martedì 30 aprile 2013

Modena e provincia nella Grande Guerra: i monumenti ai caduti

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 aprile 2013)
 
Dopo aver recensito, la settimana scorsa, il saggio di Fabio Montella (che prende in esame la realtà modenese durante gli anni del primo conflitto mondiale e costituisce la prima parte del libro «Modena e provincia nella Grande Guerra»), mi occuperò in queste righe dello studio di Mirco Carrattieri sui monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale in area modenese, seconda parte del suddetto libro.
Divenuto oggetto di studi specifici – per quanto concerne il contesto nazionale – a partire dagli anni Settanta, «il tema dei monumenti ai caduti – rileva Carrattieri – non [ha] ancora ottenuto una adeguata attenzione storiografica in area emiliana». La ragione di questo prolungato disinteresse va cercata, probabilmente, nella proliferazione di studi che, dopo il secondo conflitto mondiale, hanno riguardato la «monumentistica resistenziale»; studi che, tuttavia, avrebbero di certo beneficiato di una più approfondita analisi delle esperienze precedenti.
Una prima forma di elaborazione della memoria dei caduti risale agli anni di guerra. Attraverso necrologi, messe di suffragio, commemorazioni funebri, prima ancora della cessazione delle ostilità si diffuse in tutta Italia una «retorica del lutto» che, inevitabilmente, ebbe in breve tempo «una ricaduta sullo spazio pubblico». L’odonomastica, in particolare, divenne oggetto di attenta riflessione, su istanza di un’opinione pubblica coinvolta emotivamente dagli avvenimenti bellici e, per questo, particolarmente interessata a consacrare nel ricordo collettivo le imprese e il sacrificio dei combattenti. Il caso, su scala nazionale, più eclatante fu quello di Cesare Battisti; ma, per quanto concerne il Modenese, un notevole risalto ebbe anche la singolare vicenda del capitano vignolese Mario Pellegrini (assaltatore del porto di Pola catturato dagli austriaci), cui venne dedicata una via nel settembre del 1918, quando cioè era ancora vivente. In continuità con questi provvedimenti, subito dopo la fine della guerra (addirittura il 5 novembre 1918) il Consiglio comunale di Modena decise di istituire una via Trento Trieste e un viale delle Rimembranze.
Terminato vittoriosamente il conflitto, celebrazioni e monumenti divennero sempre più numerosi (del resto, già nel 1918 le giornate del 24 maggio e del 4 novembre furono caratterizzate da «un vero e proprio profluvio retorico»). Inizialmente, rileva Carrattieri, le commemorazioni furono sollecitate principalmente dalla società civile: «Famiglie, gruppi amicali e professionali, parrocchie, società sportive e comitati patriottici sono i primi committenti di targhe e lapidi che cominciano a comparire anche a Modena». Ma degne di nota furono anche le iniziative comunali e nazionali, le quali, per quanto riguarda lo Stato liberale, culminarono nel 1921 nella solenne cerimonia della tumulazione della salma del Milite Ignoto.
L’avvento del fascismo segnò un punto di svolta nell’ambito delle strategie comunicative legate alle commemorazioni. Queste divennero, infatti, lo strumento di cui il movimento mussoliniano si servì per accreditarsi quale unico legittimo custode del ricordo della guerra, nella convinzione che il monopolio della memoria avrebbe affermato in modo definitivo la vocazione nazionale del nuovo partito di governo. A questo scopo, pertanto, si moltiplicarono le iniziative, tra le quali particolarmente significativa fu quella promossa nel 1922 dal sottosegretario all’istruzione Dario Lupi, che prevedeva la «creazione, in tutte le città d’Italia, di Parchi della Rimembranza in cui piantare un albero per ogni caduto locale». Dopo un iniziale successo, l’avvento di ministri cattolici (preoccupati delle derive paganeggianti della proposta di Lupi) limitò lo sviluppo concreto dell’iniziativa, che comunque interessò pure Modena, dove il Parco venne inaugurato il 24 maggio 1923. «La sua istituzione – precisa Carrattieri – comporta […] un primo riassetto urbanistico, che implica anche l’intitolazione di una via a Vittorio Veneto e di una ai Caduti in Guerra».
Con l’instaurazione della dittatura, il regime tese a rendere sempre più esplicita l’associazione guerra-fascismo, spesso facendo sì che le commemorazioni dei martiri del conflitto coincidessero con cerimonie (soprattutto inaugurazioni) fasciste. Più in generale, la guerra fu assorbita dal più vasto culto del littorio: e se da un lato i morti della rivoluzione fascista furono annoverati fra i caduti in guerra (il che «finirà per condizionare anche la percezione postbellica della Grande Guerra»), dall’altro la memoria fu definitivamente ridotta a strumento politico finalizzato ad «imporre una visione rigidamente guerresca della patria».
