l'accentuata eterogeneità della geografia umana di Salò», la quale, di fatto, poté compattarsi solo nell'obbedienza a Mussolini. Ne consegue che «una biografia della RSI e delle sue varie anime è impossibile senza ricostruire per sommi capi i profili dei suoi personaggi», schematicamente riconducibili alle tre categorie dei "moderati" (ovvero coloro che, contrari all'armistizio "disonorevole", operarono nelle istituzioni al fine di garantire la continuità dello Stato e, possibilmente, risparmiare agli italiani la prevedibile vendetta dei tedeschi), degli "intransigenti" (determinati a portare a compimento un'integrale fascistizzazione dello Stato) e dei "fascisti rossi" (fautori della socializzazione, non pregiudizialmente ostili al dialogo con le forze antifasciste di sinistra).
Delineando dettagliati profili di reggenti del PFR, comandanti di formazioni militarizzate, capi Provincia, questori, giornalisti, podestà e commissari prefettizi, Fantozzi ricostruisce quindi le molteplici e contraddittorie anime del fascismo repubblicano, soffermandosi sia sui rapporti che intercorsero tra gli uomini di Salò e il CLN, sia sulle precarie condizioni degli amministratori locali, i quali, «tra il martello delle autorità fasciste e naziste e l'incudine delle forze partigiane che chiedono [...] di sabotare gli ordini ricevuti», spesso assolsero il loro compito spinti «da genuino spirito di servizio alla collettività in un momento drammatico».
La situazione era, in effetti, alquanto complicata. Per quanto Modena, nel suo complesso, potesse essere considerata una provincia apatica, incline ad adattarsi, dopo l'8 settembre, al nuovo ordine, la coscrizione obbligatoria voluta da Mussolini per lavare l'onta dell'armistizio di fatto costrinse migliaia di persone a maturare, contro voglia, «una scelta di campo». Le diserzioni – pur tenuto conto dei lusinghieri risultati della leva in conseguenza del bando Graziani, nonché del «rilevante e spontaneo afflusso di volontari nella miriade di corpi armati della RSI e nelle SS italiane» – specialmente in montagna coincisero con la formazione dei primi nuclei partigiani e l'inizio della lotta armata. In seno al CLN, rileva Fantozzi, «si evidenziano subito due strategie marcatamente diverse» circa gli obiettivi e le modalità di conduzione dello scontro con i nazifascisti. I cattolici, e più in generale i moderati, rifuggivano dalla logica secondo la quale la guerra di liberazione doveva necessariamente sfociare in una lotta fratricida: da parte loro era perciò «netto il rifiuto di fare ricorso ad attentati individuali ed eliminazioni sommarie», considerati inutili ed eticamente inconcepibili. Al contrario, i comunisti ritenevano di avere tutto da guadagnare dal radicalizzarsi della guerra civile, convinti che «il terribile corollario di ritorsioni e rappresaglie derivanti dall'esasperazione dello scontro» con i fascisti avrebbe «costretto il popolo italiano a schierarsi», creando i presupposti per futuri sbocchi rivoluzionari al termine del conflitto. Ispirati dal modello stalinista, i "banditi" del PCI furono responsabili anche di sanguinosi regolamenti di conti interni alla stessa Resistenza, motivati dalla volontà di esercitare un pieno controllo sul movimento partigiano (esemplare in tal senso fu l'uccisione, nel sonno, del comandante Giovanni Rossi, reo di non aver voluto cedere ai comunisti il controllo della sua formazione). 
Ma la guerriglia partigiana non fu guidata esclusivamente da motivazioni ideologiche. Soprattutto in montagna, un fenomeno che conobbe rapida e vasta diffusione fu infatti quello del ribellismo, in cui confluivano «vaghi ideali libertari e anarcoidi, spirito campanilistico e spiccata inclinazione al furto e alla rapina». Le autorità fasciste, ovviamente, sfruttarono a scopo propagandistico l'associazione partigiano-bandito, soprattutto là dove occorreva giustificare feroci rappresaglie. La strage nazista di Monchio, ad esempio, che il 18 marzo 1944 costò la vita a 131 civili, fu presentata dalla stampa di regime come «una riuscita operazione di rastrellamento» in cui erano caduti «300 ribelli».
Più in generale, la spirale d'odio e di violenza in cui cadde la provincia in concomitanza con il progressivo sfaldamento delle forze di Salò favorì la repentina trasformazione del Modenese da territorio fascistizzato «a punta di lancia del movimento partigiano». Dall'esperienza della Repubblica di Montefiorino – che segnò «la definitiva eclissi dei fascisti dalla montagna modenese» – fino al dilagare di attentati gappisti in una pianura rimasta inizialmente pressoché indenne, tutti gli indizi lasciavano chiaramente intendere quale sarebbe stato l'epilogo di uno scontro «fatto di torture, tradimenti, delazioni, prelevamenti notturni, soppressione di spie e rappresaglie». Un epilogo che, a Liberazione avvenuta, travolse anche molte persone innocenti (pretestuosamente eliminate a causa di presunte connivenze col regime, ma in realtà vittime dell'odio politico e di classe); e che, a dispetto dei tentativi di buona parte della storiografia di «"spiegare" questo stillicidio di morti come uno spontaneo moto di vendetta popolare», oggi è bene mettere in discussione, se non altro perché – rileva Fantozzi – occorre riflettere sul motivo per il quale «gli autori degli omicidi risultano esclusivamente, o quasi esclusivamente, comunisti».

