mercoledì 18 giugno 2014

«Storia dell’idea d’Europa»: un grande classico della storiografia (quarta parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 giugno 2014)

Ventisette anni dopo le Lettres persanes (nel 1748), l'Europa torna al centro della riflessione di Montesquieu nelle pagine di quella che è senza dubbio la sua opera più celebre: l'Esprit des lois. Rispetto agli scritti della giovinezza, qui il concetto di Europa si storicizza, a partire sempre dal principio cardine del vecchio continente terra di libertà politica sin dalle prime esperienze delle poleis e della Roma repubblicana. Ma la libertà, per Montesquieu, non è una prerogativa della sola civiltà classica: anzi, i veri precursori della monarchia costituzionale – la forma di governo che lo scrittore francese predilige, dal momento che il potere del sovrano è limitato dalla nobiltà e dalle leggi fondamentali – sono i Germani, per i quali il re è un primus inter pares, non un despota.
L'opera di Montesquieu va inserita entro il contesto della lunga querelle sull'origine della monarchia francese, la quale vede contrapposti due schieramenti: quello facente capo al conte di Boulainvilliers – per il quale l'antica libertà franco-germanica aveva subito nei secoli ripetuti attacchi da parte di un potere monarchico desideroso di farsi assoluto –; e quello dell'abate Du Bos, caposcuola della corrente cosiddetta «romanistica» secondo la quale la libertà germanica, per divenire autentica, aveva dovuto subire l'influenza latina. L'Esprit des lois recupera pertanto alcuni elementi di questa polemica: in particolare, l'opera guarda con ammirazione al Medioevo, epoca di compiuta maturazione della libertà politica. Ma non solo. L'aspetto forse più interessante dello scritto di Montesquieu è la rivalutazione, rispetto alle Lettres persanes, del cristianesimo, ora ritenuto la religione che, tra tutte, meglio si concilia con le forme di governo temperato (mentre il musulmanesimo e i riti cinesi si accordano preferibilmente con il dispotismo orientale).
Come sottolinea Federico Chabod, si coglie in questa inedita valorizzazione del Medioevo e del cristianesimo una profonda spaccatura tra il pensiero di Montesquieu e quello di Voltaire: «Il primo muove da un interesse "politico"; antiassolutista e perciò [...] preso da ammirazione per l'antica libertà germanica, si volge ad un certo punto con simpatia verso quel Medioevo, che era stato [...] il periodo in cui quella libertà aveva prosperato. Il secondo muove da interessi essenzialmente "culturali": e perciò, già avverso a quel Medioevo che per lui rappresenta [...] il "deserto" nella storia della cultura e della intelligenza, da questo suo disprezzo per il "gotico", l'età dei monaci e della barbarie culturale, vede rinfocolato ancor più il suo continuo, fremente anticlericalismo, anzi anticristianesimo».
Quello che però più interessa in questa sede è la rivalutazione, nell'Esprit des lois, dell'Europa, terra in cui convivono molti piccoli Stati (il che è garanzia di libertà, giacché «un grande impero presuppone un'autorità dispotica»), dediti a proficui scambi commerciali e uniti sotto il profilo culturale. Per il Montesquieu maturo è evidente che «la storia non offre nulla che possa essere paragonato al grado di potenza a cui l'Europa è pervenuta». Il che, in altre parole, significa professare massima fiducia nel futuro e nel progresso (prerogativa del vecchio continente), nella convinzione che mentre gli antichi «scrivevano sulla sabbia, noi scriviamo sul bronzo».
Anche Voltaire, seppur da una diversa prospettiva, è profondamente europeista. Certo, egli sarà sempre ricordato per il suo cosmopolitismo (e per le sue lodi ai popoli dell'India – cui gli occidentali devono molte invenzioni – e della Cina – espressione di una civiltà precocissima, caratterizzata da un'elevata moralità, che forse non ha eguali nel mondo); ma è del tutto evidente che gli elogi delle antiche civiltà orientali sono strumentali per muovere severe critiche alla religione (fanatica e intollerante) e alla prassi politica del vecchio continente. Come già in Montesquieu, si tratta in un certo senso della consueta questione dei difetti di applicazione, anche se in Voltaire – che sostituirebbe la religione con un'etica costituita essenzialmente da precise «norme di vita» – l'avversione nei confronti del cristianesimo è drastica. Ciò che però nemmeno l'autore del Candido si sogna di mettere in discussione è la netta superiorità europea nel campo scientifico e culturale: il punto, a suo parere, è che pur essendo stati i precursori in quasi tutti i rami del sapere, i popoli orientali (in particolare la Cina) si sono fermati in quanto a progresso, e sono stati nettamente sopravanzati dagli abitanti del vecchio continente. Le ragioni di questo ritardo sono sostanzialmente due: il forte attaccamento alla tradizione e la natura arcaica di un linguaggio che non è stato capace di adottare l'alfabeto in luogo della scrittura simbolica.