Giunto a questo punto, Carrattieri decide di soffermarsi, per quanto riguarda Modena, sui «tre principali luoghi della memoria cittadina sulla guerra», che furono solennemente inaugurati il 3 novembre 1929 da re Vittorio Emanuele III.
1) Il Monumento ai Caduti. Una volta individuata l’area dove collocare il monumento (un referendum sulla «Gazzetta dell’Emilia» indicò il baluardo di San Pietro, presso viale delle Rimembranze), il 10 gennaio 1923 venne indetto un concorso nazionale per la scelta dell’esecutore. Vinse Ermenegildo Luppi, artista modenese di un certo rilievo. I lavori iniziarono nel 1924. Nel 1927 fu ultimata la statua della Vittoria, mentre l’anno successivo vennero aggiunte «le 4 fusioni bronzee laterali, dedicate all’Offerta (la madre che accarezza il figlio immolandolo alla patria), al Combattente (il fante di vedetta pronto al lancio della bomba a mano), al Sacrificio (il soldato ferito che si accascia sull’arma) e all’Addio (la madre e la sposa del caduto accomunate dal pianto)». Quattro iscrizioni patriottiche furono poste sui lati del basamento.
2) Il Sacrario dell’Accademia. «Una delle peculiarità di Modena – scrive Carrattieri – è rappresentata dal suo essere fin dall’Unità una delle principali sedi di formazione dei vertici militari del Paese». Anche per questo, l’Accademia dopo la guerra non poté mancare «di coltivare il ricordo di questo suo ruolo di rilievo». Negli anni Venti furono due le iniziative degne di nota: «la realizzazione del lapidario nell’atrio dell’Accademia e l’allestimento del cosiddetto Tempio della Gloria». Il primo ricorda gli ex allievi caduti dall’Unità alla Vittoria; il secondo «è invece un sacrario nel quale un grande braciere votivo arde davanti all’ara dedicata al milite ignoto».
3) Il Tempio Monumentale. L’iniziativa della costruzione di una chiesa dedicata ai caduti si dovette a don Luigi Boni, curato del sobborgo di Santa Caterina, il quale nel 1917 ottenne dal Comune la concessione del terreno per l’edificazione. La proposta fu accolta con convinzione anche dall’arcivescovo Natale Bruni, che suggerì «l’idea di un grande tempio votivo in ricordo e a suffragio di tutti i caduti modenesi». La posa della prima pietra avvenne l’8 dicembre 1923 alla presenza del re, il quale, sei anni dopo, inaugurò l’edificio. Tuttavia il Tempio poté considerarsi concluso solamente nel 1932, quando nella cripta venne traslata la salma di Bruni, morto nel 1926. Caratteristica principale della chiesa sono i nomi dei caduti modenesi «incisi in lettere dorate sulle pareti in marmo verde della cripta».
L’ultima parte dello studio di Carrattieri prende in esame, brevemente, gli sviluppi post-resistenziali della politica della memoria e i monumenti della provincia. Quanto ai primi, se gli anni Trenta avevano portato alla «definitiva appropriazione da parte dello stato fascista del corpo e del nome dei morti in guerra», dopo il secondo conflitto mondiale si assistette, oltre all’erezione di numerosi cippi partigiani, ad un frequente riadattamento dei vecchi monumenti, «eliminando i segni macroscopici del defunto regime ed aggiungendo una lapide con il nome dei caduti del conflitto più recente». È bene poi notare che alla celebrazione dei caduti in guerra si è recentemente aggiunta – per certi versi sostituita – quella delle vittime civili, mentre, «stilisticamente, la scultura figurativa ha ceduto il passo a modelli più astratti, a composizioni a base architettonica, a installazioni multimediali».
Per quanto concerne, invece, i monumenti della provincia, Carrattieri precisa che i 96 casi censiti occupano quasi sempre «posizioni di alto rilievo simbolico» e che «tra i temi figurativi, prevale nettamente il fante». Numerose sono, inoltre, le lapidi che riportano i nomi dei caduti del paese. In conclusione – dopo aver descritto alcuni casi esemplari ed introdotto rapidamente l’opera del principale scultore modenese dell’epoca, Giuseppe Graziosi – Carrattieri descrive alcune peculiarità dell’area geminiana, sottolineando «l’irriducibile pluralità dei soggetti produttori, con particolare riferimento a poteri come l’esercito e la chiesa, che rimangono autonomi, seppur fiancheggiatori, anche durante il fascismo».

