martedì 28 maggio 2013

Castelnuovo Rangone. Storia di un piccolo borgo divenuto «moderno paese-modello»

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 maggio 2013)

Mercoledì 22 maggio, ore 20,30, presso la Sala delle Mura in via Conciliazione è stato presentato il volume Castelnuovo Rangone. Storia di un territorio antico, scritto a quattro mani da due appassionati studiosi di storia locale, Marco Gibellini e Gian Carlo Montanari.
Si tratta di una ricostruzione storica che Montanari definisce «un semplice punto di partenza» utile per inquadrare vicende e protagonisti di un passato indubbiamente affascinante, anche se non sempre facilmente ripercorribile. Il tutto corredato da un ricco e suggestivo apparato fotografico, a cura di Alessandro Mescoli.
Il libro è diviso in due parti. Nella prima – che in questa sede pare logico privilegiare – gli autori si concentrano sulla storia di Castelnuovo e del suo territorio, a partire dai primi abitati preistorici fino ai più recenti avvenimenti del secolo scorso; nella seconda sono invece proposti al lettore alcuni dati di particolare interesse, come l'elenco dei parroci e dei sindaci di Castelnuovo o alcune curiosità inerenti «significato e origine dei nomi di alcuni luoghi» della zona. Il volume si conclude con una rassegna di foto d'epoca (dal 1903 al 1952), affiancate da «opportune didascalie informative».
«La storia documentata» – si legge nel primo capitolo – inizia ad occuparsi di Castelnuovo nel 1025, precisamente in un atto di donazione redatto dal vescovo modenese Ingone, nel quale si faceva riferimento alla località di Castrum Novum (da porre, evidentemente, in relazione con Castrum Vetus, l'attuale Castelvetro), sulla riva destra del fiume Tiepido. Per quanto concerne, più in generale, l'epoca medievale – purtroppo solo parzialmente accessibile agli storici a causa della frammentarietà delle fonti –, occorre sottolineare che «una sola notizia abbiamo, di fine XII secolo, circa Castelnuovo: riguarda la sua chiesa, che nella Bolla di papa Lucio III del 1181 è detta appartenere al Capitolo di Modena». Seguirono lotte tra potenti famiglie, a partire dai Pico, che, vicari imperiali, «nel XIII secolo diventano padroni del Castello Nuovo», per arrivare agli Este, il cui esponente Obizzo II, «marchese ferrarese chiamato dalle tre famiglie modenesi dei Boschetti, dei Rangoni e dei Guidoni, diventa padrone dei destini del territorio in questione alla fine del 1288».
Tra rivolte (come quella che nel 1306 cacciò provvisoriamente gli Este da Modena) ed episodi singolari (su tutti, l'uccisione nei pressi di Castelnuovo di un legato papale – diretto ad Avignone – ad opera del leggendario "duca" Passerino, cui l'agguato fruttò la bellezza di 200.000 fiorini), passando attraverso la tragica epidemia di peste del 1348, Montanari passa rapidamente in rassegna gli avvenimenti del XIV secolo fino al 1391, quando «il marchese Alberto III d'Este [...] investì del territorio di Castelnuovo Jacopino IV Rangoni [...]. E così nacque Castelnuovo Rangone».
Tra gli eredi di Jacopino sorsero numerose dispute per la spartizione dei feudi nel Modenese: in questa sede basti ricordare che, dopo confuse vicende, «ai primi del XVI secolo sarà Sigismondo, figlio di Uguccione di Aldobrandino II [a sua volta figlio di Jacopino IV], a possedere Castelnuovo», località che, insieme con gli altri feudi dei Rangoni, era stata eretta in contea da Borso d'Este nel 1453.
Il Cinquecento fu un secolo di aspri contrasti. Per quanto concerne Modena, il duca Alfonso I d'Este fu scomunicato da papa Giulio II per non avere obbedito all'ordine di sospendere l'offensiva contro Venezia (nonostante le manovre contro la Serenissima fossero iniziate sotto l'egida della Lega di Cambrai, costituita dal pontefice), e perse provvisoriamente il ducato. In questo contesto, i Rangoni oscillarono «a seconda dei propri calcoli e interessi», finché il celebre Guido detto Piccolo, che fu tra i più tenaci oppositori degli Estensi, non ricevette da papa Leone X l'«ambito titolo di capitano delle truppe pontificie in Alta Italia». Quanto a Castelnuovo, in quegli anni «esso fu certo spesso base di partenza per spedizioni atte a pacificare la montagna rimasta fedele all'espulso duca d'Este».
Col ritorno di Alfonso al governo di Modena in seguito al Sacco di Roma del 1527, i Rangoni ottennero il perdono del duca: alla casa d'Este essi non avrebbero più voltato le spalle. Il che fu un bene, soprattutto perché, con la Devoluzione di Ferrara e il trasferimento della capitale a Modena (1598), conservare buoni rapporti con gli Estensi divenne, di fatto, una necessità.