Quindi, ancora una volta, Europa è sinonimo di scienza e progresso. Ma, ed è questo il contributo più originale di Voltaire, c'è dell'altro: il vecchio continente è infatti la patria delle arti e delle lettere. È per merito della sua superiore cultura umanistica che l'Europa ha potuto sopravvivere a guerre e contrasti religiosi, poiché «quando una nazione conosce le arti, quando essa non è soggiogata dallo straniero, essa esce facilmente dalle sue rovine e si risolleva sempre». Là dove, invece, le arti decadono (e qui Voltaire ha in mente soprattutto il Medioevo, periodo di decadenza culturale rispetto all'antichità), si fa strada, inesorabile, la barbarie.
A parere del filosofo francese, nella storia dell'uomo si possono enumerare «quattro età felici» nelle quali «le arti sono state perfezionate»: l'età di Pericle, quella di Cesare ed Augusto, il Rinascimento e, infine, il secolo di Luigi XIV. Tutte epoche – guarda caso – appartenenti alla storia europea, alla storia, cioè, di un continente che non ha eguali al mondo sotto il profilo culturale. In altre parole, l'Europa che esce dalla penna di Voltaire è innanzitutto una repubblica letteraria, un'autentica «società degli spiriti» unita grazie ai legami che «i veri scienziati in ogni ramo hanno stretto». Tutti gli altri aspetti (si pensi soprattutto alla socievolezza e alla libertà delle donne), seppure non possano dirsi del tutto trascurabili, sono secondari. E, a questo proposito, è opportuno rilevare come l'autore del Candido porti a compimento la riflessione inaugurata dagli umanisti italiani e approfondita da Erasmo da Rotterdam, secondo la quale Europa è sinonimo di cultura. Voltaire, va detto, ha perso rispetto ai dotti del Rinascimento il senso di reverentia nei confronti della religione; ma, al di là di questo, è evidente che i presupposti ideologici sono gli stessi.
L'Europa degli illuministi è dunque un'entità compatta ed unitaria, così radicata oramai nelle coscienze dei suoi abitanti da resistere al forte impatto del nazionalismo tardo-settecentesco. Di per sé, l'attacco potrebbe essere mortale, dal momento che non pochi – scrive Chabod – temono che «l'universalità soffochi l'individualità». Tra questi è Rousseau, dell'idea che i singoli componenti dell'Europa formino realtà del tutto diverse tra loro: sottoporle alle stesse regole, afferma, sarebbe un grave errore, paragonabile a quello compiuto dallo zar Pietro il Grande nel dare avvio ad un processo di europeizzazione forzata (e quindi snaturante) della Russia. Ma, pur con queste perplessità, nemmeno l'autore del Contratto sociale può negare che «tutte le potenze dell'Europa costituiscono tra di loro una specie di sistema che le unisce con una stessa religione, con un identico diritto delle genti, con i costumi, con le lettere, con il commercio e con una sorta di equilibrio ch'è l'effetto necessario di tutto ciò». Il che fa dell'Europa «non soltanto, come l'Asia o l'Africa, una collezione ideale di popoli che non hanno di comune che un nome, ma una società reale che ha la sua religione, i suoi costumi, le sue abitudini e perfino le sue leggi, da cui nessuno dei popoli che la compongono può scostarsi senza provocare immediatamente dei torbidi».
Rousseau, pertanto, contesta la sua Europa – quella in cui vive –, ma certo non l'idea di Europa in generale. A suo parere il sistema dell'equilibrio (sempre in pericolo, minacciato di volta in volta dalla prepotenza dei singoli) dovrebbe essere sostituito da «un vero corpo politico», ovvero da un organismo federale rispettoso delle autonomie nazionali. Come è evidente, a piccoli passi ci si incammina verso l'Europa attuale. (Continua)

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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