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venerdì 26 aprile 2013

Modena e provincia nella Grande Guerra: la città e i suoi abitanti durante gli anni del conflitto

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 aprile 2013)

Nel 2008, in occasione del novantesimo anniversario della fine del primo conflitto mondiale, il Gruppo Studi Bassa Modenese ha pubblicato un interessante studio dal titolo «Modena e provincia nella Grande Guerra», scritto a quattro mani da Fabio Montella e Mirco Carrattieri. Il testo è diviso in due parti: nella prima (che in queste righe prenderò in esame) Montella descrive, anno per anno, le vicende che coinvolsero il Modenese, dallo scoppio della guerra europea alla vittoria delle armi italiane; nella seconda (di cui mi occuperò in un secondo articolo), Carrattieri focalizza la sua attenzione sui monumenti ai caduti in area modenese. Il tutto è corredato da numerose fotografie (che occupano ben 82 pagine, per la precisione).
La notizia dell'attentato all'erede al trono d'Austria Francesco Ferdinando (28 giugno 1914) ebbe una vasta eco sulla stampa modenese, destando diverse reazioni che, a seconda degli schieramenti politici e con varie sfumature, variavano dalle posizioni attendiste dei cattolici a quelle decisamente neutraliste dei socialisti. Scarse furono, almeno inizialmente, le manifestazioni apertamente interventiste.
Il generale pacifismo dell'opinione pubblica fu però presto scosso dal dilagante sentimento nazionalista di chi, come il giornale «Vigilia d'arme», faceva notare che l'Italia, pur non essendo in guerra, subiva «danni gravissimi sia nel commercio che nell'industria», a causa soprattutto – nel caso del Modenese – delle difficoltà di esportazione dei prodotti agroalimentari. Il tutto senza contare che il conflitto, precisa Montella, «riduce bruscamente la percentuale delle partenze verso i paesi europei [...] e contemporaneamente accentua i rimpatri, creando una duplice nuova fonte di pressione sulle risorse» di un territorio che già era «angustiato dalla disoccupazione». Queste considerazioni, unite ad alcuni segnali eloquenti (come la creazione di comitati «incaricati di preparare la popolazione civile alle esigenze della guerra») e ad una stampa conservatrice sempre più orientata in favore della guerra, ottennero l'effetto di indurre molti modenesi a giudicare inevitabile l'intervento italiano.
In un clima di crescente tensione – che ebbe il suo acme nel giugno del 1914 con la violenta aggressione alla Camera del Lavoro da parte di alcuni esponenti nazionalisti – la notizia dell'ingresso dell'Italia nel conflitto giunse a Modena dopo settimane di gravi scontri e arresti, tra cui quello del segretario della CdL Nicola Bombacci. In particolare, la guerra portava, secondo la «Gazzetta dell'Emilia», «preoccupazioni d'indole privata poiché non v'è, si può dire, famiglia che non abbia un proprio membro sotto le armi». Il che, oltre alla normale apprensione, creava enormi disagi, dal momento che i richiamati finivano col sottrarre indispensabile forza lavoro, specie nei campi.
Il conflitto presto stravolse le abitudini dei modenesi. Oltre ai provvedimenti straordinari di guerra (norme contro l'alcolismo, limitazioni della circolazione delle auto, sospensione temporanea dell'erogazione di gas e corrente elettrica), si assistette alla conversione alla produzione bellica di numerose fabbriche, alla requisizione di scuole da parte dell'autorità militare e, più in generale, alla diffusione di timori collettivi che inducevano a percepire un po' ovunque la presenza del nemico. Nel campo della beneficenza, dell'assistenza e della produzione divenne essenziale l'apporto delle donne, chiamate, con vecchi e bambini, a sostituire nel lavoro agricolo e industriale i mariti e i figli che si trovavano al fronte. In tutta la provincia, dichiarata nell'agosto del 1915 «zona contumaciale», sorsero inoltre comitati assistenziali, organismi – scrive Montella – che garantivano «il funzionamento delle cucine popolari, degli asili per i figli dei richiamati, delle case per i profughi e dei luoghi di ristoro e di cura alle stazioni».
Di fronte alle difficoltà e alle atrocità della guerra (alla fine del 1915 la provincia contava già più di mille caduti), crebbe il numero dei modenesi bisognosi di assistenza, mentre per combattere la piaga della disoccupazione si procedette alla realizzazione di opere pubbliche (sollecitate in particolare dai socialisti). Per i feriti, all'Ospedale civile furono affiancati, nel solo capoluogo e senza contare le altre strutture della provincia, l'Ospedale contumaciale (presso il Foro Boario), quello della Croce Rossa (in piazzale San Francesco) e l'Ospedale militare di riserva San Paolo («nell'antica sede della Scuola "Regina Elena"»).
A livello psicologico, gli eventi bellici condizionarono fortemente l'opinione pubblica modenese. Dopo le paure legate agli sbandamenti dell'esercito italiano a causa della Strafexpedition, la presa di Gorizia (9 agosto 1916) ebbe l'effetto di portare grande entusiasmo patriottico nelle piazze, attenuando la tensione provocata dalla continua mobilitazione e dalla minaccia di attacchi aerei. Le notizie dai campi di battaglia non potevano però alleviare lo stato di profonda sofferenza della popolazione, spesso incapace, nonostante diverse azioni di calmieramento, di far fronte al caro viveri, alle speculazioni e alla pressione demografica esercitata dai profughi in continuo aumento. Il che, unito ai sentimenti antimilitaristi, divenne motivo di scioperi e proteste che in più occasioni resero necessario l'intervento della forza pubblica, come accadde per esempio a Modena nel maggio del 1917, quando i lavoratori delle industrie militari diedero vita «allo sciopero più importante dell'epoca, per ampiezza e violenza, in Italia».
Nonostante l'intensificazione della propaganda patriottica, il disagio crescente rendeva lo stato di guerra sempre meno accettabile per una popolazione vessata da continue limitazioni. La disfatta di Caporetto dell'ottobre 1917 ebbe pertanto in questo clima di sfiducia e rassegnazione profonde ripercussioni. Per quanto concerneva le operazioni belliche, Modena fu dichiarata ufficialmente «in stato di guerra» e sottoposta, al pari di tutta l'Italia settentrionale, a una sorta di dittatura militare che dava diritto alle autorità di impedire ogni attività politico-sindacale. Più in generale, soldati e profughi invasero in massa l'Emilia, anche perché il Modenese, data «la sua posizione strategica di collegamento tra Bologna, Milano e Verona [...], si conferma come un centro attivo e popoloso per la cura dei feriti, per l'accoglimento dei profughi e per l'acquartieramento e riaddestramento delle truppe». Per far fronte all'emergenza fu persino necessario ricorrere alla requisizione forzata degli alloggi disponibili. Quanto al loro impiego, molti profughi trovarono lavoro «nelle fabbriche e nelle attività legate all'economia di guerra».
L'invasione austriaca del territorio nazionale indusse le autorità a prendere precauzioni contro eventuali incursioni aeree e a promuovere un'opera di estensione delle conoscenze militari tra la popolazione. La propaganda divenne martellante, coinvolgendo tutte le classi sociali e persino i bambini, ai quali, nelle scuole, erano rivolti appelli affinché le famiglie sottoscrivessero i prestiti nazionali. Per quanto riguardava, infine, la riorganizzazione dell'esercito in rotta, furono creati «un campo per la Fanteria a Castelfranco Emilia [...], uno per l'Artiglieria a Mirandola e uno per il Genio a Guastalla. La Scuola e il Deposito Bombardieri [...] si stabiliscono a Sassuolo, Scandiano e Pavullo, il Carreggio e le Salmerie a Copparo e le brigate di marcia a Crevalcore».
La convivenza tra i civili e i militari in attesa di essere rinviati al fronte creò diversi problemi di ordine pubblico (furti, violenze, danni a beni materiali), che si aggiungevano ai drammatici fenomeni della diserzione (e del suo favoreggiamento) e dell'intolleranza nei confronti dei profughi. Più in generale, le fasi conclusive del conflitto furono caratterizzate da un clima di forte tensione, come si evince, del resto, dalle parole infuocate di Mussolini, in visita a Modena il 20 maggio 1918: «I traditori della Patria – disse il futuro duce durante un discorso al Teatro Storchi – [...] debbono essere non condannati a 20 anni di reclusione; ma fucilati 20 volte!».
A rendere più tollerabili i disagi della guerra (tra i quali va annoverata l'epidemia di influenza spagnola, che uccise ben 378 persone nel solo capoluogo) giunsero finalmente, nella seconda metà del 1918, confortanti notizie dal fronte, preludio alla definitiva vittoria delle armi italiane del 4 novembre. La cessazione delle ostilità fu salutata con grande entusiasmo dalla popolazione in festa, in un tripudio di bandiere e illuminazioni che adornavano pressoché tutti gli edifici della città. La guerra era vinta, ma le sue conseguenze più tragiche – disoccupazione, crisi economica, tensioni sociali – avrebbero creato i presupposti per un radicale stravolgimento della vita politica italiana. 

