mercoledì 22 ottobre 2014

«Garibaldi in camicia nera»: la strumentalizzazione di un mito dalla marcia su Roma a Salò

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 ottobre 2014)

Fino a non molti anni fa, Garibaldi incarnava un mito trasversale. Praticamente tutte le forze politiche, dalla morte dell’Eroe dei due mondi (avvenuta nel 1882) al consolidamento della Repubblica italiana, si sono contese il diritto di presentarsi come eredi del messaggio garibaldino, ciascuna privilegiando, di volta in volta, specifiche peculiarità dell’icona del Nizzardo. Garibaldi, in altre parole, è stato a lungo l’eroe di tutti: emblema di un’Italia “contro”, ribelle generoso e impavido, ma anche – come è stato scritto – «rivoluzionario disciplinato», capace di mettere da parte convinzioni e sentimenti per lealtà nei confronti di re Vittorio. Da un lato il Generale avventuriero, che presta la spada al servizio di popoli smaniosi di conquistare l’indipendenza; dall’altra il Garibaldi di Teano e dell’Obbedisco.
Tutti possono dunque attingere alla figura mitica di Garibaldi: i socialisti e le forze di sinistra hanno privilegiato l’anticlericalismo e l’istinto ribelle dell’Esule di Caprera, per definizione incompreso e sfruttato dai poteri forti; i cattolici e i liberali hanno posto l’accento sul senso del dovere e sul patriottismo del Nizzardo; persino chi oggi denigra apertamente il Generale (si pensi alla Lega Nord e alla sua campagna diffamatoria tesa a far emergere l’opportunismo di un uomo considerato meschino, rozzo e corrotto) è costretto a fare i conti con un’icona che, piaccia o no, è divenuta negli anni un simbolo universale di italianità. Esiste però, storicamente, un altro Garibaldi, oramai poco noto e forse un po’ ingombrante: si tratta del «Garibaldi in camicia nera» – come lo definisce Elena Pala nel suo ultimo, recente libro (Mursia 2011) –, simbolo dell’ideale passaggio di consegne tra le camicie rosse del Generale e i nuovi italiani di Mussolini, i quali con la marcia su Roma portano a compimento il lungo processo risorgimentale.
Il Garibaldi fascista non ha però, a sua volta, un unico volto. C’è infatti il Garibaldi del Ventennio, che rispecchia sostanzialmente l’immagine del rivoluzionario disciplinato: un eroe – sottolinea la Pala – «governativo, monarchico, leale con le istituzioni e con l’ordine costituito». E poi, dopo l’8 settembre e la risurrezione repubblicana del fascismo di Salò, c’è il Garibaldi «eroe dell’onore», che simboleggia il supremo sacrificio per un ideale, non importa se destinato alla sconfitta.
Il Garibaldi – potremmo definirlo istituzionale – del regime mussoliniano negli anni del consenso incarna pertanto, essenzialmente, i valori della disciplina e dell’obbedienza. L’esaltazione da parte fascista della figura del Generale è funzionale alla legittimazione del regime quale unico erede del Risorgimento: in sostanza, fatta l’unità d’Italia grazie al decisivo apporto dell’Eroe dei due mondi, è al fascismo che spetta – secondo la volontà del duce – il compito di forgiare l’italiano nuovo, il quale, per l’appunto, nei principi dell’obbedienza e della disciplina (si pensi al celebre motto «Credere, obbedire, combattere») deve riconoscere i cardini della propria fedeltà a Mussolini e al partito unico.