Saldo nelle mani dei Rangoni (dei quali Montanari riporta precisi alberi genealogici), il feudo comprendente Castelnuovo risentì, nel corso del Seicento, di eventi che ebbero «riverberi non sempre positivi nel ducato». Dalle guerre garfagnine di inizio secolo (che lasciarono il segno sia per il continuo passaggio di truppe nelle terre dei Rangoni, sia per l'arruolamento forzato di molti giovani castelnovesi) alla tragica epidemia di peste del 1630-31 (che decimò la popolazione dell'intero Stato estense), il quadro pare alquanto desolante. Nel 1643 infine, mentre era in corso la guerra di Castro che opponeva Francesco I (insieme con Firenze e Venezia) a papa Urbano VIII, Castelnuovo fu occupata dalle truppe pontificie. Ed anche se il duca estense riuscì in breve a cacciare i soldati del papa, «certo i danni, prima dell'occupazione pontificia e poi delle truppe modenesi e venete [alleate di Francesco], furono pesanti per la povera gente di Castelnuovo».
Gli «anni agitati» non terminarono, ad ogni modo, con questo episodio. Il XVIII secolo si aprì, infatti, con una nuova occupazione militare da parte dei francesi, che nel 1702 piantarono «le tende in tutto il territorio modenese», costringendo il duca Rinaldo – che aveva tentato di mantenersi neutrale nel corso della cosiddetta guerra di successione spagnola – ad abbandonare la capitale estense. Ovviamente, in attesa che Rinaldo recuperasse Modena (1707), «anche [...] il territorio castelnovese ebbe guai» di fronte a truppe «che non si arrestavano davanti a nulla e pareva facessero le prove per le razzie future». Il riferimento è naturalmente alle campagne napoleoniche di fine secolo, che portarono nuovi eserciti a combattere sul suolo italiano. «Castelnuovo Rangone – si legge nella cronaca di Michele Ferrarini – fu pure occupato dai francesi [...], e vi derubarono molte cose specialmente in canonica».
Tra i due estremi temporali di inizio e fine Settecento, Montanari – insieme con le puntuali notizie riguardanti i feudatari di casa Rangoni – precisa inoltre che in quell'epoca alle difficoltà politiche si aggiunsero annate di forte maltempo: come riportano diverse cronache, in più occasioni interi raccolti furono devastati, con conseguente vertiginoso aumento dei prezzi delle derrate alimentari.
La povertà afflisse a lungo il territorio castelnovese, favorendo, specie nel contesto rivoluzionario del primo Ottocento, rivolte ed atti di brigantaggio. Significativa fu, al riguardo, la vicenda che ebbe protagonista il ribelle Giuseppe Muzzarelli («detto Cmein in dialetto e Cimini nella vulgata»), che per sfuggire all'arruolamento decise «di penetrare con altri sodali nell'archivio comunale di Castelnuovo per incendiarlo, allo scopo di ostacolare la compilazione degli elenchi degli obbligati alla leva». Il risultato fu che, con i documenti, andò in fumo buona parte della memoria storica locale.
Terminata la fase rivoluzionaria, ebbe inizio un periodo di forti cambiamenti. Brevemente, è sufficiente ricordare che nel 1815 l'arciduca Francesco IV «abolì il comune e così Castelnuovo, declassato, venne aggregato come sezione a Spilamberto»; in seguito, dopo la cacciata degli Estensi, «con la riforma del dittatore Luigi Carlo Farini verrà riattivato il Comune di Castelnuovo Rangone». Nel 1864 venne inaugurata la nuova chiesa parrocchiale; l'anno seguente «l'amministrazione comunale castelnovese acquistò dalla signora Teresa Ferrarini l'antico palazzo feudale col torrione quadrato e merlato a fianco e lo adattò a sede municipale»; nel 1879 «fu attivato il mercato settimanale», mentre nove anni più tardi, oltre a quella del nuovo campanile, «vi fu l'inaugurazione della ferrovia Modena-Vignola che passava per il paese dei Rangoni».
Si trattava, con tutta evidenza, di indici di progresso e crescita economica, destinati a cambiare il volto di Castelnuovo nel corso del XX secolo. Conclude infatti Montanari che, oltre all'inaugurazione (tra il 1927 e il 1931) della nuova facciata della chiesa parrocchiale e del nuovo Palazzo Comunale, nel secondo dopoguerra il paese dei Rangoni «doveva subire una benefica trasformazione per merito dello spirito imprenditoriale diffuso che a poco a poco lo trasformerà da luogo agricolo e quasi asfittico, nel centro di maggior concentrazione di ricchezza della Provincia e non solo». Protagonista indiscusso di questo rapido processo di crescita è stato senza dubbio il maiale, la cui lavorazione ha di fatto «portato un piccolo borgo nobilitato da un castello che più non esiste ad essere un moderno paese-modello».