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martedì 16 aprile 2013

Francesco I d'Este: progetti, aspirazioni e velleità del più celebre duca modenese

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 aprile 2013)

Quando nel 1629 colse l'eredità del padre Alfonso III d'Este – che aveva deciso di abdicare per vestire il saio da cappuccino – Francesco aveva soltanto 19 anni e probabilmente avrebbe desiderato un momento più favorevole per diventare sovrano. In Europa, infatti, imperversava dal 1618 la guerra dei Trent'anni, mentre ai confini del ducato, proprio in quel 1629, si facevano sempre più minacciose le armate imperiali, che avevano varcato le Alpi per assediare Mantova nell'ambito del violento conflitto che era sorto tra la Francia e gli Asburgo per la successione a Vincenzo II Gonzaga. Solo dietro versamento di un'ingente somma di denaro – raccolta con l'imposizione di nuove tasse – Francesco riuscì ad impedire che Rambaldo di Collalto, comandante imperiale, facesse alloggiare i suoi lanzichenecchi entro i confini del ducato estense, con tutti i rischi di saccheggio che ne sarebbero derivati.
Nonostante la giovane età, il duca mostrava quindi saldezza di carattere. Ma l'abilità di cui diede subito prova in politica estera non poté comunque risparmiare a Modena la terribile epidemia di peste del 1630, quella descritta dal Manzoni ne I promessi sposi. In poche settimane il contagio falcidiò la popolazione, che, secondo alcune stime, si ridusse da 10.000 a 6.000 unità.
Francesco trascorse il periodo dell'epidemia lontano dalla capitale (si era precauzionalmente trasferito nella villa di Rivalta, presso Reggio), non lesinando comunque aiuti alla popolazione in difficoltà. Rientrato a Modena una volta cessato il pericolo del contagio, portò avanti con energia una politica ambiziosa, finalizzata ad accrescere il prestigio internazionale del ducato estense. L'obiettivo principale era recuperare la vecchia capitale, ceduta nel 1598 dal duca Cesare a papa Clemente VIII. Alla perdita di Ferrara, infatti, Francesco non si rassegnò mai, al punto che «per ottenere la sua alleanza bastava fargli balenare la possibilità di recuperare la capitale dei suoi antenati» (R. Rimondi).
Sposatosi nel 1631 con Maria Farnese, figlia di Ranuccio I duca di Parma, Francesco promosse una politica volta ad elevare Modena al rango di grande capitale (per questo acquistò numerose opere d'arte, commissionò all'architetto romano Bartolomeo Avanzini il progetto di un nuovo palazzo ducale, fece erigere una cittadella pentagonale fortificata e investì ingenti somme per la costruzione di altri edifici, come il Teatro Ducale), cercando insistentemente, nella fase iniziale del suo regno, l'appoggio della Spagna, nei confronti della quale vantava peraltro numerosi crediti. Con spregiudicatezza, per compiacere la corte di Madrid non esitò neppure ad attaccare suo cognato Odoardo Farnese, schieratosi a favore della Francia.
Sempre al fine di rafforzare l'alleanza, dal 1629 al 1633 si trattenne nella capitale di Spagna un'ambasciata guidata dal conte Giambattista Ronchi, incaricata inoltre di fare pressioni per il versamento del denaro che spettava a Francesco (una Capitolazione del 1601 tra re Filippo III e Cesare d'Este prevedeva infatti che la Corona spagnola versasse 12.000 scudi l'anno nella casse modenesi; ma in trent'anni gli Este avevano maturato crediti per circa 375.000 ducati). I risultati, tuttavia, furono deludenti, anche perché la Spagna, prostrata dalla guerra dei Trent'anni, non poteva permettersi di fare troppe concessioni.
L'ambiguità della corte di Madrid emerse peraltro anche nella gestione della successione nel principato di Correggio. Il principe don Siro, infatti, era stato dichiarato decaduto dall'imperatore con l'accusa di falsificazione di monete, non essendo egli stato in grado di pagare la multa di 230.000 fiorini che gli era stata inflitta. La somma fu invece versata nel 1634 dalla Spagna, la quale, previo rimborso, cedette Correggio agli Estensi. Il successo del duca di Modena non fu però totale, dal momento che a don Maurizio, figlio di Siro, si volle concedere il diritto (sempre a patto che fosse sborsata la cifra della multa) di riscattare il principato, con l'intento evidente – ha scritto Rimondi – «di tenere una spada di Damocle sulla testa dell'irrequieto alleato estense». Il tutto si risolse solo nel 1649, grazie ad un favorevole accordo che Francesco riuscì a concludere con don Maurizio.