A questo servono, del resto, le celebrazioni garibaldine del 1932 (anno carico di suggestioni, in quanto coincidente con il cinquantenario della morte del Generale e con il decennale della marcia su Roma). Significativamente, Mussolini assume in prima persona la regia delle manifestazioni, che culminano, da un lato, con l’allestimento della mostra garibaldina presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma e con la solenne cerimonia di trasposizione della salma di Anita da Genova alla capitale; dall’altro, con l’apertura della mostra della rivoluzione fascista. La scelta della differente tipologia delle celebrazioni – come bene spiega Elena Pala – non è certo affidata al caso: Mussolini intende infatti presentarsi non come un banale emulo dell’Eroe dei due mondi, bensì come colui che ha superato il maestro, portandone a compimento gli insegnamenti. Sottolinea al riguardo Elena Pala: «Laddove Garibaldi è il passato epico da celebrare e ricordare, il Duce è il presente e il futuro da vivere. Questa spinta verso la modernità è già ben rimarcata dal diverso linguaggio artistico utilizzato nel 1932 per l’esposizione garibaldina e, sempre nello stesso anno, in occasione della mostra della Rivoluzione fascista organizzata nel decennale della Marcia su Roma. La prima è impostata secondo canoni espositivi ottocenteschi di maniera. La tradizione garibaldina, appunto perché considerata esangue, è consegnata al suo tempo. Viene per questo musealizzata e celebrata nella mostra attraverso reliquie e cimeli. La seconda esposizione è strutturata, invece, il linea di netta discontinuità con la precedente esperienza. Fa leva su un allestimento audace, aggressivo, di forte impatto sul visitatore che ne risulta fortemente suggestionato e avvinto».
Rispetto a questo Garibaldi, l’eroe mitizzato durante la breve esperienza della Repubblica sociale italiana presenta alcuni tratti di singolare originalità. Se da un lato, infatti, il nuovo regime cerca di recuperare l’immagine consolidata del Generale quale simbolo dell’ideale continuità tra Risorgimento e fascismo, dall’altro la rottura con casa Savoia fa sì che alcune peculiarità del mito garibaldino vengano messe in secondo piano, dal momento che ora sono mutate le esigenze della propaganda. Così – precisa Elena Pala – l’Eroe dei due mondi assume, di fatto, un nuovo volto: «Da leale suddito della monarchia a fiero sostenitore della repubblica. Da condottiero, per destino, votato alla vittoria, a combattente per scelta, mosso solo dall’inderogabile impegno in difesa di una causa nobile. Da dittatore sostenuto dall’intero popolo a indomito comandante di una minoranza eroica».
Il Garibaldi di Salò è, pertanto, essenzialmente un repubblicano che, per il bene dell’Italia, in passato ha saputo mettere da parte le proprie idee per senso del dovere nei confronti della monarchia; ora però che il re ha tradito, egli si erge a supremo difensore della Repubblica, per la quale è disposto a donare, se necessario, la propria vita. Al riguardo, è significativo quanto scrisse il giornale «Brescia Repubblicana» il 2 giugno 1944, in occasione del 62° anniversario della morte del Generale: «Io fui Repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto s’era fatto Campione d’Italia, io ho giurato di obbedirgli e seguire fedelmente la bandiera. […] Guai a noi se invece di stringerci intorno a quel capo, disperderemo la nostra forza in concetti diversi e inutili, o peggio ancora se incominceremo a spargere tra noi i semi della discordia».
A parlare, attraverso queste righe, è Garibaldi, ma è facile scorgere dietro di lui l’immagine di Mussolini (così come è evidente che il riferimento a Carlo Alberto nasconde un’allusione a Vittorio Emanuele III). Al pari di Garibaldi, infatti, anche il duce – fervente repubblicano, secondo il programma del fascismo delle origini – ha accettato di sottomettersi a casa Savoia, convinto di rendere, così facendo, un servizio all’Italia; tuttavia, di fronte alla fuga ignominiosa del re, il senso del dovere impone a Mussolini di assumere il comando della nuova Repubblica, anche se la situazione è critica, pressoché disperata. «Garibaldi – scrive la Pala – diventa per la Repubblica sociale italiana l’icona dell’eroe che non tentenna e, tanto meno, arretra quando la battaglia volge al peggio. Eroe impersonato da Mussolini, che parimenti non mostra di darsi per vinto, anche se la nazione sta per essere sopraffatta da un fronte nemico sovrastante».
