mercoledì 15 maggio 2013

Il «segreto brutto»: le vittime (scomode) della Resistenza e il caso di Rolando Rivi

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 maggio 2013)

Nelle prime pagine de Il secolo delle idee assassine Robert Conquest riporta una frase che «pare» – egli scrive – sia attribuibile al filosofo britannico Bertrand Russell: «Se fosse possibile dimostrare che con lo sterminio degli ebrei l'umanità potrebbe attingere alla felicità, non ci sarebbe nessuna ragione per non procedere alla loro eliminazione». Il senso di queste parole è piuttosto chiaro: per una giusta causa è possibile accettare anche il male, purché esso venga compiuto in nome di un interesse supremo e collettivo, cui è necessario subordinare i diritti dei singoli.
La questione di fondo, tuttavia, è decidere quale sia la «giusta causa». E con ciò non si pensi che il problema riguardi solo le ideologie totalitarie, anzi! Come comportarsi, infatti, quando una battaglia «giusta» (o quantomeno giudicata tale dal tribunale della storia) viene sfruttata per coprire, a mo' di scudo della memoria, crimini difficilmente riconducibili, col senno di poi, al bene comune? Di solito, la strada più sicura è anche la più semplice da percorrere: ed è quella del silenzio. Di fronte a certe pagine scomode del nostro passato, meglio non soffermarsi troppo.
Il caso recente riguardante l'ultimo libro di Sergio Luzzatto è del resto fin troppo eloquente. Stimato docente universitario, Luzzatto ha da poco dato alle stampe Partigia. Una storia della Resistenza, in cui ripercorre le vicende della banda «ribelle» di Primo Levi e getta luce su quello che lo stesso autore di Se questo è un uomo definì il «segreto brutto» della sua militanza partigiana: la fucilazione «col metodo sovietico» (ossia «improvvisamente, e senza che se ne accorgessero fino all'ultimo momento») di due giovani membri della banda, condannati sbrigativamente a morte in quanto sbandati che si erano resi, col loro comportamento, incompatibili con le leggi della guerriglia partigiana. Puntuali, pochi giorni dopo l'uscita del libro, gli anatemi di coloro che scorgono in esso una potenziale minaccia revisionista. Nessuno contesta la documentazione di cui si è servito Luzzatto: da un punto di vista storiografico, il libro è inattaccabile. Ma il problema è un altro. Ancora oggi, dopo quasi settant'anni, raccontare di un crimine compiuto dai partigiani è considerato, evidentemente, inutile, se non dannoso. Le parole di Gad Lerner, che su Repubblica ha stroncato il lavoro di Luzzatto, vanno in questa direzione. Egli argomenta infatti che Partigia «non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento». In sostanza, cui prodest?
Ora, a parte il fatto che è molto probabile che dell'episodio descritto da Luzzatto la maggioranza degli italiani non abbia mai sentito parlare, la domanda da fare non è «a chi giova?» – polemica che puzza decisamente di vecchio –, bensì «a chi reca danno?». Se il libro di Luzzatto è documentato e rigoroso, che problema c'è se non aggiunge nulla di nuovo? Quanti libri di storia hanno questo «difetto», ma non destano scalpore? In un paese che ha conquistato la democrazia attraverso una guerra civile, chi si sente erede morale di chi ha donato la vita per la «giusta causa» non ha bisogno di nascondere alcuna verità, ancorché talvolta scomoda.
Questa lunga premessa vuole rispondere in anticipo a chi dovesse obiettare che l'articolo di questa settimana – che tratta del martirio di Rolando Rivi – costituisce un cattivo esempio di revisionismo. Fermo restando che il caso Rivi è di stretta attualità per la decisione di papa Francesco di firmare il decreto di beatificazione, raccontare la storia di un seminarista ucciso da un gruppo di partigiani non significa certo fare opera di revisionismo (ammesso che questa parola abbia realmente senso, visto che, di per sé, ogni libro di storia può essere considerato revisionista). Valgano come ulteriore chiarimento le seguenti parole tratte sempre da Partigia di Luzzatto: «Insieme con la storia di un bene, l'impagabile bene della lotta contro il nazifascismo, [la guerra civile italiana] racconta la storia di un male insondabile, il male da cui nessun essere umano, nemmeno il migliore, può dirsi totalmente affrancato. Così, tra il bianco e il nero, numerose si rivelano qui le tonalità del grigio».