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sabato 25 maggio 2013

Alfonso IV d'Este, il duca «indolente» amante della cultura e delle arti

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 maggio 2013)

 «Principe d'amabilissimo aspetto, di esemplare pietà, di rettissima giustiza» – secondo il parere del Muratori –, Alfonso IV divenne duca di Modena alla morte di Francesco I, sopraggiunta il 14 ottobre 1658. Per via del suo temperamento incline «più alla mansuetudine e alla clemenza che al rigore», unito alla giovane età (era nato nel 1634) e alle precarie condizioni di salute, egli non era certo il successore più adatto per proseguire l'energica politica estera del padre, finalizzata al recupero di Ferrara e, più in generale, ad espandere i confini dello Stato estense. «Quanto il padre era stato dinamico, volitivo, ambizioso – ha scritto Luigi Amorth –, altrettanto Alfonso IV era indolente, un po' abulico, tollerante, di quella tolleranza ch'era sinonimo di debolezza».
Nondimeno il nuovo duca non volle venire meno agli impegni militari presi da Francesco I, alleato della Francia durante le fasi conclusive del lungo conflitto con la Spagna, eredità della guerra dei Trent'anni. Lo stesso Mazzarino, del resto, aveva voluto rassicurarlo che la scomparsa del padre non avrebbe rotto l'alleanza con Parigi: «Questa morte – precisò infatti il cardinale – non porterà alcuna alterazione di questa parte in tutto quello che può riguardare la sua Casa». Il che si tradusse nella decisione di Luigi XIV di gratificare l'Estense col titolo di generalissimo delle truppe francesi in Italia.
La condotta filofrancese del duca di Modena rappresentava peraltro la logica prosecuzione della politica di Francesco I, il quale, dopo avere a lungo appoggiato la Spagna – sempre nella vana illusione di poter in futuro rientrare in possesso della capitale dei suoi avi –, nella fase finale del suo regno era stato attratto nell'orbita di Parigi. Della nuova alleanza aveva fatto, per certi versi, da garante proprio lo stesso Alfonso, cui nel 1655 era stata data in sposa la nipote del Mazzarino (Laura Martinozzi), figlia di Margherita (sorella del cardinale) e del conte Girolamo Martinozzi da Fano.
In sostanza, il solco entro cui indirizzare la politica estense era profondo e ben tracciato, tanto più che lo stesso carattere debole del duca non rendeva realistici improvvisi cambi di fronte. Dando perciò prova di lealtà, Alfonso si preparò immediatamente per una nuova campagna militare in continuità con la linea seguita dal padre; tuttavia il Mazzarino lo informò che Francia e Spagna stavano già segretamente trattando per la pace, e lo invitò pertanto ad accordarsi col viceré di Milano. Il duca di Modena obbedì. L'11 marzo 1659 fu firmato un trattato in base al quale – scrive Riccardo Rimondi – «Alfonso rinunciava ai gradi di generalissimo francese e in cambio riceveva la sospirata conferma dell'investitura del principato di Correggio. La Spagna, inoltre, gli riconosceva il diritto di neutralità in quanto principe sovrano, e gli attribuiva i frutti della dogana di Foggia, dovutigli per l'eredità della nonna Isabella di Savoia, con un gettito di 37.000 ducati annui; in cambio furono restituite alla Spagna le città di Valenza e Mortara, occupate da Francesco I». Un articolo della pace dei Pirenei (che poneva fine alla guerra tra Francia e Spagna) confermò infine il trattato, facendo inoltre breve cenno, per la verità con vaghe promesse, alla questione dei beni ferraresi rivendicati dalla casa d'Este.