Ecco allora che il Garibaldi di Salò diviene l’eroe dell’onore, il simbolo supremo della lealtà, dello spirito di sacrificio e dell’altruismo, contrapposto alla meschinità dei vili traditori della patria. Il Generale, in altre parole, è per il fascismo repubblicano la personificazione dell’ideale della fedeltà disinteressata, di un ideale che, a causa dell’emergenza bellica, assume una marcata connotazione elitaria. Morire per la patria quando tutti sembrano averla abbandonata è pertanto il destino cui va incontro, consapevolmente, il fascista rimasto fedele al duce dopo l’8 settembre. Di nuovo, Mussolini si presenta come l’erede di Garibaldi, come risulta evidente da questo stralcio, tratto da un articolo del «Corriere della Sera» del 2 giugno 1944, che insiste sul concetto della fedeltà al capo: «Fede. Ecco la sua forza, il segreto del suo fascino, la formula del suo magnetismo. Egli sapeva che la fede è dei pochi, dei puri, dei generosi, laddove quella delle moltitudini è spesso soltanto fanatismo; perciò ebbe sempre intorno un manipolo di eletti, e questi teneva sempre sotto carica, persuaso com’era che la fede trasfusa nell’esempio, applicata all’azione, sublimata dal gesto, fosse la massima generatrice di impulsi pugnaci. Dalla fede, unicamente dalla fede, scaturì quel prodigio che fu la spedizione dei Mille». Allo stesso modo, dalla fede doveva venire la volontà di sacrificarsi per la patria tradita e per il fascismo.

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giovedì 16 ottobre 2014

Foibe: il dramma (poco conosciuto) di migliaia di italiani vittime dei partigiani di Tito

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 ottobre 2014)

Si dice il peccato, non il peccatore. Secondo questa consuetudine, non faremo in questa sede il nome del manuale di storia contemporanea consultato, tra i vari disponibili, per verificare la presenza di una clamorosa lacuna: laddove si parla della Seconda guerra mondiale e delle sue drammatiche conseguenze, alla tragedia delle foibe è dedicata una sola misera frase. Il manuale in questione è del 2005, ed è tra i più diffusi nelle università italiane. A proposito di Tito e della guerra di Liberazione condotta dai suoi partigiani, si può leggere solo quanto segue: «Il contrasto fra italiani e slavi – esasperato durante il fascismo dalla dura repressione contro le minoranze etniche condotta dal regime – era riesploso alla fine della guerra, nelle zone occupate dagli jugoslavi, con una serie di sanguinose vendette contro gli italiani, culminate nell’esecuzione di alcune migliaia di persone, gettate nelle foibe (profonde fosse naturali del Carso)».
Il manuale si ferma qui. Non una parola sull’entità di quella che oggi viene spesso definita «pulizia etnica»; non una parola, soprattutto, sulle reali cause che portarono alla morte migliaia di italiani, peraltro riassunte e banalizzate attraverso la sottolineatura di una mera contrapposizione – acuita da vent’anni di fascismo – tra italiani e slavi; non una parola, infine, sulle modalità (atroci) di esecuzione delle vittime. Ma non è tutto. A fine di ogni capitolo, il manuale suggerisce una bibliografia di riferimento per approfondire le tematiche affrontate: una bibliografia, peraltro, in genere piuttosto accurata e ricca di titoli di facile reperibilità. Ebbene: sulle foibe, sul delicato problema del confine italo-slavo, sull’esodo di migliaia di italiani dell’Istria e della Dalmazia, non compare nemmeno un volume.
Certo, un pregio non scontato il manuale comunque ce l’ha: quantomeno, la tragedia delle foibe è citata, seppur in modo incompleto e piuttosto reticente. Ma è un inizio, se si considera che sino a non molti anni fa i libri di scuola non contenevano neppure la parola «foiba». Un esempio, in questo senso, potrebbe essere il comportamento tenuto nel 1999 (quindi oltre 50 anni dopo i fatti in questione) dal sindaco pidiessino di Pisa, il quale rifiutò di intitolare una via della sua città ai martiri delle foibe poiché queste – così disse – erano nient’altro che una «credenza».
Ma passiamo oltre. Cosa sono, di preciso, le foibe, sia dal punto di vista geologico, sia da quello storico? Tra le tante disponibili, una delle definizioni più esaustive ed efficaci è quella di Gianni Oliva (contenuta nel volume Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori 2002): «Dal punto di vista geologico, esse sono un aspetto tipico del paesaggio carsico e indicano le fenditure, profonde anche molte decine di metri, che si aprono sul fondo di una dolina o di una depressione del terreno e che l’erosione millenaria delle acque ha scavato nella spugna della roccia in forme gigantesche e tortuose. Qui, alla fine della Seconda guerra mondiale, sono stati gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani eliminati per motivi politici dall’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito».
