(articolo apparso su Prima Pagina del 15 giugno 2014)
Ventisette anni dopo le Lettres
persanes (nel 1748), l'Europa torna al centro della riflessione di
Montesquieu nelle pagine di quella che è senza dubbio la sua opera più celebre:
l'Esprit des lois. Rispetto agli scritti della giovinezza, qui il
concetto di Europa si storicizza, a partire sempre dal principio cardine del
vecchio continente terra di libertà politica sin dalle prime esperienze delle poleis
e della Roma repubblicana. Ma la libertà, per Montesquieu, non è una
prerogativa della sola civiltà classica: anzi, i veri precursori della
monarchia costituzionale – la forma di governo che lo scrittore francese predilige,
dal momento che il potere del sovrano è limitato dalla nobiltà e dalle leggi
fondamentali – sono i Germani, per i quali il re è un primus inter pares,
non un despota.
L'opera di Montesquieu va inserita
entro il contesto della lunga querelle sull'origine della monarchia
francese, la quale vede contrapposti due schieramenti: quello facente capo al
conte di Boulainvilliers – per il quale l'antica libertà franco-germanica aveva
subito nei secoli ripetuti attacchi da parte di un potere monarchico desideroso
di farsi assoluto –; e quello dell'abate Du Bos, caposcuola della corrente
cosiddetta «romanistica» secondo la quale la libertà germanica, per divenire
autentica, aveva dovuto subire l'influenza latina. L'Esprit des lois
recupera pertanto alcuni elementi di questa polemica: in particolare, l'opera
guarda con ammirazione al Medioevo, epoca di compiuta maturazione della libertà
politica. Ma non solo. L'aspetto forse più interessante dello scritto di
Montesquieu è la rivalutazione, rispetto alle Lettres persanes, del
cristianesimo, ora ritenuto la religione che, tra tutte, meglio si concilia con
le forme di governo temperato (mentre il musulmanesimo e i riti cinesi si
accordano preferibilmente con il dispotismo orientale).
Come sottolinea Federico Chabod, si
coglie in questa inedita valorizzazione del Medioevo e del cristianesimo una
profonda spaccatura tra il pensiero di Montesquieu e quello di Voltaire: «Il primo
muove da un interesse "politico"; antiassolutista e perciò [...]
preso da ammirazione per l'antica libertà germanica, si volge ad un certo punto
con simpatia verso quel Medioevo, che era stato [...] il periodo in cui quella
libertà aveva prosperato. Il secondo muove da interessi essenzialmente
"culturali": e perciò, già avverso a quel Medioevo che per lui
rappresenta [...] il "deserto" nella storia della cultura e della
intelligenza, da questo suo disprezzo per il "gotico", l'età dei
monaci e della barbarie culturale, vede rinfocolato ancor più il suo continuo,
fremente anticlericalismo, anzi anticristianesimo».
Quello che però più interessa in
questa sede è la rivalutazione, nell'Esprit des lois, dell'Europa, terra
in cui convivono molti piccoli Stati (il che è garanzia di libertà, giacché «un
grande impero presuppone un'autorità dispotica»), dediti a proficui scambi commerciali
e uniti sotto il profilo culturale. Per il Montesquieu maturo è evidente che
«la storia non offre nulla che possa essere paragonato al grado di potenza a
cui l'Europa è pervenuta». Il che, in altre parole, significa professare
massima fiducia nel futuro e nel progresso (prerogativa del vecchio
continente), nella convinzione che mentre gli antichi «scrivevano sulla sabbia,
noi scriviamo sul bronzo».
Anche Voltaire, seppur da una diversa prospettiva, è profondamente
europeista. Certo, egli sarà sempre ricordato per il suo cosmopolitismo (e per
le sue lodi ai popoli dell'India – cui gli occidentali devono molte invenzioni
– e della Cina – espressione di una civiltà precocissima, caratterizzata da un'elevata
moralità, che forse non ha eguali nel mondo); ma è del tutto evidente che gli
elogi delle antiche civiltà orientali sono strumentali per muovere severe
critiche alla religione (fanatica e intollerante) e alla prassi politica del
vecchio continente. Come già in Montesquieu, si tratta
in un certo senso della consueta questione dei difetti di applicazione, anche
se in Voltaire – che sostituirebbe la religione con un'etica costituita
essenzialmente da precise «norme di vita» – l'avversione nei confronti del
cristianesimo è drastica. Ciò che però nemmeno l'autore del Candido si sogna di mettere in
discussione è la netta superiorità europea nel campo scientifico e culturale:
il punto, a suo parere, è che pur essendo stati i precursori in quasi tutti i
rami del sapere, i popoli orientali (in particolare la Cina) si sono fermati in
quanto a progresso, e sono stati nettamente sopravanzati dagli abitanti del
vecchio continente. Le ragioni di questo ritardo sono sostanzialmente due: il
forte attaccamento alla tradizione e la natura arcaica di un linguaggio che non
è stato capace di adottare l'alfabeto in luogo della scrittura simbolica.