Il bilancio fu comunque tutto sommato positivo, se non altro per la cessazione delle ostilità dopo anni di sanguinosi combattimenti. Con la pace, il 1660 portò poi nel ducato un clima di euforia per la nascita dell'erede Francesco, dopo che un primo figlio di Alfonso era morto in tenera età. Il duca volle celebrare l'evento con feste e spettacoli, che prevedevano in particolare un grande torneo a cavallo, con musiche e scenografie spettacolari. La piazza del palazzo fu di fatto trasformata in un enorme teatro all'aperto. Secondo la ricostruzione di Rimondi, «il pubblico, ora ammirato ora inorridito, ora estasiato ora spaventato, assistette a una lotta fra vizi e virtù, culminante naturalmente nella vittoria del bene e nel canto finale in lode del neonato principe: "Giri il Ciel d'astri felici, / Dolci lumi e aspetti amici, / Fortunato e trionfante / Rida il Fato al Regio Infante, / Sua virtute e suoi splendori / Riverente il mondo honori"».
L'anno seguente, precisamente il 9 marzo, morì il Mazzarino, che in quanto zio della duchessa di Modena aveva pesantemente influenzato la politica estera di Alfonso. La notizia, per gli Estensi, aveva risvolti negativi, in quanto privava il ducato di un prezioso e potente alleato, ma anche positivi, dal momento che il cardinale lasciò in eredità alla nipote «150.000 scudi in contanti, 40.000 lire francesi in mobili e gioielli, altre 40.000 di rendita annua». Un'autentica boccata d'ossigeno per il ducato, specie dopo che gli anni di guerra avevano prosciugato le casse dello Stato. A ciò si aggiunga che, come il padre, Alfonso spendeva ingenti somme per acquistare opere d'arte (soprattutto dipinti, ma anche avori, cammei e medaglie), destinate ad impreziosire l'insigne Galleria Estense fondata proprio dall'illustre genitore. Citando nuovamente Amorth, Alfonso IV «dal padre aveva ereditato l'amore per l'arte, specie per la pittura, tanto che la Pinacoteca ebbe con lui un notevole incremento e al Bernini avrebbe voluto commissionare addirittura una superba statua equestre rappresentante il duca Francesco». A Pietro da Cortona, pittore e architetto tra i massimi esponenti del barocco italiano, egli affidò invece – scrive Rimondi – «la decorazione (poi non realizzata) di sei delle sette stanze dell'appartamento ducale di palazzo, con pitture che celebrassero la dinastia estense e le qualità del buon principe».
Solo la morte prematura impedì la realizzazione di tali progetti, cui Alfonso avrebbe voluto aggiungere anche quello dell'ampliamento della cerchia muraria, dal momento che la popolazione in aumento aveva oramai reso problematica la carenza di spazio entro il tessuto urbano. Più in generale, comunque, il giovane duca ebbe un occhio di riguardo per la cultura, «stipendiando generosamente – nota Rimondi – il filosofo e matematico Geminiano Montanari e sostenendo le ricerche astronomiche di Cornelio Malvasia».
La breve esperienza di Alfonso alla guida del ducato estense si concluse nel 1662, dopo nemmeno quattro anni di governo. Recatosi infatti a Firenze per assistere ai festeggiamenti per le nozze di Cosimo III de' Medici con Margherita Luisa d'Orléans, l'erede di Francesco I rientrò dal viaggio molto affaticato, o quantomeno più del solito. Soffriva infatti sin dalla prima gioventù di gotta, ed evidentemente in quella circostanza la malattia si aggravò. Ad essa si aggiunse un'infezione polmonare cui il duca non sopravvisse. Egli morì il 16 luglio, all'età di ventotto anni. Nel testamento lasciò alla moglie Laura la tutela dei due figli, Francesco (futuro duca, che tuttavia aveva da poco compiuto due anni) e Maria Beatrice (che sarebbe diventata, quale moglie di Giacomo II Stuart, regina d'Inghilterra). Sulla giovane duchessa (aveva appena 23 anni) ricaddero pertanto le responsabilità di governo. Come ha scritto Luigi Amorth, fu «il primo e unico caso di reggenza femminile nella storia del nostro ducato». Quale tutrice dell'erede Francesco II, Laura Martinozzi avrebbe governato fino al 1674.