Le ondate repressive che ebbero come epilogo gli infoibamenti di italiani furono sostanzialmente due, e vanno ristrette a due fasi temporali ben precise: le settimane successive all’8 settembre 1943 (quando, in seguito allo sbandamento dell’esercito italiano, le forze titine penetrarono oltre confine) e quelle che seguirono alla fine della guerra, in coincidenza con l’occupazione di Trieste e di parte della Venezia Giulia da parte dei partigiani slavi.
Epicentro della prima ondata fu l’Istria. In seguito all’avanzamento delle formazioni di Tito, il potere venne assunto (fatti salvi i centri strategici di Trieste, Pola e Fiume, prontamente occupati dai tedeschi) dal movimento di Liberazione jugoslavo, che procedette immediatamente ad arrestare decine di italiani (ufficialmente compromessi con il fascismo). «Ben presto però – scrive Raoul Pupo –, il campo delle violenze si allargò fino a coinvolgere le figure più rappresentative delle comunità italiane [...], vittime di una fiammata di furore nazionalista che però non era fine a se stessa, ma funzionale a un disegno politico di distruzione della classe dirigente italiana, che era vista come un ostacolo all’affermazione del nuovo corso politico».
Cosa accadde di preciso a quelle persone fu evidente nel momento in cui i tedeschi rioccuparono con una controffensiva i territori caduti in mano slava. Il velo dell’omertà che aveva tenuto nascosta la sorte di circa un migliaio di potenziali vittime, scomparse nel nulla, venne pian piano dissolto da alcune testimonianze che consentirono di individuare le foibe come luogo di sepoltura di decine di cadaveri. Nel dicembre del 1943 cominciarono le prime operazioni di recupero delle salme, le quali portarono ad un’agghiacciante scoperta: spesso i corpi delle vittime si presentavano legati tra loro e con i polsi serrati dal filo di ferro: per ogni gruppo di infoibati, era frequente che solo il primo cadavere presentasse ferite da arma da fuoco, segno evidente che i partigiani slavi non di rado sparavano solo al primo condannato, in modo che questo con il proprio peso trascinasse nel baratro decine di persone ancora vive, con una sorta di effetto-domino.
La seconda ondata repressiva ebbe inizio nel maggio del 1945, allorché le formazioni di Tito estesero il loro controllo su gran parte della Venezia Giulia. L’obiettivo del maresciallo era chiaro: precedere le forze alleate nell’occupazione di quei territori che costituivano oggetto di rivendicazione, al fine di garantirsene l’annessione in sede di trattative di pace. Trieste e il Goriziano, in altre parole, dovevano cadere in mano slava prima dell’arrivo degli anglo-americani e, soprattutto, dovevano essere resi inoffensivi nei confronti di Belgrado: urgeva pertanto il pugno di ferro contro qualsiasi manifestazione di ostilità all’annessione alla Jugoslavia. Ripresero così gli infoibamenti, che colpirono anche sloveni e croati contrari al nuovo regime, ma soprattutto gli italiani, in gran parte ritenuti sospetti (in quanto quasi tutti, ovviamente, contrari all’annessione) per una mera questione di appartenenza etnica. Scrive al riguardo Maurizio Tortorella: «Quella nuova guerra così brutale e nascosta, in quanto esplosa a conflitto mondiale ormai terminato, in gran parte della regione durò almeno fino all’11 maggio 1945, quando gli Alleati angloamericani decisero di non tollerare oltre le prepotenze territoriali e i continui sconfinamenti del regime jugoslavo e stabilirono un argine più solido alle sue pretese, inviando nuove truppe – formate soprattutto da soldati neozelandesi – a prendere in pugno la situazione. Nella Venezia Giulia si stabilirono allora i primi, incerti, confini tra Est e Ovest. Nella zona finita sotto il controllo degli eserciti occidentali ricominciarono immediatamente le tristi operazioni di recupero dei cadaveri, e le foibe ne restituirono in silenzio prima a decine, quindi a centinaia, infine a migliaia».