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lunedì 10 giugno 2013

Bombacci, un «Kaiser» a Modena tra Lenin e Mussolini: il rivoluzionario romagnolo che si illuse di socializzare il fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 febbraio 2013)
 
Dal giorno in cui fu giustiziato per ordine del CLNAI quale «supertraditore», di Nicola Bombacci si è scritto poco. Personaggio scomodo tanto per i fascisti quanto per il PCI, fu pressoché ignorato dalla storiografia del dopoguerra, di certo ben poco incline a perdonargli l'adesione alla Repubblica Sociale dopo anni di militanza socialista e comunista. Ancora oggi, a quasi 70 anni dalla morte, della sua vicenda umana i libri di storia, nel loro complesso, si occupano con una certa reticenza. Pochi infine ricordano che proprio a Modena Bombacci ottenne i primi significativi successi della sua lunga carriera politica. Chi era quindi Nicola Bombacci? E quali ideali aveva «supertradito»?
Nicola Bombacci nacque a Civitella di Romagna il 24 ottobre 1879. Nel 1904, un anno dopo essersi iscritto al PSI, conseguì il diploma magistrale e ottenne immediatamente alcuni incarichi. Lavorò come maestro fino al 1909, quando decise di accettare la proposta del  partito di dirigere la Camera del lavoro di Piacenza.
Fu quello l'inizio di una carriera politica che in breve lo portò a Modena, dove fu chiamato nel 1911 alla guida della CdL. Nel capoluogo emiliano Bombacci si segnalò subito per determinazione. I contatti con Mussolini e lo shock della guerra di Libia avevano del resto fatto sorgere in lui la convinzione che i compromessi riformisti con la borghesia avrebbero a lungo andare paralizzato il partito. Fedele alla linea rivoluzionaria, Bombacci ottenne a Modena alcuni importanti successi. Ricostituì, assumendone la carica di segretario, la Federazione provinciale socialista (che mancava, in pratica, dalla crisi di fine secolo); riuscì a fondere le CdL di Modena e Carpi, ricevendo la nomina di direttore della CdL Unitaria di Modena e Provincia; assunse infine la direzione de «Il Domani» – il periodico socialista della sezione modenese –, che rese molto più aggressivo e intransigente. La propaganda rivoluzionaria del suo giornale, non di rado violenta e duramente anticlericale, unita ai numerosi comizi che era solito tenere in ogni angolo della provincia, gli valse l'appellativo, coniato da Mussolini, di «Kaiser di Modena».
Una svolta decisiva per la carriera di Bombacci fu la Prima guerra mondiale. Convinto neutralista, presto si persuase che il conflitto potesse costituire un'occasione da sfruttare per estendere la lotta di classe secondo una prospettiva europea. In breve tempo subì pure il fascino di Lenin, di cui del resto condivideva in pieno la linea intransigente. E quest'ultimo, ricevuta notizia del consenso popolare di cui godeva l'azione politica dell'agitatore romagnolo (che nel Modenese andava organizzando manifestazioni antimilitariste dalla vasta eco), volle fare di Bombacci il referente principale del PSI a Mosca.
Bombacci era infatti divenuto, nel frattempo, uno dei personaggi più in vista del partito. Aveva abbandonato Modena nel luglio del 1917 dopo essere stato nominato membro permanente della direzione del PSI, iniziando una rapida scalata che l'avrebbe portato al seggio da deputato e, nel 1919, alla segreteria.
La sua sintonia con il leader bolscevico portò però di lì a poco il PSI alla rottura. Le 21 condizioni di adesione al Comintern prevedevano infatti di espellere i riformisti e mutare il nome del partito in Partito comunista. Bombacci, insieme con Bordiga e Gramsci, si assunse così la responsabilità della scissione, da cui nacque nel '21 il Partito comunista d'Italia.
Il Bombacci in versione comunista avvertiva tuttavia di essere l'uomo di Mosca molto più di quanto si sentisse leader del PCd'I. Di fronte alla minaccia fascista, la linea settaria imposta dai «dottor sottile» del partito equivaleva infatti, a suo giudizio, a un suicidio politico. Delle sue perplessità mise al corrente persino Zinov'ev (presidente del Comintern), cui inviò una lettera che, in Italia, decretò di fatto il suo distacco dal PCd'I.
In realtà il sogno che Bombacci intendeva realizzare era avvicinare le due rivoluzioni – bolscevica e fascista –, e almeno fino al delitto Matteotti la sua proposta fu presa in considerazione tanto da Mussolini quanto dai russi. In ballo c'era un accordo commerciale tra Italia e URSS, nonché la volontà del governo fascista di offrire alla Repubblica dei soviet il riconoscimento de iure. Ebbene il prescelto dai russi per condurre le trattative con Roma fu proprio Bombacci, il quale portò a termine il compito affidatogli e in un appassionato discorso alla Camera propose, scandalizzando i compagni, «una definitiva alleanza fra i due paesi».