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mercoledì 15 maggio 2013

Il «segreto brutto»: le vittime (scomode) della Resistenza e il caso di Rolando Rivi

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 maggio 2013)

Nelle prime pagine de Il secolo delle idee assassine Robert Conquest riporta una frase che «pare» – egli scrive – sia attribuibile al filosofo britannico Bertrand Russell: «Se fosse possibile dimostrare che con lo sterminio degli ebrei l'umanità potrebbe attingere alla felicità, non ci sarebbe nessuna ragione per non procedere alla loro eliminazione». Il senso di queste parole è piuttosto chiaro: per una giusta causa è possibile accettare anche il male, purché esso venga compiuto in nome di un interesse supremo e collettivo, cui è necessario subordinare i diritti dei singoli.
La questione di fondo, tuttavia, è decidere quale sia la «giusta causa». E con ciò non si pensi che il problema riguardi solo le ideologie totalitarie, anzi! Come comportarsi, infatti, quando una battaglia «giusta» (o quantomeno giudicata tale dal tribunale della storia) viene sfruttata per coprire, a mo' di scudo della memoria, crimini difficilmente riconducibili, col senno di poi, al bene comune? Di solito, la strada più sicura è anche la più semplice da percorrere: ed è quella del silenzio. Di fronte a certe pagine scomode del nostro passato, meglio non soffermarsi troppo.
Il caso recente riguardante l'ultimo libro di Sergio Luzzatto è del resto fin troppo eloquente. Stimato docente universitario, Luzzatto ha da poco dato alle stampe Partigia. Una storia della Resistenza, in cui ripercorre le vicende della banda «ribelle» di Primo Levi e getta luce su quello che lo stesso autore di Se questo è un uomo definì il «segreto brutto» della sua militanza partigiana: la fucilazione «col metodo sovietico» (ossia «improvvisamente, e senza che se ne accorgessero fino all'ultimo momento») di due giovani membri della banda, condannati sbrigativamente a morte in quanto sbandati che si erano resi, col loro comportamento, incompatibili con le leggi della guerriglia partigiana. Puntuali, pochi giorni dopo l'uscita del libro, gli anatemi di coloro che scorgono in esso una potenziale minaccia revisionista. Nessuno contesta la documentazione di cui si è servito Luzzatto: da un punto di vista storiografico, il libro è inattaccabile. Ma il problema è un altro. Ancora oggi, dopo quasi settant'anni, raccontare di un crimine compiuto dai partigiani è considerato, evidentemente, inutile, se non dannoso. Le parole di Gad Lerner, che su Repubblica ha stroncato il lavoro di Luzzatto, vanno in questa direzione. Egli argomenta infatti che Partigia «non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento». In sostanza, cui prodest?
Ora, a parte il fatto che è molto probabile che dell'episodio descritto da Luzzatto la maggioranza degli italiani non abbia mai sentito parlare, la domanda da fare non è «a chi giova?» – polemica che puzza decisamente di vecchio –, bensì «a chi reca danno?». Se il libro di Luzzatto è documentato e rigoroso, che problema c'è se non aggiunge nulla di nuovo? Quanti libri di storia hanno questo «difetto», ma non destano scalpore? In un paese che ha conquistato la democrazia attraverso una guerra civile, chi si sente erede morale di chi ha donato la vita per la «giusta causa» non ha bisogno di nascondere alcuna verità, ancorché talvolta scomoda.
Questa lunga premessa vuole rispondere in anticipo a chi dovesse obiettare che l'articolo di questa settimana – che tratta del martirio di Rolando Rivi – costituisce un cattivo esempio di revisionismo. Fermo restando che il caso Rivi è di stretta attualità per la decisione di papa Francesco di firmare il decreto di beatificazione, raccontare la storia di un seminarista ucciso da un gruppo di partigiani non significa certo fare opera di revisionismo (ammesso che questa parola abbia realmente senso, visto che, di per sé, ogni libro di storia può essere considerato revisionista). Valgano come ulteriore chiarimento le seguenti parole tratte sempre da Partigia di Luzzatto: «Insieme con la storia di un bene, l'impagabile bene della lotta contro il nazifascismo, [la guerra civile italiana] racconta la storia di un male insondabile, il male da cui nessun essere umano, nemmeno il migliore, può dirsi totalmente affrancato. Così, tra il bianco e il nero, numerose si rivelano qui le tonalità del grigio».