Anche se l'atteggiamento della Spagna destava qualche perplessità, nei primi dieci anni di governo Francesco gravitò costantemente entro l'orbita di Madrid. Il suo obiettivo, come dimostrò la neutralità osservata nei confronti della Lega di Rivoli (sorta nel 1635 tra il duca di Savoia, la Francia, i Farnese e il ducato di Mantova per contendere agli spagnoli la Lombardia), era con tutta evidenza quello di dar prova di lealtà per ottenere in cambio favori e considerazione. A questo scopo fu infatti inviato a Madrid il diplomatico di corte Fulvio Testi, una prima volta dal 1635 al 1636, e successivamente dal dicembre del 1637 fino al maggio del 1639. In questa seconda occasione lo stesso Francesco volle visitare la corte spagnola: accolto coi massimi onori, ricevette il titolo di Altezza Reale, quello di Ammiraglio dell'Atlantico (con conseguente pensione nominale di 24.000 scudi annui) e vari incarichi per altri membri della casata estense; ma non ottenne altro che vaghe promesse sul possibile recupero di Ferrara, questione che, in realtà, gli stava più a cuore di qualsiasi onorificenza.
Lo scoppio, nel 1641, della guerra di Castro (dominio semi-indipendente del ducato di Parma appetito dal pontefice), sembrò tuttavia offrire un'opportunità di ridiscutere l'assetto politico della penisola italiana. Insieme con Firenze e Venezia, Francesco non esitò a muovere contro il papa, ma dovette presto accorgersi che, più che a difendere Odoardo Farnese, i suoi alleati erano interessati a contenere le ambizioni estensi. «Sicché – ha scritto Luigi Amorth – si assisterà all'assurdo che, malgrado la loro superiorità, Venezia e Modena vedranno minacciato il loro territorio». E, per evitare pericolose sconfitte militari, fu necessario richiamare dalla Germania il generale Raimondo Montecuccoli, che respinse le truppe pontificie che avevano assediato Nonantola.
La pace firmata a Ferrara nel 1644, oltre a confermare l'assetto territoriale prebellico, sanciva l'importante ingresso – quale garante degli accordi – della Francia nel teatro politico italiano. Per Francesco fu l'occasione per stringere contatti col Mazzarino, sulla base di un progetto politico che, constatata l'inaffidabilità di una Spagna prodiga solo di promesse, prevedeva un graduale avvicinamento della casa d'Este alla corte di Parigi. L'esito delle trattative fu la comune partecipazione ad una campagna militare contro il dominio spagnolo di Milano, la quale tuttavia – tra attacchi, ritirate, disaccordi tra i comandanti e piogge torrenziali – non portò ad alcun risultato significativo, anche perché nel frattempo Mazzarino si trovò a dover affrontare la ben più urgente questione della Fronda. Il 27 febbraio 1649 fu dunque firmato un accordo in base al quale Francesco si impegnava a non stringere future alleanze antispagnole.
In quegli anni il duca estense pareva ossessionato dalla politica estera: «Passava – scrive Rimondi – dalle operazioni a fianco dei francesi ai tentativi di riconciliazione con la Spagna, e poi alle proposte di alleanza con Venezia nella guerra di Candia, il tutto in un crescendo inarrestabile di protagonismo che lo rendeva sordo agli inviti alla prudenza del fratello, il cardinale Rinaldo».
Rimasto vedovo, Francesco non trascurò nemmeno la politica matrimoniale, unendosi nel 1648 a Vittoria Farnese (sorella della defunta moglie) e nel 1654, dopo la morte di quest'ultima, a Lucrezia Barberini, pronipote di quel papa Urbano VIII che era stato a lungo suo nemico. Di fatto, si trattava del preludio ad un definitivo rovesciamento delle alleanze, che culminò – specie dopo l'attacco spagnolo a Reggio (1655), fallito per la tenace resistenza della città – nel matrimonio tra l'erede al trono estense, Alfonso, e la nipote del Mazzarino, Laura Martinozzi.
All'offensiva spagnola, che rompeva la tregua del 1649, le truppe modenesi e franco-piemontesi replicarono assediando Pavia, ma l'operazione fu un clamoroso insuccesso. L'anno seguente (1656), Francesco in persona si recò a Parigi per sollecitare aiuti, ricevendo il grado di comandante in capo delle truppe francesi in Italia e, come di consueto, onori e promesse.
Ripresa la guerra, il duca ottenne un immediato successo militare con la conquista di Valenza, ma dovette presto arrestare la sua avanzata a causa del mancato arrivo dei rinforzi francesi. Tra contatti diplomatici in tutte le direzioni e campagne mai decisive, il conflitto pareva in realtà in una fase di stallo, il che avrebbe favorito, di lì a due anni, la cessazione delle ostilità con la pace dei Pirenei. A quella data, tuttavia, Francesco non poté arrivare, stroncato il 14 ottobre 1658 da una forte febbre malarica mentre ancora era impegnato nelle operazioni belliche. Con lui morivano anche molte delle ambizioni politico-militari del ducato estense.