Riguardo agli anni compresi tra 1924 e 1930 di Bombacci si conosce poco. Progressivamente emarginato dal partito fino alla definitiva espulsione nel 1927, l'ex Kaiser di Modena continuò a godere ancora per qualche anno dell'appoggio sovietico, svolgendo in particolare opera di mediazione per favorire gli scambi commerciali italo-russi. A differenza di molti suoi compagni «sovversivi», il suo rapporto col duce gli risparmiò inoltre la repressione fascista. Fu la crisi di potere in Russia a turbare gli equilibri: morto Lenin nel 1924, Stalin riuscì a imporsi nel partito spazzando via l'opposizione. Di questa facevano parte anche Zinov'ev e Kamenev (che era stato ambasciatore russo a Roma), i due più influenti sostenitori di Bombacci, che furono eliminati con le purghe degli anni '30. A Bombacci non rimaneva ormai che Mussolini.
Il suo avvicinamento al fascismo fu graduale. L'amicizia col duce ebbe il suo peso, ma non fu certo l'unica ragione della «conversione» di Bombacci. Fu casomai la politica corporativa, unita alle importanti realizzazioni sociali del regime, a convincere il tribuno romagnolo che l'unione delle due rivoluzioni fosse possibile.
Mussolini non consentì a Bombacci di iscriversi al Partito fascista, ma gli permise comunque di pubblicare una rivista dal titolo eloquente: «La Verità». Inutile dire che i fascisti più intransigenti non approvarono. Starace, il segretario del partito, andò su tutte le furie, ma dovette rassegnarsi.
La guerra convertì Bombacci a una sorta di socialismo patriottico, fortemente avverso al bolscevismo sovietico in versione stalinista. A questa linea rimase fedele anche durante l'esperienza della Repubblica Sociale, cui aderì senza indugio.
Il vecchio Kaiser di Modena volle seguire il duce anche nella sua ultima avventura. Il Mussolini di Salò, del resto, viveva oramai immerso nei ricordi e con Bombacci, dopo il tradimento della borghesia, vaneggiava nell'illusione di un improbabile ritorno alle origini, progettando di socializzare il fascismo, o ciò che di esso era rimasto.
Tali propositi si concretizzarono in due importanti iniziative, per le quali il duce si avvalse della collaborazione di Bombacci: il manifesto programmatico di Verona e la promulgazione, nel febbraio del 1944, della legge sulla socializzazione.  Il senso della riforma era espresso da una «Relazione» che accompagnava il decreto legislativo, illustrandone «tre fondamentali direttive»: «la possibilità di sostituire la proprietà pubblica alla proprietà privata del capitale in tutte quelle imprese che trascendono l'ambito privatistico; l'immissione del lavoro nella gestione delle imprese […]; la limitazione degli utili del capitale e la partecipazione dei lavoratori agli utili stessi».
Nell'attuazione di questo progetto rivoluzionario Bombacci agì da eminenza grigia del governo repubblicano. Egli era ormai il consigliere di Mussolini, e di Mussolini condivideva le illusioni. Ma a causa delle difficoltà contingenti della guerra, oltre che per il successo della propaganda comunista volta al boicottaggio delle elezioni dei rappresentanti operai nelle imprese, la socializzazione era destinata a fallire. Essa rimase però, come rilevato da Giorgio Bocca, «pura volontà testamentaria», un ultimo disperato atto compiuto per lasciare traccia di una innovativa stagione politica.
Bombacci difese il suo progetto sino all'ultimo, programmando di concerto con Mussolini persino una operazione «ponte», ovvero la consegna al PSI, a guerra conclusa, di un’Italia socializzata. Sul finire del '44 ottenne dal duce il permesso di tenere comizi nelle principali città del nord Italia. L'ultimo, che ebbe grande successo, fu a Genova il 15 marzo 1945. Davanti a una folla enorme, il tribuno romagnolo elogiò l'operato del governo di Salò e concluse affermando che la RSI fosse «l'unico Stato autenticamente socialista con la sola possibile eccezione della Russia sovietica».
Poco più di un mese dopo, mentre tentava la fuga al seguito dei gerarchi, fu catturato dai partigiani presso Dongo e fucilato. Con l'amico Mussolini aveva condiviso anni di travagliate passioni politiche. Condivise pure la macabra esperienza di Piazzale Loreto, con l'oltraggio al cadavere e un'accusa, quella di «supertraditore» della causa socialista, che non avrebbe mai pensato di meritare.

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Cesare d'Este, il duca che perse Ferrara e si accontentò di Modena come nuova capitale

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 febbraio 2013)
 
«Se fosse vero ciò che della forza delle stelle hanno scritto in altri tempi gli strologi, bisognerebbe certo dire che questo principe fosse nato sotto una ben infausta costellazione: tante furono le traversie che ne' primi anni del suo governo si affollarono contro di lui».
Per molti dei suoi lettori, queste considerazioni di Ludovico Antonio Muratori hanno a lungo sottinteso una convinzione ben radicata: Cesare d'Este, il duca che dovette cedere Ferrara a Clemente VIII nel 1598, fu un sovrano arrendevole, un Don Abbondio ante litteram costretto, lui «vaso di coccio», a viaggiare tra due grossi «vasi di ferro», il papa e l'imperatore del Sacro Romano Impero. In realtà, a dispetto della fama di inetto che ha a lungo accompagnato la memoria del primo duca di Modena capitale, il Muratori intendeva forse concedere qualche attenuante a Cesare, offrendo il destro a quanti oggi ne rivalutano l'operato.