Proprio a queste tonalità grigie è riconducibile l'assassinio di Rolando Rivi. Egli nacque a San Valentino di Castellarano (Reggio Emilia) il 7 gennaio 1931, secondogenito di Roberto, contadino mezzadro, e Albertina Canovi. Le profonde convinzioni cristiane della famiglia, unite all'esempio del parroco di San Valentino, don Olinto Marzocchini, furono decisive nella formazione di Rolando, che all'età di 11 anni manifestò i primi segni della vocazione al sacerdozio.
Entrato in seminario a Marola nell'ottobre del 1942, il giovane  mostrò subito grande entusiasmo per il percorso di vita che aveva deciso di intraprendere, tanto che non svestiva mai l'abito talare, segno visibile del suo legame con Cristo. La sua permanenza a Marola fu tuttavia breve. Nel settembre del 1944, infatti, alcuni soldati tedeschi si acquartierarono nei locali del seminario, costringendo di fatto coloro che lo frequentavano a fare ritorno in famiglia. La vita di Rolando dopo il rientro a San Valentino è riassunta brevemente dal suo biografo, Emilio Bonicelli: «Ogni mattina la giornata iniziava con la Santa Messa, cui Rolando partecipava accompagnando i canti con l'armonium e aiutando nella liturgia. Nel pomeriggio tornava in chiesa per l'adorazione al Santissimo Sacramento e per i Vespri, poi il ragazzo si fermava per esercitarsi nel suono dell'armonium o per consultare qualche libro nella biblioteca di don Olinto. Intanto proseguiva il programma di studio con l'aiuto di un professore, sfollato a San Valentino per sfuggire ai bombardamenti in città».
Nel clima di odio della guerra civile, nel frattempo, era diventato sempre più pericoloso indossare l'abito talare. I comunisti della zona, del resto, non facevano mistero di voler «liberare l'umanità dal concetto di religione», ed erano passati ormai alle maniere forti. Lo stesso don Olinto aveva subito percosse. Ma Rolando, che considerava la veste un simbolo di appartenenza, all'abito talare non volle rinunciare. E pagò questa sua scelta con la vita.
La mattina del 10 aprile 1945, mentre studiava su un'altura vicino casa, il giovane seminarista fu prelevato da alcuni partigiani comunisti e condotto prigioniero in un casolare in località Piane di Monchio, frazione di Palagano. In uno scritto che ricostruisce quei drammatici avvenimenti, il padre Roberto ha così descritto la scoperta del rapimento: «Lo chiamai. Nessuna risposta. Assieme a sua mamma mi recai sul posto pensando si fosse addormentato, ma una triste sorpresa ci attendeva. I suoi libri erano sparpagliati per terra e su un foglio, staccato da un suo quaderno, vi erano scritte queste parole: "Non cercatelo. Viene un momento con noi. Partigiani"».
I sequestratori, appartenenti al battaglione Frittelli inquadrato nella divisione Modena Montagna, rinchiusero Rolando in una porcilaia e lo sottoposero a pesanti interrogatori. L'obiettivo era estorcergli la confessione di essere una spia dei nazisti; ma siccome egli non cedeva alle minacce, fu picchiato selvaggiamente e torturato. Alla fine, dopo averlo spogliato, in segno di spregio, dell'abito talare, il 13 aprile i partigiani – sono sempre parole di Roberto Rivi – «lo portarono in un boschetto che era poco distante dalla casa ove erano alloggiati. Il ragazzo quando ha visto la buca scavata [...] ha chiesto di poter fare una preghiera al suo papà e alla sua mamma. Si è inginocchiato sulla buca. In quell'istante lo hanno fulminato».
L'omicidio fu una punizione estranea ad ogni logica e regola della guerra di Resistenza. Lo stesso padre di Rolando, trovato il biglietto dei rapitori, fu rassicurato dal capo del servizio informazioni partigiano che, data la giovane età, al figlio non sarebbe stato torto un capello. Tuttavia il vero motivo dell'assassinio di Rolando non risiedeva nelle accuse – che le sentenze del dopoguerra stabilirono essere del tutto infondate – a lui rivolte, bensì nell'odio di classe. Vagando di paese in paese alla ricerca del figlio, chiedendo informazioni (pericolose) ai partigiani che incontrava lungo la via, Roberto Rivi ricevette infine una sconcertante confessione: «Ho anche saputo più tardi che una parte di questi partigiani non voleva arrivare a questo, ma un certo Corghi di Formigine ha risposto: "Domani un prete di meno"».
In sostanza Rolando aveva pagato poiché – si legge nella motivazione della sentenza di secondo grado contro i suoi assassini – «costituiva per l'elemento giovanile locale un esempio edificante di virtù civiche e cristiane che [...] doveva determinare un effetto di attrazione verso le ideologie religiose e politiche cristiane». Il che, per alcuni partigiani comunisti, era assolutamente inaccettabile.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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