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martedì 9 aprile 2013

«Fugge la schiavitù da queste contrade»: Modena, Napoleone e la breve esperienza della Repubblica Cispadana

(articolo apparso su Prima Pagina del 31 marzo 2013)
 
Quando nel marzo del 1796 Napoleone diede inizio alla campagna d'Italia, in pochi potevano prevedere che il giovane generale corso avrebbe in breve tempo sbaragliato la resistenza austriaca, minacciando di occupare l'intera penisola. Di certo non lo aveva previsto il duca di Modena Ercole III, che anzi – evidentemente fiducioso di poter arginare il dilagare delle armate francesi – per scongiurare il pericolo di un contagio rivoluzionario si era prodigato con ogni mezzo a sua disposizione per dare appoggio materiale all'imperatore d'Austria, di cui peraltro era feudatario. Sgomento di fronte ai successi giacobini, egli aveva infatti inviato dodici cannoni, prestato 715.000 zecchini in aggiunta alla tassa di guerra (che tra Austria e Francia imperversava dal 1792), concesso che reclute dell'esercito ducale fossero arruolate nei reggimenti austriaci, consentito il passaggio attraverso il ducato di truppe ostili ai francesi e, infine, incarcerato i sospetti simpatizzanti della rivoluzione. In sostanza, non un gran biglietto da visita da esibire a Napoleone, il quale, dopo aver battuto gli austriaci a Lodi, il 15 maggio 1796 entrava trionfalmente a Milano.
A quella data, tuttavia, Ercole era già a Venezia. Giudicando oramai segnato il destino dello Stato estense, aveva infatti  precauzionalmente abbandonato Modena il 7 maggio, nominando in tutta fretta un Consiglio di Reggenza. Napoleone, del resto, non era persona incline a fare concessioni, ed anzi era solito gestire con sbrigativa autorità le trattative, specie quando la forza delle armi lo metteva nelle condizioni di imporre il proprio volere. Ed Ercole d'Este questo lo sapeva, o quantomeno lo intuì in anticipo.
All'indomani della sua partenza, il duca, d'accordo con il Consiglio di governo, inviò pertanto un plenipotenziario a Milano per concludere un armistizio, nella speranza che questo gesto di sottomissione potesse indurre il Bonaparte a trattare Modena con benevolenza. Ma si illudeva.
L'accordo che fu sottoscritto il 23 maggio prevedeva infatti durissime condizioni per il ducato estense, tra cui il pagamento, entro un mese, di 7,5 milioni di franchi. Difficile soddisfare una tale richiesta, «anche perché – ha scritto Luigi Amorth – il Duca, che si era portato con sé tre milioni di lire modenesi tolti dai dodici del pubblico erario, faceva orecchie da mercante ad ogni richiesta d'aiuto», preferendo decretare prestiti forzosi.
Una tale politica predatoria era però destinata al fallimento. Il 28 maggio il Consiglio Generale di Reggio approvò, dopo aver istituito una Guardia Civica, la stesura di un documento che costituisce, per certi versi, il primo atto del Risorgimento italiano: trattavasi infatti di un promemoria che affermava i diritti di libertà della città rispetto al potere estense. Di lì alla vera e propria rivoluzione il passo era breve. Il 25 agosto, nella Piazza Maggiore fu piantato un albero della libertà, simbolo – riferisce una cronaca dell'epoca – «d'un'aperta ribbellione al Duca», nonché dell'assunzione dei poteri da parte del Senato di Reggio. All'albero furono poi «infisse due Bandiere di tricolore Francese e Beretta rossa e intorno il seguente motto: "Tremate, o Perfidi, tremate Tiranni alla vista della Sacra Immagine della Libertà"». Era l'atto di nascita della Repubblica Reggiana.
Anche a Modena, nel frattempo, questi fatti accesero la miccia rivoluzionaria. Il 29 agosto duecento soldati ducali dovettero usare la forza per rimuovere un albero della libertà eretto nell'attuale Piazza Grande. Per impedire che la situazione degenerasse, fu concessa tuttavia un'amnistia e pubblicato un editto nel quale il duca rassicurava che avrebbe saldato il debito con i francesi. Ma – spiega Amorth – «erano solo promesse: ché l'esule sovrano, sordo da quel tale orecchio, protestava che i Francesi avevano violato l'armistizio coll'assecondare la ribellione di Reggio».