Quindi, ancora una volta, Europa è sinonimo di scienza e
progresso. Ma, ed è questo il contributo più originale di Voltaire,
c'è dell'altro: il vecchio continente è infatti la patria delle arti e delle
lettere. È per merito della sua superiore cultura umanistica che l'Europa ha
potuto sopravvivere a guerre e contrasti religiosi, poiché «quando una nazione
conosce le arti, quando essa non è soggiogata dallo straniero, essa esce
facilmente dalle sue rovine e si risolleva sempre». Là dove, invece, le arti
decadono (e qui Voltaire ha in mente soprattutto il Medioevo, periodo di
decadenza culturale rispetto all'antichità), si fa strada, inesorabile, la
barbarie.
A parere del filosofo francese, nella
storia dell'uomo si possono enumerare «quattro età felici» nelle quali «le arti
sono state perfezionate»: l'età di Pericle, quella di Cesare ed Augusto, il Rinascimento
e, infine, il secolo di Luigi XIV. Tutte epoche – guarda caso – appartenenti
alla storia europea, alla storia, cioè, di un continente che non ha eguali al
mondo sotto il profilo culturale. In altre parole, l'Europa che esce dalla
penna di Voltaire è innanzitutto una repubblica letteraria, un'autentica «società
degli spiriti» unita grazie ai legami che «i veri scienziati in ogni ramo hanno
stretto». Tutti gli altri aspetti (si pensi soprattutto alla socievolezza e
alla libertà delle donne), seppure non possano dirsi del tutto trascurabili,
sono secondari. E, a questo proposito, è opportuno rilevare come l'autore del Candido
porti a compimento la riflessione inaugurata dagli umanisti italiani e
approfondita da Erasmo da Rotterdam, secondo la quale Europa è sinonimo di
cultura. Voltaire, va detto, ha perso rispetto ai dotti del Rinascimento il
senso di reverentia nei confronti della religione; ma, al di là di
questo, è evidente che i presupposti ideologici sono gli stessi.
L'Europa degli illuministi è dunque
un'entità compatta ed unitaria, così radicata oramai nelle coscienze dei suoi
abitanti da resistere al forte impatto del nazionalismo tardo-settecentesco. Di
per sé, l'attacco potrebbe essere mortale, dal momento che non pochi – scrive
Chabod – temono che «l'universalità soffochi l'individualità». Tra questi è
Rousseau, dell'idea che i singoli componenti dell'Europa formino realtà del
tutto diverse tra loro: sottoporle alle stesse regole, afferma, sarebbe un
grave errore, paragonabile a quello compiuto dallo zar Pietro il Grande nel
dare avvio ad un processo di europeizzazione forzata (e quindi snaturante)
della Russia. Ma, pur con queste perplessità, nemmeno l'autore del Contratto
sociale può negare che «tutte le potenze dell'Europa costituiscono tra di
loro una specie di sistema che le unisce con una stessa religione, con un
identico diritto delle genti, con i costumi, con le lettere, con il commercio e
con una sorta di equilibrio ch'è l'effetto necessario di tutto ciò». Il che fa
dell'Europa «non soltanto, come l'Asia o l'Africa, una collezione ideale di
popoli che non hanno di comune che un nome, ma una società reale che ha la sua
religione, i suoi costumi, le sue abitudini e perfino le sue leggi, da cui
nessuno dei popoli che la compongono può scostarsi senza provocare
immediatamente dei torbidi».
Rousseau, pertanto, contesta la sua
Europa – quella in cui vive –, ma certo non l'idea di Europa in generale. A suo
parere il sistema dell'equilibrio (sempre in pericolo, minacciato di volta in
volta dalla prepotenza dei singoli) dovrebbe essere sostituito da «un vero
corpo politico», ovvero da un organismo federale rispettoso delle autonomie
nazionali. Come è evidente, a piccoli passi ci si incammina verso l'Europa
attuale. (Continua)
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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