Ma quante furono, in totale, le vittime italiane delle foibe? Rispondere senza approssimazione risulta complicato, se non impossibile, a causa delle enormi difficoltà incontrate nel recupero e nell’identificazione dei corpi. Secondo Raoul Pupo e Gianni Oliva la cifra più verosimile si aggira intorno alle 4-5000 unità, cui però andrebbero aggiunti i deportati e le persone scomparse. Con tutta evidenza, si tratta di numeri consistenti, che mal si conciliano con il silenzio che ha avvolto l’intera tragedia delle foibe fino a non molti anni fa. Silenzio che – come spiega Oliva – se ha più di una motivazione razionale (la volontà del governo italiano di non contrariare Tito dopo la sua rottura con Stalin, nella speranza di attrarre la Jugoslavia nell’orbita occidentale; il desiderio di lasciarsi alle spalle un triste passato e di non soffermarsi su una pagina di storia – quella relativa al confine orientale – che era una prova concreta di come l’Italia avesse perso la guerra; l’imbarazzo del PCI per l’ambiguità di Togliatti, il quale, messo alle strette da Tito, si era detto favorevole all’occupazione slava della Venezia Giulia ma non all’annessione, per la quale, a suo parere, si sarebbe dovuta esprimere la conferenza di pace), non per questo risulta giustificabile o tollerabile.
Oggi, a distanza di settant’anni da un dramma collettivo cui è stata a lungo (e, per certi versi, è tuttora) negata una memoria condivisa, forse un modo valido per onorare il ricordo di migliaia di morti dimenticati è quello di rileggere le testimonianze dei pochi fortunati che, per miracolo, riuscirono a sopravvivere all’inferno delle foibe. Concludiamo pertanto con il racconto di uno di loro, Graziano Udovisi, insegnante istriano: «Eccoci a Fianona, notte alta. Questa volta ci hanno rinchiusi in una ex caserma. Venti persone in una stanza tre per quattro. Poi ci fanno uscire e comincia la marcia verso la foiba. Il destino era segnato e avevo un modo solo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo: “Morte al fascismo, libertà ai popoli”, uno slogan che ripetono a ogni piè sospinto. Io mi tuffo dentro la foiba e precipito sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Poi, quando tutti i rumori cessarono, cominciai a risalire, raggiunsi la superficie. Evidentemente, non era ancora arrivata la mia ora».

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giovedì 9 ottobre 2014

«Storia dei preti uccisi dai partigiani»: vittime scomode, vittime dell’odio, vittime dimenticate

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 ottobre 2014)

Roberto Beretta è un giornalista di «Avvenire» autore di un libro scomodo, nonché unico nel suo genere. Il volume si intitola Storia dei preti uccisi dai partigiani: pubblicato nel 2005 da Piemme, oggi è esaurito e pressoché introvabile nelle librerie. Il che, spiace tanto doverlo sottolineare, non è certo un’anomalia, considerato che i libri di storia – a parte qualche rara eccezione – hanno spesso vita breve e, se non accompagnati da clamore mediatico (si pensi a Giampaolo Pansa…), finiscono presto nel cosiddetto “dimenticatoio”.
Eppure di pregi il libro di Beretta ne ha parecchi, in particolare quello di raccogliere in un solo volume le biografie di tutti i sacerdoti trucidati – per vendetta, per odio di classe, per fanatismo ideologico – dai partigiani comunisti prima, durante e dopo la Liberazione. In sostanza, una scheda per ogni prete, con la ricostruzione delle circostanze che lo portarono alla morte. E il quadro che ne risulta – per chi è cresciuto nel culto di Giovannino Guareschi e dei suoi indimenticabili don Camillo e Peppone – è francamente sconcertante. Come precisa infatti Beretta, nei giorni della “resa dei conti” «ben altro Peppone affrontava mitra alla mano il suo inerme don Camillo, “prelevandolo” di notte dalle canoniche, eliminandolo senza più nemmeno farne ritrovare il corpo, tendendogli agguati che si concludevano spesso con un colpo alla nuca, torturando o ammazzandolo di botte dopo un sommario “processo popolare”. Almeno 80 preti l’ex partigiano Giuseppe Bottazzi alias Peppone uccise in Italia tra il 1944 e il 1951, senza contare gli altri 50 omicidi di ecclesiastici avvenuti sul confine nord-orientale: dove anche i comunisti di Tito compivano la loro strage. Tutto il Centro-nord della Penisola fu interessato, in periodi diversi, dal massacro; che spesso si verificò senza alcuna necessità di guerra né per “punire” passati crimini fascisti».