Le «traversie» cui alludeva il Muratori erano legate alla nascita del futuro duca. Cesare infatti apparteneva a una linea di discendenza «infetta», essendo figlio di Alfonso di Montecchio, a sua volta nato di contrabbando da una relazione tra il duca Alfonso I e Laura Dianti. In altre parole, Cesare non possedeva perfetti requisiti per ascendere al potere: se la scelta cadde infine sul suo nome fu perché il duca Alfonso II – figlio di Ercole II, successore di Alfonso I – nel 1597 morì senza eredi legittimi.
Pur essendo stato designato erede dallo stesso Alfonso II, Cesare entrò subito in contrasto col pontefice, che rifiutava di riconoscere la successione. Il ducato che egli rivendicava era infatti il risultato di una composita concessione feudale: Modena, Reggio e Carpi erano assegnate dall'imperatore; Ferrara dal papa. Ma se Rodolfo II non si oppose alla nomina di Cesare quale duca di casa d'Este, Clemente VIII intimò a quest'ultimo di abbandonare Ferrara – città di cui gli Estensi detenevano l'investitura papale sin dal 1332 – e, di fronte alla resistenza di Cesare, radunò 20.000 fanti presso Faenza. A tale perentorio monito seguì, il 23 dicembre 1597, la scomunica del duca d'Este, segno inequivocabile che il papa non intendeva rinunciare ai suoi diritti (una bolla emanata nel 1567 da Pio V stabiliva in effetti che i figli illegittimi non potessero vantare diritti di successione nei feudi ecclesiastici).
Immediatamente a Cesare venne meno il sostegno delle potenze europee, mentre il popolo, immiserito dalla politica vessatoria a base di tasse del defunto Alfonso II, pareva sul punto di voltargli le spalle. Messo alle strette, Cesare giocò allora la carta della diplomazia, anche perché la sua profonda religiosità gli impediva di affrontare il papa alla stregua di un nemico. Inviò pertanto Lucrezia d'Este, sorella di Alfonso II, a trattare col cardinal Aldobrandini, che si trovava a Faenza a capo delle truppe pontificie. La scelta della cugina per tentare una conciliazione col papa fu, secondo alcuni, del tutto controproducente, dal momento che tra Lucrezia e il duca non correva buon sangue. Ma al di là di ogni possibile congettura, resta il fatto che i margini di trattativa erano ridotti. Lucrezia dovette perciò prendere atto della volontà di Clemente VIII di avocare Ferrara alla Santa Sede e il 12 gennaio 1598 concluse un accordo – noto come Convenzione faentina – che sacrificava sì la capitale, ma quantomeno garantiva la sopravvivenza dello Stato estense.
Il 30 gennaio il duca – cui nel frattempo era stata revocata la scomunica e confermata l'investitura imperiale – faceva il suo ingresso a Modena, accolto dal popolo in festa. La scelta della nuova capitale non era stata casuale: Modena aveva beneficiato sotto Ercole II di un allargamento del perimetro della cinta muraria e, trovandosi a ridosso del confine con lo Stato pontificio, era poco distante da Ferrara, che gli Estensi non si rassegnarono mai a considerare definitivamente perduta.
Divenuta capitale, con conseguente incremento demografico, Modena subì diversi interventi urbanistici. Di questi, per volontà di Cesare, la maggior parte riguardò la costruzione di edifici religiosi, come la chiesa di S. Bartolomeo, il convento di S. Orsola e il tempio di S. Vincenzo. La fede del duca non era del resto un mistero per nessuno. Basti pensare che, all'indomani della Devoluzione di Ferrara, Cesare aveva deciso di recarsi a Rimini per rendere omaggio al pontefice, ricevendo in cambio, a suggello della ritrovata concordia, la porpora cardinalizia per il fratello Alessandro.
Più in generale, in politica estera Cesare si mosse con cautela, anche perché la perdita di Ferrara, cui era seguita nel 1601 quella dei possedimenti francesi di casa d'Este (rivendicati per sé con successo da Anna d'Este, figlia di Renata di Francia e del duca Ercole II), suggeriva una certa prudenza. Per recuperare credibilità internazionale e dare lustro alla sua casata, il duca riallacciò i contatti con la Spagna – all'epoca potenza egemone nella penisola italiana – e, secondo la logica delle alleanze matrimoniali, ottenne per il proprio figlio Alessandro la mano di Isabella di Savoia, figlia del duca Carlo Emanuele I.
In trent'anni di governo Cesare dovette impugnare le armi solo per sventare due tentativi dei Lucchesi di occupare la Garfagnana. Il primo, nel 1602, si risolse in un nulla di fatto; il secondo, nel 1613, richiese invece un maggiore dispiegamento di forze. All'origine dello scontro vi fu la guerra scoppiata tra i Savoia e i Gonzaga – appoggiati dalla Spagna – per la successione nel Monferrato. In quell'occasione Cesare negò alle truppe di Cosimo II de' Medici il permesso di attraversare la Garfagnana per accorrere in aiuto dei Mantovani, finché il governatore spagnolo di Milano non gli ordinò di desistere. Tuttavia, mentre i soldati di Cesare erano impegnati a controllare che gli uomini di Cosimo attraversassero senza incidenti il territorio estense, i Lucchesi ne approfittarono per invadere nuovamente la Garfagnana. Per tutta risposta Cesare inviò un forte esercito – guidato dai figli Alfonso e Luigi – ad assediare Castiglione, e avrebbe quasi certamente fiaccato la resistenza del nemico se non fosse intervenuto un rappresentante del governatore spagnolo giunto direttamente da Milano per porre fine alle ostilità. La pace che seguì impose a Lucca di ritirare le proprie truppe dal territorio estense, ma il mancato successo militare compromise ulteriormente la reputazione di Cesare, che da quel momento divenne bersaglio della pungente ironia di Alessandro Tassoni. Molti dei giudizi severi sull'operato del primo duca di Modena capitale sono la conseguenza del disprezzo che l'autore de La secchia rapita nutriva nei confronti del suo sovrano.