Proprio a queste tonalità grigie è riconducibile l'assassinio di Rolando Rivi. Egli nacque a San Valentino di Castellarano (Reggio Emilia) il 7 gennaio 1931, secondogenito di Roberto, contadino mezzadro, e Albertina Canovi. Le profonde convinzioni cristiane della famiglia, unite all'esempio del parroco di San Valentino, don Olinto Marzocchini, furono decisive nella formazione di Rolando, che all'età di 11 anni manifestò i primi segni della vocazione al sacerdozio.
Entrato in seminario a Marola nell'ottobre del 1942, il giovane  mostrò subito grande entusiasmo per il percorso di vita che aveva deciso di intraprendere, tanto che non svestiva mai l'abito talare, segno visibile del suo legame con Cristo. La sua permanenza a Marola fu tuttavia breve. Nel settembre del 1944, infatti, alcuni soldati tedeschi si acquartierarono nei locali del seminario, costringendo di fatto coloro che lo frequentavano a fare ritorno in famiglia. La vita di Rolando dopo il rientro a San Valentino è riassunta brevemente dal suo biografo, Emilio Bonicelli: «Ogni mattina la giornata iniziava con la Santa Messa, cui Rolando partecipava accompagnando i canti con l'armonium e aiutando nella liturgia. Nel pomeriggio tornava in chiesa per l'adorazione al Santissimo Sacramento e per i Vespri, poi il ragazzo si fermava per esercitarsi nel suono dell'armonium o per consultare qualche libro nella biblioteca di don Olinto. Intanto proseguiva il programma di studio con l'aiuto di un professore, sfollato a San Valentino per sfuggire ai bombardamenti in città».
Nel clima di odio della guerra civile, nel frattempo, era diventato sempre più pericoloso indossare l'abito talare. I comunisti della zona, del resto, non facevano mistero di voler «liberare l'umanità dal concetto di religione», ed erano passati ormai alle maniere forti. Lo stesso don Olinto aveva subito percosse. Ma Rolando, che considerava la veste un simbolo di appartenenza, all'abito talare non volle rinunciare. E pagò questa sua scelta con la vita.
La mattina del 10 aprile 1945, mentre studiava su un'altura vicino casa, il giovane seminarista fu prelevato da alcuni partigiani comunisti e condotto prigioniero in un casolare in località Piane di Monchio, frazione di Palagano. In uno scritto che ricostruisce quei drammatici avvenimenti, il padre Roberto ha così descritto la scoperta del rapimento: «Lo chiamai. Nessuna risposta. Assieme a sua mamma mi recai sul posto pensando si fosse addormentato, ma una triste sorpresa ci attendeva. I suoi libri erano sparpagliati per terra e su un foglio, staccato da un suo quaderno, vi erano scritte queste parole: "Non cercatelo. Viene un momento con noi. Partigiani"».
I sequestratori, appartenenti al battaglione Frittelli inquadrato nella divisione Modena Montagna, rinchiusero Rolando in una porcilaia e lo sottoposero a pesanti interrogatori. L'obiettivo era estorcergli la confessione di essere una spia dei nazisti; ma siccome egli non cedeva alle minacce, fu picchiato selvaggiamente e torturato. Alla fine, dopo averlo spogliato, in segno di spregio, dell'abito talare, il 13 aprile i partigiani – sono sempre parole di Roberto Rivi – «lo portarono in un boschetto che era poco distante dalla casa ove erano alloggiati. Il ragazzo quando ha visto la buca scavata [...] ha chiesto di poter fare una preghiera al suo papà e alla sua mamma. Si è inginocchiato sulla buca. In quell'istante lo hanno fulminato».
L'omicidio fu una punizione estranea ad ogni logica e regola della guerra di Resistenza. Lo stesso padre di Rolando, trovato il biglietto dei rapitori, fu rassicurato dal capo del servizio informazioni partigiano che, data la giovane età, al figlio non sarebbe stato torto un capello. Tuttavia il vero motivo dell'assassinio di Rolando non risiedeva nelle accuse – che le sentenze del dopoguerra stabilirono essere del tutto infondate – a lui rivolte, bensì nell'odio di classe. Vagando di paese in paese alla ricerca del figlio, chiedendo informazioni (pericolose) ai partigiani che incontrava lungo la via, Roberto Rivi ricevette infine una sconcertante confessione: «Ho anche saputo più tardi che una parte di questi partigiani non voleva arrivare a questo, ma un certo Corghi di Formigine ha risposto: "Domani un prete di meno"».
In sostanza Rolando aveva pagato poiché – si legge nella motivazione della sentenza di secondo grado contro i suoi assassini – «costituiva per l'elemento giovanile locale un esempio edificante di virtù civiche e cristiane che [...] doveva determinare un effetto di attrazione verso le ideologie religiose e politiche cristiane». Il che, per alcuni partigiani comunisti, era assolutamente inaccettabile.