Di tutt'altro avviso era ovviamente Napoleone, che non a sé, ma ad Ercole III imputava il mancato rispetto del trattato, dal momento che i tempi concessi per il pagamento del tributo non erano da quest'ultimo stati rispettati. Il 4 ottobre, pertanto, il Bonaparte denunciò l'armistizio, prendendo «sotto la protezione dell'Armata Francese li Popoli di Modena, e di Reggio» e dichiarando «nemico della Francia qualsivoglia attentasse alla proprietà, ed ai diritti di questi Popoli». Entrate rapidamente nella capitale estense, il 7 ottobre le truppe francesi innalzarono l'albero della libertà (un pioppo ornato di tricolori francesi e berretto frigio) di fronte alla Ghirlandina, ingiungendo inoltre «a tutti indistintamente» di indossare «la Coccarda tricolorata, [...] distintivo di quella Protezione che dall'Armata Francese è generosamente accordata a questi Popoli». Il giorno seguente fu soppressa la Reggenza estense, in sostituzione della quale si procedette alla nomina di un Comitato di Governo di sette cittadini, all'elezione di nuovi membri della Municipalità e all'istituzione di una Guardia Civica.
Ma per Napoleone Modena era al centro di progetti che andavano ben oltre la cacciata di Ercole III, assumendo importanza tale da giustificare la presenza diretta del generale corso nell'ex capitale estense. Giunto alle porte della città il 15 ottobre, Napoleone vi sarebbe infatti rimasto per ben quattro giorni, accolto da numerosi patrioti entusiasti. Il suo piano prevedeva che  venisse convocato un congresso con un centinaio di deputati di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio al fine di costituire una confederazione per la difesa comune. Il che puntualmente avvenne proprio a Modena dal 16 al 18 ottobre con la fondazione della Confederazione Cispadana, la formazione di una Giunta di Difesa Generale e la diffusione di un duplice proclama «ai popoli della Romagna» e «all'Italia».
Il congresso si pronunciò inoltre sulla formazione di una Legione Italiana, composta da cinque coorti (una per ogni città della Confederazione, più una di patrioti italiani di varia provenienza), ognuna delle quali – fu stabilito – «avrà la sua Bandiera a tre colori Nazionali Italiani, distinte per numero, e adorne degli emblemi della Libertà». Benché si trattasse ancora di vessilli militari, l'adozione della futura bandiera nazionale aveva il pregio di racchiudere in un simbolo la comune militanza democratica, sulla base di un legame Tricolore-repubblica-rivoluzione che veniva mutuato dal modello francese.
Secondo quanto stabilito a Modena, un secondo Congresso Cispadano si aprì a Reggio il 27 dicembre. In un clima di grande fervore rivoluzionario – di cui, in ottobre, erano stati espressione i decreti di abolizione della feudalità e della nobiltà –,  venne proclamata la Repubblica Cispadana, prima forma di Stato unitario italiano dopo secoli di dominazione straniera. Il testo definitivo approvato il 30 dicembre esprimeva infatti la volontà «di formare delle quattro popolazioni una Repubblica una ed indivisibile per tutti i rapporti», e si concludeva con queste entusiastiche parole: «Fugge la schiavitù da queste contrade; fremono, e impallidiscono i tiranni, che prima vi deridevano. Il mondo intero tien l'occhio fiso sopra di voi, ed ansiosa l'Italia attende che voi le ridoniate quell'antico splendore, che la rese grande, e onorata presso tutte le nazioni».
Come emblema della Repubblica, su indicazione di Napoleone, fu scelto «un turcasso con entro quattro frecce, attorniato dalla corona civica». Il 7 gennaio 1797 all'assemblea fu presentata una mozione per rendere «universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso». Era l'atto di nascita del Tricolore, ufficializzato in occasione del terzo Congresso Cispadano, che si tenne a Modena a partire dal 21 gennaio. Al centro della banda orizzontale bianca (rosso in alto, verde in basso) stava il simbolo della Repubblica, così descritto da Ugo Bellocchi, studioso delle origini della bandiera nazionale: «L'arma della Repubblica Cispadana è racchiusa in un ovale che contiene, a sua volta, la corona civica rappresentata dalle tradizionali fronde di alloro. Più al centro, un turcasso, a forma di cono capovolto, con il vertice affondato in un trofeo composto di lance, di un fascio littorio, di due bandiere e di un cannone, ospita quattro frecce. Alla base del turcasso, un tamburo militare; ai lati le lettere R C».
Culmine del processo rivoluzionario fu la redazione della Costituzione Cispadana, ultimata il 28 febbraio con la supervisione di Napoleone. Il 19 marzo il testo fu sottoposto al voto dei cittadini e approvato con netta maggioranza. Esso non divenne mai operante – a causa della volontà del Bonaparte di dar vita alla Repubblica Cisalpina –, ma costituisce comunque un fondamentale documento in cui, come nel Tricolore, si radicavano aspettative e progetti del futuro Risorgimento nazionale.