In realtà l'immagine di un Cesare costantemente titubante è discutibile, se non altro per il cinismo di cui diede prova nell'affrontare una spinosa questione di politica interna riguardante il signore di Sassuolo, Marco Pio. Questi, che pur essendo feudatario degli Estensi progettava di affrancarsi da Cesare, si fece riconoscere dall'imperatore il titolo di principe di Sassuolo, irritando il duca per quello che fu ritenuto un grave atto «di ribellione e di fellonia». L'affronto non rimase però impunito: la sera del 19 novembre 1599, uscito dal castello ducale dopo aver preso parte a un ricevimento, Marco Pio fu raggiunto da quattro colpi di archibugio e, 18 giorni dopo, spirò. I sospetti sul mandante caddero inevitabilmente sulla corte – anche perché il principe di Sassuolo non aveva eredi –, ma gli assassini non furono trovati. Con abile mossa politica Cesare offrì una ricompensa a chiunque avesse fatto luce sull'omicidio, avviando nel frattempo con Enea Pio, zio di Marco, le trattative per la successione. La questione si risolse solo dieci anni dopo grazie alla mediazione di Carlo Emanuele I di Savoia, che riconobbe le ragioni duca d'Este: Cesare incamerò così Sassuolo, pagando al Pio un indennizzo di 215.000 scudi.  
Nel complesso, l'esperienza di governo di Cesare ebbe il merito di garantire al ducato estense un lungo periodo di pace, che consentì di rendere più efficiente l'amministrazione. Il duca, che nei primi anni delegò in buona parte il governo dello Stato ai ministri e al fratello cardinale, col tempo profuse un impegno crescente nella gestione politica, specialmente quando nell'ultima fase della sua vita fu affiancato dal figlio Alfonso. A questi Cesare lasciò il ducato dopo la morte, avvenuta l'11 dicembre 1628. Dalla Devoluzione di Ferrara erano trascorsi trent'anni, durante i quali Modena si era elevata al rango di capitale di uno Stato che, sorto tra mille «traversie», sarebbe rimasto in vita per 261 anni. Questa sola considerazione consente oggi di rivalutare la figura di Cesare, il quale, se non fu quel guerriero invitto agognato dal Tassoni, merita quantomeno maggiore indulgenza storiografica.

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Laura Martinozzi, una «lady di ferro» al governo del ducato estense

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 giugno 2013)
 
La morte prematura di Alfonso IV d'Este (che si spense il 16 luglio 1662, stroncato a soli 28 anni dalla gotta) lasciò le redini dello Stato estense nelle mani di Laura Martinozzi, moglie del defunto duca nonché nipote del cardinal Mazzarino. Nominata nel testamento del marito tutrice dei due figli Francesco e Maria Beatrice (rispettivamente di due e quattro anni), Laura era appena ventitreenne quando assunse la reggenza del ducato, compito gravoso soprattutto per la preoccupante situazione finanziaria. Le guerre di Francesco I, infatti, ma anche le ingenti somme stanziate da Alfonso IV per l'acquisto di opere d'arte, avevano a tal punto prosciugato le casse dello Stato da rendere inevitabili provvedimenti drastici di contenimento delle spese, tanto più che i crediti che la casa d'Este vantava nei confronti della Spagna erano tali ormai solo sulla carta.
Laura affrontò l'emergenza con risolutezza. «Donna virile, di cui grande era il senno, maggiore la pietà» – secondo il giudizio del Muratori –, ridusse all'osso le spese, improntando il governo dello Stato estense su basi di rigida austerità. Alla guida del ducato la reggente fu affiancata dal cardinale Rinaldo (fratello di Francesco I, che Alfonso IV aveva indicato nel testamento come colui che sarebbe stato «indirizzo, consiglio e guida» della moglie), dal principe Cesare (anch'egli fratello di Francesco I e comandante delle milizie ducali) e da due valenti ministri, il conte Girolamo Graziani e il giurista Bartolomeo Gatti. Ma, tra tutti i consiglieri, era di certo padre Garimberti (il confessore) ad influenzare maggiormente le decisioni della duchessa reggente: e «se si tien conto – ha scritto Luciano Chiappini – della religiosità di Laura, quali che fossero le sue più concrete manifestazioni, della potenza del Garimberti, cui praticamente facevano capo le risoluzioni più impegnative del governo, e della presenza di ecclesiastici in alcune cariche di primaria importanza, si ha un quadro significativo della "clericalizzazione" di quella Corte».