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martedì 7 maggio 2013

Raimondo Montecuccoli, il condottiero modenese che salvò la Cristianità

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 aprile 2013)

Parlando con Carlo Previdi del suo ultimo libro (Raimondo Montecuccoli. Un eroe di montagna, Edizioni TeI, Modena 2013) e, più in generale, della sua passione per la storia di Modena, ho potuto constatare che lo studio del passato è spesso motivato dal desiderio di riportare in vita persone ingiustamente dimenticate. Di frequente capita infatti di appassionarsi alle gesta o alle vicissitudini di un personaggio storico, e al contempo di dover prendere atto con disappunto che le persone che ci circondano, ben che vada, sono in grado al massimo di ricondurlo a una via o a una piazza.
Il caso di Raimondo Montecuccoli non si discosta granché da queste considerazioni. E Previdi, che di Montecuccoli ha studiato a lungo la biografia e le opere, me lo ha indirettamente confermato presentandomi il protagonista del suo libro pressappoco con queste parole: «Benché sia stato uno dei più grandi condottieri di tutti i tempi, mai sconfitto in battaglia come comandante dell'esercito imperiale, a Modena in pochi hanno idea di chi fosse». Il libro risponde dunque all'esigenza di rendere note anche al pubblico dei non specialisti le imprese di un uomo cui la memoria collettiva non ha tributato il giusto riconoscimento.
Riferendomi a Montecuccoli, l'ho definito non a caso "protagonista", per il semplice motivo che quello di Previdi non è propriamente un saggio storico, bensì un romanzo che – si legge sulla quarta di copertina – «ripercorre [...] tutte le principali tappe della vita [del generale modenese], mantenendo inalterati gli accadimenti reali nella parte storica e dando libero sfogo alla fantasia in quella romanzata, senza però discostarsi mai troppo da una sostanziale credibilità». I capitoli del libro sono divisi in due blocchi, quello del romanzo e, parallelo, quello degli accadimenti storici. In questa sede – giusto per lasciare intatta la curiosità del lettore – prenderò in esame solo la parte storica, delineando un breve profilo di Raimondo Montecuccoli.
Egli nacque il 21 febbraio 1609 da Galeotto, signore di Montecuccolo nel Frignano, e da Anna Bigi, nobildonna ferrarese che era stata damigella d'onore di Virginia de' Medici, moglie del duca Cesare d'Este. Trasferitosi nel 1616 a Brescello (di cui Galeotto era stato nominato governatore), dopo la scomparsa del padre (1619) Raimondo giunse a Modena – dove fu avviato agli studi – e fu posto al servizio del cardinale Alessandro d'Este. La morte di quest'ultimo nel 1624 coincise con la rinuncia del Montecuccoli alla carriera ecclesiastica (cui il porporato aveva voluto indirizzarlo), decisione motivata dal desiderio di intraprendere la vita militare. Nel 1625 il passaggio a Modena di Rambaldo di Collalto, comandante delle truppe imperiali, offrì l'occasione per arruolarsi e prendere parte alla guerra dei Trent'anni, che in Europa infuriava dal 1618.
Terminato il periodo di addestramento, Montecuccoli diede presto prova delle sue grandi doti militari. Nel 1629, appena ventenne, si distinse nella presa di Amersfoort (nei Paesi Bassi); due anni dopo partecipò con successo agli assedi di Neubrandeburg, Magdeburgo e di Kollbus, «denotando già – scrive Previdi – [...] una esperienza da veterano».
La schiacciante vittoria riportata dalle armate svedesi di Gustavo Adolfo a Breitenfeld il 17 settembre 1631 costò al Montecuccoli la cattura e la conseguente prigionia (fu condotto ad Halle, in Sassonia), dalla quale fu liberato in seguito al pagamento di un riscatto da parte del duca di Modena Francesco I. Nominato maggiore di fanteria nel reggimento del cugino Ernesto (ufficiale asburgico) e successivamente promosso tenente colonnello, nel 1632 prese probabilmente parte al grande scontro di Lützen, in Sassonia, nel quale gli svedesi ebbero la meglio sull'esercito del generale Wallenstein ma persero re Gustavo Adolfo, che lasciò la vita sul campo.
Negli anni successivi, Montecuccoli fu protagonista di altre aspre operazioni militari, mettendosi in evidenza nella conquista di Lindau, nell'assedio di Ratisbona, nella vittoriosa battaglia di Nördlingen e nell'attacco alle difese di Kaiserslautern. Ottenuto il grado di colonnello, nel 1636 coordinò con successo il ripiegamento dell'esercito imperiale sconfitto a Wittstock, mentre l'anno seguente, riuscendo a respingere l'assalto svedese a Nemeslau, si guadagnò il favore dell'imperatore Ferdinando III.