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mercoledì 3 aprile 2013

Il lavoratore, il «succhione» e il prete: stereotipi, immagini e miti della propaganda socialista

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 marzo 2013)

Il numero dell'8 febbraio 1908 de «Il Domani» (periodico della sezione modenese del Partito socialista italiano) conteneva una vignetta raffigurante un lavoratore in ginocchio calpestato da un prete e da un ricco borghese il quale, poggiandogli una mano sulla testa, tenta di impedirgli di alzare lo sguardo. Sotto il disegno, un breve componimento  in rima chiariva il significato dell'immagine:
«Godiamo fin che il popolo   / sopporta il sacro pondo. / Tutto è follia nel mondo  / ciò che non è  piacer! // Godiam! Fugace e rapido / è il nostro carnevale! / Se un dì quest'animale / si drizza... addio goder!».
L'utilizzo della vignetta in funzione della propaganda costituisce senza dubbio un aspetto da non sottovalutare nell'ambito delle strategie comunicative della stampa socialista di inizio Novecento. L'uso dell'immagine era infatti funzionale alla diffusione dello stereotipo, che – come ha sottolineato Angelo Ventrone in un recente studio – era alla base della definizione del cosiddetto «nemico interno», ovvero l'avversario politico che si voleva delegittimare (in questo caso i ceti abbienti, accusati di sfruttare senza scrupoli l'intera classe lavoratrice). Seguendo l'esempio de «L'Asino» – settimanale satirico socialista fondato da Guido Podrecca nel 1892 – «Il Domani» riprendeva alcune immagini collaudate: in particolare, come nell'esempio appena descritto, erano proposte con continuità le caricature del borghese «succhione» – che ingrassa, anche fisicamente, sfruttando il lavoro di operai e contadini – e del prete, anch'egli obeso, dedito (è il caso di altre numerose vignette de «Il Domani») a pratiche immorali o scandalose. Essenziale era il legame che univa bruttezza e deformità fisica alla depravazione degli avversari politici, nei confronti dei quali si voleva suscitare un sentimento di disgusto e riprovazione.
Alla base della diffusione dello stereotipo stava la convinzione che la denigrazione degli esponenti dei partiti rivali, in particolare quelli clerico-moderati, costituisse il modo migliore per catturare l'interesse di lettori di umile origine. I «preti» – termine volutamente generico e dispregiativo – erano perciò il bersaglio costante di una propaganda aggressiva, talvolta volutamente volgare e blasfema. La lotta non era, infatti, semplicemente politica. Il PSI voleva imporsi come comunità di apostoli di una nuova religione civile, come dottrina alternativa a quella cristiana, la quale pertanto andava abbattuta. Di conseguenza, la parola più comunemente usata per esprimere l'adesione alle idee socialiste era «fede», dal momento che il movimento operaio – si doveva credere – avrebbe inesorabilmente conquistato la vittoria finale nella lotta per l'instaurazione di una società egualitaria. Lo stesso Gramsci, del resto, nel 1916 affermava che il socialismo «è precisamente la religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che è anch'esso una fede, che ha i suoi mistici e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale».
L'odio di classe e la demonizzazione dell'avversario costituivano i pilastri di un'ideologia che si strutturava come strumento di lotta per prevalere su un autentico nemico, che doveva necessariamente apparire agguerrito e potente, ma al contempo corrotto, degenerato e vile. La reazione che si voleva provocare nel lettore ero lo sdegno: per questo era molto più importante la propaganda anticlericale o antiborghese rispetto a quella pro PSI, tenuto conto, peraltro, che – come rilevato da Ventrone – «la propaganda politica ha in sé una componente "persecutiva", che la spinge a presentare i vantaggi di quanto propone ricorrendo in primo luogo al pericolo rappresentato dalla presenza del nemico, dal negativo da cui difendersi».
Le immagini stereotipate del succhione e del prete, per essere realmente efficaci, dovevano però essere accompagnate da ritratti di personaggi edificanti – spesso figure storiche ricondotte, non senza qualche forzatura, all'esperienza del socialismo o, quantomeno, alle ideologie umanitarie che di esso erano state il preludio –, ma anche da precise norme comportamentali alla portata di tutti. L'obiettivo era trasformare la diversità in orgoglio di classe, contrapponendo con fermezza la rettitudine del socialista alla corruzione dei ceti dominanti.
Le norme erano essenzialmente di due tipi, distinte in raccomandazioni positive (comportamenti consigliati) e negative (comportamenti da evitare).
La principale norma positiva, che per certi versi riassumeva tutte le altre, era l'invito alla lettura. «Leggere! Leggere! Leggere! – tuonava infatti "Il Domani" del 18 aprile 1908 – E non già dedicare tutte le ore di ricreazione al ballo, alle bocce e alla morosa». Il messaggio non poteva essere più esplicito. Se l'ignoranza delle masse costituiva un'arma nelle mani della classe dirigente, l'emancipazione del proletariato non poteva prescindere dall'istruzione quale strumento per acquisire la consapevolezza dell'identità di classe. In sostanza – questo era il concetto chiave – non si poteva vincere una guerra di cui non si comprendessero le ragioni.
Non meno importanti erano le norme negative. In buona parte esse si riferivano a comportamenti da evitare perché lesivi dell'immagine del probo socialista e miravano a imporre la più assoluta sobrietà dei costumi. Così, per esempio, «l'alcool è il nemico» e le conseguenze di un suo consumo eccessivo sono «imbestialire, abbruttire, smarrire ogni senso di equità, di moderazione, di decenza». Inoltre, cosa ancor più grave, «chi beve non legge» e «lascia crescere nell'ignoranza e nell'indigenza la moglie e i figli» (articolo del 4 settembre 1909).
Altrettanto pericolosa era «la glorificazione dell’amore», la quale «come passione individuale, sfrenata, che ha diritto di vita e di morte, che non conosce limiti o leggi, è, sotto le apparenze di una teoria libera e ribelle e moderna, il ritorno a costumanze pericolosamente barbariche, è un’affermazione individualistica contro la nostra concezione socialista di una morale in cui gli interessi, i diritti, le passioni dei singoli devono commisurarsi e coordinarsi e armonizzarsi con gli interessi e il diritto più alto della società». Il che ha senso solo se si intende l’amore come forma di egoismo, concessa a patto di non trascurare i doveri nei confronti della comunità. La dimensione collettiva finiva pertanto col prendere il sopravvento, secondo un programma che apertamente mirava alla «formazione di una nuova morale, laica e areligiosa non solo, ma socialista» (articolo del 13 febbraio 1909).
Pure il ruolo sociale della donna doveva essere rivalutato. Ammoniva infatti Anna Kuliscioff: «Che l’operaio intenda quale alto valore ha nella sua battaglia la cooperazione dell’elemento femminile; che esso lo educhi, lo spinga all’organizzazione, ne faccia il suo migliore alleato. […] Cessi di guardare la donna con l’olimpico disprezzo con cui esso a sua volta è guardato dal capitalista. L’operaio […] faccia [della donna] la sua compagna, la sua amica, il suo commilitone. Le sue forze nel movimento ne saranno in un attimo centuplicate» (articolo dell'8 maggio 1909).
Il perfetto socialista era tenuto in sostanza a subordinare la propria esistenza all’interesse del partito. Singolare, a questo proposito, la metafora della donna-commilitone: al pari di un esercito, che necessita di armonia tra i suoi componenti, la società doveva essere rigidamente regolata da norme incontestabili, stabilite in maniera univoca da un organismo al di sopra delle parti. Tutti i membri del PSI – comprese le donne, che costituivano un elemento cardine dell’ordinamento collettivo – assolvevano quindi un compito, erano investiti di una missione che richiedeva fede e dedizione. Il vero militante non poteva accontentarsi di un ruolo passivo, ma al contrario doveva avere l’impressione di essere utile alla causa, di costituire una pedina essenziale nello scacchiere su cui si giocava la battaglia per l’emancipazione del proletariato. Le regole comportamentali e i suggerimenti de «Il Domani» erano perciò funzionali a questo scopo. Attenendosi ad essi, il socialista si sentiva responsabilizzato, incarnando, di fatto, il mito dell'«uomo nuovo», purificato dalla costante opera di persuasione promossa da un partito, quello socialista, che si considerava unico depositario della verità. Un mito che, di lì a qualche anno, il fascismo avrebbe ripreso e, secondo le esigenze nazionalistiche della sua politica, convertito in quello dell'«italiano nuovo» forgiato dal regime.

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