Ribattezzata rapidamente «duchessa padrona» per via del carattere autoritario, Laura pareva ossessionata dal proposito di arginare il dissesto morale del ducato. Per questo non solo bandì il lusso  dalla corte, ma fece chiudere molte osterie e inasprì le pene per il reato di ubriachezza, destando, per tali eccessi, qualche perplessità tra i suoi sudditi. Non stupisce quindi che per descrivere questa sua determinazione nel voler morigerare i costumi dei modenesi,  lo storico genealogista Pompeo Litta abbia scritto che la vedova di Alfonso «si fece conoscere per donna austera, piena di fuoco, ostinata e che disprezzava tutti».
Pure la delicata questione dell'ordine pubblico fu affrontata in maniera energica, con l'obiettivo di debellare il fenomeno – particolarmente recrudescente in quegli anni – del banditismo. Stando a Luigi Amorth, che a sua volta cita sempre il Litta, nel 1669 Laura, «per purgare lo stato di delinquenti o di turbolenti, fa una leva di un migliaio di tali signori, li pone al comando del conte Fontana e li invia ai Veneziani, impegnati nella lotta di Candia, perché vengano esposti "alle palle di cannone  dei Turchi"».  Quanto infine alle misure adottate nei confronti di alcuni esponenti inquieti e rissosi del ceto nobiliare, il comportamento della duchessa fu ancor più spregiudicato, come riferisce ancora il Litta: «Fece uccidere il conte Orazio Boschetti suo vassallo per essersi rivolto al Papa intorno alle sue ragioni pel feudo di San Cesareo, e così fece ammazzare il conte Odoardo Malvasia per attentato da lui e dai fratelli commesso in Cento contro un marchese Fontanelli, governatore del Finale».
Sovente la religiosità della duchessa – che non di rado tendeva a tramutarsi in autentico bigottismo – fu alla base di comportamenti che, con ogni probabilità, dovettero apparire discutibili anche ai suoi più stretti collaboratori. Quantomeno singolare fu, per esempio, la decisione di spendere l'enorme somma di 100.000 scudi romani (in barba alla politica del rigore!) per erigere un grandioso convento per le monache dell'Ordine della Visitazione. E non si trattò nemmeno di un'iniziativa isolata. In città, infatti, le chiese e i monasteri si moltiplicarono, mentre la chiesa di Sant'Agostino fu restaurata e trasformata – ha scritto Riccardo Rimondi – «in un santuario della grandezza e della nobiltà dinastiche» (anche se il progetto originario era di trasformarla in una sorta di pantheon degli Estensi che avrebbe dovuto ospitare le sepolture dei duchi). Il risultato fu che ogni giorno – stando a una cronaca del tempo – nelle strade di Modena divenne possibile assistere a tre o quattro funzioni religiose contemporaneamente.
Il fanatismo della Martinozzi fu all'origine anche di severi provvedimenti contro gli ebrei. Al riguardo, Ernesto Milano evoca addirittura il concetto di crociata, «con il consolidamento del ghetto di Modena e la fondazione di quello di Reggio, per altro tanto angusto che gli 885 israeliti della città vi si devono adattare "come le noci in un sacco". Le rigide disposizioni della Duchessa vietano agli ebrei di svolgere libere professioni, di ricoprire cariche pubbliche, di contrarre matrimoni con cristiani e di possedere beni immobili. Durante le processioni sono obbligati ad esporre i drappi alle finestre, ma non possono affacciarvisi. Devono inoltre portare, per un certo periodo, un nastro giallo sul cappello per essere riconosciuti a vista».
Una tale intransigenza,  che spesso sfociava in aggressività, non poté evidentemente esprimersi anche in politica estera, dal momento che le ridotte dimensioni e le limitate risorse del ducato non consentivano di coltivare progetti ambiziosi. Logico pertanto che Laura tentasse di mantenersi equidistante rispetto alle grandi potenze, prendendo semmai posizione solo per dirimere alcune piccole controversie di confine. Di un certo rilievo fu, ad ogni modo, l'acquisizione "pacifica" dei due feudi di San Felice sul Panaro (acquistato dai Pio nel 1669) e Gualtieri (già appartenuto ai Bentivoglio).
Il disegno della duchessa di preservare a tutti i costi la neutralità dello Stato estense si scontrò tuttavia, nel 1673, con la volontà di Luigi XIV di combinare  il  matrimonio tra la quindicenne Maria Beatrice (figlia di Laura) e l'erede al trono inglese Giacomo Stuart. A nulla valse la (peraltro timida) resistenza della Martinozzi:  il Re Sole voleva insediare nella corte di Londra una principessa cattolica, e la giovane di casa d'Este – di una dinastia, cioè, alleata della Francia – faceva proprio al caso suo. Anche papa Clemente X insistette, rendendo di fatto improponibile l'ipotesi di un clamoroso rifiuto. A Laura, di conseguenza, non restò  che cedere. E il 5 ottobre, accompagnata dal Garimberti e dal cognato Rinaldo, partì con la figlia alla volta di Londra.