In questa sede, per ovvie questioni di spazio, non è possibile prendere in esame tutte le biografie contenute nel libro. Dovendo quindi effettuare delle scelte, si è deciso di raccontare brevemente le vicende che videro coinvolti i sacerdoti della provincia di Modena, che in totale furono sei. I loro nomi – superfluo sottolinearlo – sono pressoché sconosciuti: dato, questo, di per sé già piuttosto significativo.
Il primo prete modenese che si incontra nel libro è don Ernesto Talé, parroco di Castellino delle Formiche (presso Guiglia), ucciso l’11 dicembre 1944 da «una “scheggia impazzita” della Resistenza». La sua vicenda è paradossale. Nell’estate del 1944, infatti, don Talé fu prelevato durante un rastrellamento compiuto dai nazifascisti con l’accusa di essere una spia. Fatto salire su un camion, riuscì a fuggire sfruttando il parapiglia seguito ad un’imboscata partigiana e a trovare rifugio presso un confratello, parroco di Guiglia. Anche i cosiddetti ribelli, però, ce l’avevano con lui, e lo accusavano di essere il responsabile del rastrellamento. Fu così che la notte dell’11 dicembre, con la scusa che un ferito necessitava di assistenza, don Talé fu prelevato. Ad accompagnarlo c’era la sorella, che gli faceva da perpetua: entrambi – ingannati, giacché non c’era nessun moribondo – furono sottoposti a un breve “processo popolare” e giustiziati. A quanto pare, il sacerdote fu pugnalato e finito a colpi di zappa sulla testa.
Il secondo sacerdote è don Giuseppe Preci, parroco di Montalto di Montese. A guerra terminata, dopo il 25 aprile, cominciarono a girare voci secondo le quali la vita del prete era in pericolo. Don Preci, però, non se ne curava: «Che cosa volete che mi facciano; mi daranno alcune sbroccate!», rispondeva a chi tentava di avvertirlo. Ma la minaccia era reale. La sera del 24 maggio 1945 subì infatti la stessa sorte di don Talé: identica. Stessa scusa del finto moribondo e medesimo esito, solo con modalità differenti: don Preci fu ucciso a colpi di pistola, a quanto sembra con l’accusa – peraltro smentita categoricamente da più testimoni – di avere collaborato con i tedeschi. Quattro anni dopo la sua morte, due giovani di Montalto di Montese furono arrestati con l’accusa di omicidio, ma, stando a quanto riporta Beretta, c’è motivo di credere che fossero due prestanome sacrificati dal partito comunista per coprire il vero esecutore dell’assassinio, un partigiano «molto prestigioso».
Il terzo prete ucciso è don Giovanni Guicciardi, parroco di Lama Mocogno, paese – scrive Beretta – dove risiedeva dal 1919 e «dove si era reso benemerito con molte opere: la costruzione della sacrestia e della canonica, il completamento della chiesa, la sistemazione del campanile, dell’abside, degli altari, del pavimento...». La notte del 10 giugno 1945 due loschi figuri, qualificatisi alla porta come «Partigiani», fecero irruzione in canonica e, pistola alla mano, derubarono il sacerdote di tutto il denaro e degli oggetti preziosi. Dopodiché uno dei due fece fuoco, probabilmente alle spalle. Al funerale, che si tenne il 13 giugno, partecipò una folla numerosa, segno evidente che don Guicciardi era amato dai suoi parrocchiani. Il colpevole dell’omicidio fu individuato pochi giorni dopo e morì in uno scontro a fuoco con un carabiniere: aveva ancora indosso la maglia di lana sottratta al prete.