Tornato al fronte nel 1639 dopo un periodo di rallentamento delle attività militari, nel tentativo di bloccare l'avanzata dell'armata del generale Banér cadde per la seconda volta prigioniero degli svedesi. La reclusione nella fortezza di Stettino, in Pomerania, si protrasse per tre anni, durante i quali Montecuccoli poté dedicarsi agli studi e alla stesura di trattati militari. Rilasciato nel giugno del 1642 in seguito ad uno scambio di prigionieri, il condottiero modenese, nominato generale, inflisse una netta sconfitta agli svedesi presso Troppau, liberando la città dall'assedio nemico.
L’anno seguente ottenne il permesso di porsi a disposizione del duca estense Francesco I, impegnato nella guerra di Castro contro papa Urbano VIII. «Mettendo a frutto le sue superiori qualità strategiche» – scrive Previdi –, il generale asburgico respinse le truppe pontificie che avevano assediato Nonantola, in uno scontro che costò gravi perdite al nemico. Rientrato in Austria nel 1644, venne nominato tenente maresciallo, combattendo gli svedesi in Sassonia e proteggendo la ritirata dell’esercito imperiale a Magdeburgo. Quale riconoscimento delle sue eccelse qualità militari, nel 1645 divenne membro del Consiglio Aulico di Guerra (supremo organo militare dell’Impero), nonché Gentiluomo di Camera dell’Imperatore. E Montecuccoli ripagò in pieno la fiducia accordatagli frenando l’avanzata svedese in Boemia e riportando una clamorosa vittoria nella battaglia di Triebl. Quando poi nel 1648 l’esercito imperiale fu sconfitto dalle preponderanti forze nemiche (decisivo fu l’apporto francese) a Zusmarshausen, il generale modenese riuscì ad impedire che i vincitori dilagassero minacciando Vienna.
Terminata la guerra dei Trent’anni con la pace di Vestfalia, Montecuccoli ebbe modo di svolgere importanti incarichi diplomatici, che lo misero in contatto, tra gli altri, con Cristina di Svezia (che accompagnò da papa Alessandro VII, dopo avere assistito alla sua conversione al cattolicesimo) e con Oliver Cromwell. Nel 1657, dopo aver contratto matrimonio con la nobildonna boema Margarethe von Dietrichstein, fu inviato in Polonia per arginare le mire espansionistiche di Carlo X Gustavo re di Svezia, compito che assolse con successo impadronendosi, nel 1659, della Pomerania. Nel frattempo, morto il suo predecessore Melchior von Hatzfeld, aveva ricevuto il grado di Feldmarshall, ovvero di comandante supremo dell’esercito imperiale, cui sarebbe seguita la nomina, nel 1661, a feldmaresciallo generale, apice della gerarchia militare.
Montecuccoli non ebbe però il tempo di godere dei suoi personali successi. La minaccia turca incombeva ai confini del Sacro Romano Impero, creando le premesse di uno scontro che – nella percezione degli europei – avrebbe contrapposto due intere civiltà. La formale dichiarazione di guerra si ebbe nel 1663, e Montecuccoli ricevette l’incarico di comandante supremo della coalizione anti-ottomana (che annoverava anche alcuni contingenti francesi). Il 1° agosto 1664, scrive Previdi, «l’esercito cristiano di Raimondo Motecuccoli e quello turco […] si scontrano in una memorabile battaglia nei pressi del fiume Raab», a Mogersdorf, nell’attuale Austria orientale. Nonostante la netta inferiorità numerica (30.000 europei contro circa 90.000 musulmani), grazie all’abilità tattica del comandante modenese le armate cristiane inflissero «una travolgente sconfitta al nemico», costringendo il sultano a firmare la tregua. La pace, oltre a sancire il trionfo del Montecuccoli, rincuorò un’Europa che aveva trepidato di fronte all’avanzata ottomana.
Per il condottiero del Frignano quella contro i turchi non fu, comunque, l’ultima impresa di una straordinaria carriera militare. Nel 1672, dopo avere svolto – in qualità di luogotenente generale dell’Impero – alcune importanti missioni diplomatiche, egli dovette infatti fronteggiare l’esercito francese del maresciallo Turenne, che aveva attaccato l’Olanda con l’intento di espandersi a est. Lo scontro si protrasse fino al 1675, quando, al termine di una lunga «serie di mosse e contro-mosse», il Montecuccoli, dopo la morte sul campo del Turenne, riportò una netta e decisiva vittoria ad Altenheim. Si trattò dell’ultima battaglia del condottiero modenese.
Ormai vecchio ed ammalato, egli abbandonò la vita militare, dedicandosi agli studi e alla famiglia, pur funestata nel 1676 dalla tragica morte per vaiolo della moglie. Trasferitosi al seguito dell’imperatore a Linz nel 1679 per fuggire dal contagio di peste che aveva colpito Vienna, Montecuccoli morì il 16 ottobre 1680, dopo aver ricevuto, quale ultimo riconoscimento, il titolo di principe dell'Impero. Il 4 novembre le esequie solenni si svolsero nella capitale asburgica alla presenza della famiglia imperiale. 

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