L'assenza da Modena della duchessa si protrasse per sei mesi, durante i quali il legittimo erede di Alfonso IV, Francesco II, fu sapientemente avvicinato da alcuni uomini della corte che mal sopportavano il governo della Martinozzi. Tra essi, Luigi, Foresto e Cesare Ignazio – e in particolare proprio quest'ultimo, che, avendo frequentato la mondana Versailles, non condivideva il bigottismo di Laura e nutriva forti ambizioni personali –, appartenenti ad un ramo cadetto della casa d'Este, irretirono il futuro duca, convincendolo della necessità di sottrarsi alla tutela materna. Secondo Luigi Amorth, decisivi furono anche «il vecchio principe Cesare, fratello del duca Francesco I, toccato nel suo orgoglio per certi atteggiamenti troppo autoritari della Reggente, e il ministro Gatti, offeso perché il suo consiglio veniva sempre posposto a quello dell'onnipotente Garimberti». A queste pressioni il quattordicenne Francesco non seppe resistere, e si risolse ad assumere in prima persona il governo dello Stato. «Al ritorno della duchessa – ha scritto Rimondi – tutto era pronto. Grandi feste la accolsero e la sua carrozza fu scortata in duomo per il canto di un solenne Te Deum. Qui Laura notò però qualcosa di strano: due grandi padiglioni a ombrello erano stati posti sopra i troni suo e del figlio, ma quello di Francesco era più in alto, in segno di dominio».
Pur ferita nell'orgoglio, Laura non reagì e si rassegnò di fronte al volere del figlio. Nei due anni seguenti tentò di recuperare influenza sul duca, per cui nutriva sincero affetto, ma invano. Decise allora di lasciare Modena, «per trascorrere il resto della vita – precisa Chiappini – a Roma, a Bruxelles, ancora a Roma, non tralasciando di visitare piamente i santuari di Padova e di Loreto». Nella Città Eterna morì il 19 luglio 1687.

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mercoledì 5 giugno 2013

La guerra di Modena: lo scontro che permise ad Augusto di marciare su Roma

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 maggio 2013)
 
«All'età di diciannove anni, di mia iniziativa e a mie spese, misi insieme un esercito, grazie al quale liberai la repubblica dal dominio dei faziosi. Per ricompensarmi, il Senato, con decreti che mi rendono onore, mi cooptò nel suo ordine attribuendomi addirittura il diritto di parlare quando tocca a chi è già stato console; e inoltre mi riconobbe l'imperium, il comando militare. Questi decreti risalgono al consolato di Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa [43 a. C.]. Il Senato inoltre mi ordinò di provvedere all'emergenza in cui si trovava la repubblica collaborando coi consoli in carica e attribuendomi il rango di propretore. Nello stesso anno, essendo caduti in guerra entrambi i consoli, il popolo mi elesse console nonché "triumviro per la riforma dello Stato"».
Queste parole, qui proposte nella traduzione di Luciano Canfora, costituiscono l'esordio delle Res Gestae Divi Augusti, ovvero il testamento politico del figlio adottivo di Cesare. Si trattava di un documento, inciso ed esposto in varie città dell'Impero, redatto da Augusto stesso al fine di legittimare la propria opera imperiale, anche là dove – specie col reclutamento di un esercito privato – essa era stata palesemente illegale. A rendere lecito il ricorso a misure straordinarie era stata, secondo le Res Gestae, la necessità di liberare la repubblica «dal dominio dei faziosi», identificabili senza dubbio coi cesaricidi nella versione greca (destinata ai sudditi delle province orientali), ma difficilmente inquadrabili nel testo latino (letteralmente: «Rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi»).
A chi alludeva, dunque, Augusto utilizzando la parola «factio»? Difficile sostenere che si riferisse esplicitamente ai cesaricidi, visto il successivo accenno alle ricompense ricevute dal senato. Ma anche l'ipotesi di un collegamento «factio»-Marco Antonio non convince del tutto, se non altro per la presenza, nell'ultima frase, di una legittimazione del triumvirato. Canfora suggerisce pertanto che «factio» evocasse «la parte più faziosamente "repubblicana" e anticesariana del Senato», anche se, utilizzando quella parola, Augusto probabilmente volle «che l'espressione fosse passibile di varie interpretazioni, tutte possibili e tutte smentibili». In sostanza, l'autore delle Res Gestae esordisce in modo volutamente ambiguo, come a dire che tutti i contendenti di Augusto potevano, all'uopo, essere tacciati di faziosità.
Tacito, che scrisse col beneficio di una visione ex post, smascherò l'ingannevole linguaggio augusteo: «La simpatia mostrata per la pars pompeiana [cioè repubblicana] – scrisse infatti negli Annali (la traduzione è sempre di Canfora) – era stata soltanto simulazione». Per comprendere, però, fino in fondo queste parole è necessario fare un passo indietro.
Dopo l'assassinio di Cesare (idi di marzo, ossia 15 marzo, del 44 a. C.), i cesariani, superato l'iniziale sbandamento, riuscirono a riorganizzarsi, mentre i congiurati (tra cui figuravano, in primo piano, Marco Giunio Bruto, Caio Cassio Longino e Decimo Bruto) dimostrarono di non aver pianificato nulla al di là dell'omicidio. In un clima di forte incertezza, Marco Antonio (ex luogotenente di Cesare) riuscì a far ratificare dal senato un compromesso che prevedeva l'amnistia per i congiurati e, di contro, la convalida degli atti del defunto dittatore. Anche l'attribuzione delle province fu confermata, con l'assegnazione della Gallia Cisalpina a Decimo Bruto e della Macedonia a Marco Antonio.