Il quarto sacerdote vittima dei partigiani è don Giuseppe Lenzini, parroco di Crocette di Pavullo. Scrive Roberto Beretta: «Andarono a cercarlo fin sul campanile, proprio dove lui aveva nascosto alcuni partigiani durante la guerra, e lo trascinarono via in camicia da notte e scalzo. Eppure era un sacerdote ormai anziano, i cui interessi erano sempre stati soprattutto per la cultura, la meditazione e l’assistenza ai malati». Con il consueto pretesto del moribondo, la notte del 20 luglio 1945 i partigiani l’avevano mandato a chiamare: ma don Lenzini non aveva abboccato, rifugiandosi sul campanile. Tutto inutile, però: servendosi di una scala, i carnefici raggiunsero una finestra a ben sette metri di altezza e irruppero nella cella campanaria. Il prete fu trascinato fuori dalla chiesa e picchiato, sembra, per il suo rifiuto di obbedire quando gli fu ordinato di bestemmiare. Il suo cadavere (crivellato di proiettili e, complessivamente, in pessimo stato a causa delle violenze e delle percosse) fu ritrovato circa una settimana dopo, il 27 luglio, semisepolto in una vigna. Pare che all’origine delle sentenza di morte vi fosse una predica anticomunista pronunciata durante una messa e, in generale, l’animo da sempre battagliero di don Lenzini, che in gioventù aveva più volte preso posizione contro i comizi del socialista Gregorio Agnini. Il processo per il suo assassinio, che si tenne nel 1949 in un clima ancora caratterizzato da forti intimidazioni, si risolse in un nulla di fatto per mancanza di prove.
Il quinto prete è don Francesco Venturelli, arciprete di Fossoli e cappellano del campo di concentramento. Qui, come precisa Beretta, «assiste tutti: prima gli inglesi, poi gli ebrei e i deportati politici (sottoposti a un regime assai duro, in quanto il campo era passato alla gestione tedesca), i partigiani, infine i fascisti e gli ex collaborazionisti». La sua era carità cristiana, che andava al di là della politica. Si aggiunga inoltra che don Venturelli non era fascista e a Fossoli fu ripreso più di una volta per aver favorito lo smistamento clandestino della corrispondenza tra i detenuti e i loro familiari. Ma il peggio, per lui, venne dopo la fine della guerra, quando il campo divenne un centro di raccolta che ospitava prigionieri in attesa di trasferimento, ex fascisti compresi. Il fatto che don Venturelli facesse loro visita era tollerato, ma quando il prete introdusse nel campo il foglio dei Francescani di San Cataldo («La lanterna»), giudicato «antidemocratico» dai comunisti, alcuni sedicenti «Partigiani» ritennero di avere subito un’imperdonabile provocazione. Quello che accadde in seguito rispecchia il solito copione: la sera del 15 gennaio 1946 venne richiesta la presenza dell’arciprete in seguito ad un incidente mortale sulla provinciale Carpi-Modena. Don Venturelli abboccò, e appena uscito di casa fu raggiunto da tre colpi di pistola. In seguito, non vi fu alcun processo: il colpevole non fu mai trovato.
L’ultimo prete ucciso è don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo (frazione di Castelfranco). Fu una delle 44 vittime della cosiddetta «banda di Castelfranco», che con otto uomini armati lo prelevò la notte del 25 maggio 1945 dopo avere abbattuto il portone della canonica a colpi d’ascia. Della morte di don Tarozzi non si seppe più nulla: il suo corpo non è mai stato ritrovato, anche se, secondo più di una voce, è probabile che si sia evitato appositamente di cercarlo. Il movente fu sin da subito poco chiaro, ma è evidente che alla base dell’assassinio stava l’odio di classe. Per questo e per altri quattro omicidi sei persone furono condannate a diversi anni di carcere in seguito al processo che si svolse nel 1951.
Come anticipato, il libro di Beretta contiene oltre cento di queste brevi biografie. Più di cento preti assassinati, il più delle volte, per il solo fatto di essere uomini di Chiesa, a causa di un fanatismo ideologico che, in teoria, non avrebbe potuto trovare giustificazione nemmeno nel clima infuocato della lotta di Liberazione. Oggi, a distanza di sessant’anni da quei tragici eventi, è senza dubbio giunta l’ora di mostrare un po’ di rispetto per quei morti: persone innocenti, vittime dell’odio che un paese civile e democratico ha il dovere di non dimenticare.

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