L'obiettivo di quest'ultimo era evidentemente quello di raccogliere l'eredità di Cesare. Per questo sfruttò le esequie del dittatore per scatenare le ire del popolo contro i congiurati, col risultato che questi abbandonarono Roma per timore di rappresaglie. Ad intralciare la scalata al potere di Antonio comparve tuttavia la figura del futuro Augusto. Alla lettura del testamento di Cesare, infatti, si scoprì che il conquistatore delle Gallie aveva designato suo erede e figlio adottivo il giovane pronipote Caio Ottavio (la sorella di Cesare, Giulia, era sua nonna), che in quei giorni si trovava in Illiria. Appresa la notizia, Ottavio si precipitò a Roma, dove reclamò ufficialmente l'eredità e lasciò intendere chiaramente che avrebbe vendicato la morte del padre. In tal modo si attirò le simpatie dei cesariani, mentre il senato, manovrato da Cicerone, cominciò a scorgere in lui un potenziale antagonista di Antonio, di cui temeva lo strapotere.
Quest'ultimo nel frattempo, in scadenza di consolato, aveva fatto votare dai comizi un provvedimento (permutatio provinciarum) col quale, di fatto, si assegnava la Gallia Cisalpina e la Gallia Comata (strategiche per il controllo della penisola) al posto della Macedonia. Quando però egli si accinse a prendere possesso della Cisalpina, Decimo Bruto (governatore originariamente designato dallo stesso Cesare) si rifiutò di consegnargliela, rifugiandosi a Modena, che fu stretta d'assedio. Al senato non restò che inviare i due consoli del 43 a. C. (Irzio e Pansa) in soccorso di Decimo Bruto; ad essi, però, fu affiancato anche Ottavio, che guidava un'armata privata reclutata in Campania e a cui fu conferito un imperium propretorio. Secondo la versione accreditata dalla storiografia tradizionale, «vicino a Modena – si legge in un manuale universitario di storia romana tra i più diffusi – Antonio fu battuto e fu costretto a ritirarsi verso la [Gallia] Narbonese, dove contava di unire le sue forze a quelle di Lepido [futuro triumviro]. Irzio e Pansa morirono per le ferite riportate dallo scontro. Poiché entrambi i consoli erano scomparsi, Ottavio chiese al senato il consolato per sé e ricompense per i suoi soldati. Al rifiuto, non esitò a marciare su Roma».
Secondo Canfora – e qui conviene riprendere l'analisi di Tacito –, questa versione dei fatti è tuttavia un po' fuorviante. Innanzitutto è bene chiarire la decisione di Ottaviano di mettersi al servizio del senato, decisione di per sé singolare, dal momento che comportava uno scontro armato col luogotenente del padre adottivo. Scrive Canfora: «L'abilità di Ottaviano è consistita nello schierarsi lucidamente dalla parte di Cicerone [...] [per] acquisire un peso contrattuale che mai, altrimenti, Antonio gli avrebbe riconosciuto nella difficile partita della spartizione dell'eredità politica di Cesare. Per questo, nella ricostruzione "ufficiale" di quel suo esordio mette l'accento sull'aspetto eversivo [...] e lascia nel vago quale fosse la factio che con tale atto eversivo aveva dovuto abbattere».
Sottomettendosi al senato, Ottaviano accettava di mettere le sue truppe agli ordini di Irzio e Pansa. Questi erano, prosegue Canfora, i veri ostacoli nella scalata al potere, «giacché le "sue" [di Ottaviano] truppe difficilmente avrebbero potuto piantare i consoli (eventualmente vincitori) e tornare con Ottaviano». Ma con la morte di questi ultimi Ottaviano ebbe buon gioco a prendere possesso delle "sue" legioni e di quelle consolari. E con esse marciò su Roma, dove con Antonio e Lepido costituì il secondo triumvirato. Decimo Bruto, invece, abbandonato dai suoi soldati, fu ucciso mentre tentava di passare le Alpi orientali per congiungersi cogli altri cesaricidi.
Le morti in rapida successione di Irzio (in battaglia) e di Pansa (per le ferite riportate nel primo scontro con Antonio) paiono, in effetti, alquanto sospette. Addirittura, scrive Svetonio, dopo la morte di Pansa «il medico Glicone venne arrestato sotto l'imputazione di averne avvelenato la ferita». Quanto ad Irzio, sempre Svetonio, citando uno storico a noi non pervenuto di nome Aquilio Nigro, indica esplicitamente Ottaviano come assassino «nel pieno della mischia». Ipotesi cui la storiografia non ha dato grosso credito, ma che invece Canfora non intende scartare a priori. Certo è che, rimasto isolato, Cicerone dovette di colpo realizzare di essere stato raggirato proprio da colui che egli per primo si era illuso di poter sfruttare per sconfiggere Antonio. Il progetto di far scontrare a morte, a tutto vantaggio del senato, due coalizioni di cesariani era fallito con la morte di Irzio e Pansa. Ed è quantomeno curioso che nell'erroneo calcolo di Cicerone lo storico Ronald Syme abbia visto un'anticipazione del comportamento politico di Giolitti, che credette di poter utilizzare strumentalmente Mussolini in funzione antisocialista, ma che invece fu abilmente manovrato, proprio come l'Arpinate, dal giovane di cui aveva propiziato l'ascesa.

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